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GIOVANNA D’ARCO – tra mito e leggenda

Creato il 09 novembre 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

444px-Joan_of_arc_interrogationdi Riccardo Alberto Quattrini. Ammettendo, sia pur con riserbo, che un destino, determini inconsciamente e segretamente, in ciascuno di noi, un punto nella vita di un uomo, è cosa che qualche volta ci soffermiamo a considerare. Se il destino di Jeanne d’Arc non avesse un epilogo tanto tragico, potrebbe essere raccontato come una storia scritta dalla penna di Lewis Carroll o dai Fratelli Grimm. Una storia che si consuma velocemente nei due anni compresi fra il 1429 e il 1431, dove la sua brevissima vita si esaurisce tutta all’interno di una delle fasi conclusive di quel lungo periodo di guerre e di disordini, chiamata dagli storici con il nome di “guerra dei Cent’Anni”. Per l’esattezza ne occorsero di più: centosedici dal 1337 al 1453.

A Domrémy, c’era un villaggio con una chiesa con poche povere case sgranate come un rosario, lungo la strada maestra che seguiva la sponda sinistra della Mosa, vi viveva una fanciulla in una modesta fattoria, costruita di solida pietra, proprio accanto alla chiesa, col tetto a una sola falda e due finestre che lasciavano entrare un po’ di luce nello stanzone fumoso, una stalla e una dispensa adeguate alle modeste esigenze della famiglia composta dal padre Jacques d’Arc, la madre Isabelle Romée devota e prodiga di pellegrinaggi e i fratelli maggiori, Jacques, Pierre e Jean. Jeanne, questo era il nome che le avevano dato quando nacque all’inizio del 1412, forse proprio la notte dell’Epifania.

Jeanne era una contadina analfabeta, che a diciassette anni, riuscì comunque a farsi affidare un esercito per liberare la Francia dagli inglesi. Combatté e vinse senza conoscere strategie militari, armi e cavalli. Mentre un comandate, per essere grande, deve possedere tre caratteristiche: istinto, intuito, convinzione, alle quali egli non può prescindere. Doti che Giovanna, questo il nome con il quale la conosciamo noi, non possedeva.

A Domrémy, come del resto della campagna francese, il suono delle campane scandiva la vita di tutto ciò che vi si svolgeva: il risveglio, i tempi del lavoro, le feste e i lutti, la chiesa e il sagrato erano, prima ancora che luogo di raccolta, corporeità dei valori della comunità.

La fanciulla, come tutte le altre, viveva una vita normale: accudiva alle faccende domestiche, filava, cuciva e nei giorni di festa si recava in chiesa, recitando le principali preghiere insegnatele dalla madre.

In primavera si univa alle compagne ai piedi di un grande albero, un faggio di spropositate dimensioni, meta delle rogazioni con cui il parroco di Domrémy invocava in processione la fertilità dei campi. Presso tale albero c’era una fonte con proprietà taumaturgiche detta “l’albero delle fate”, gli ammalati si recavano a berne l’acqua. Fu proprio accanto a tale albero che verso mezzogiorno, nell’estate del 1425 l’allora tredicenne Jeanne, un’età tuttavia in cui, nel Quattrocento, non si era più troppo bambine, udì la sua prima “voce”, la stessa di Maria quando ricevette l’Annuncio dell’Arcangelo Gabriele. La “voce” attribuita all’Arcangelo Michele, come sosterrà in seguito: santo divenuto protettore della vecchia Francia, che faceva resistere Mont-Saint-Michel agli attacchi anglo-borgognoni. Proprio l’Arcangelo al quale era devoto il Delfino, effigiato sulla bandiera, le annunciava la missione da compiere: salvare la Francia, liberarla dagli Inglesi e incoronare Carlo VII re di Francia a Reims. Dovettero trascorrere altri tre anni e convissuto con le “voci” di Santa Margherita patrona dei linaioli, e Santa Caterina, patrona delle filatrici, e mantenuto il segreto sul destino assegnatole da Dio, prima che si decidesse ad agire secondo le “voci”.

Fu nell’estate del 1428 quando gli anglo-borgognoni s’impadronirono di tutte le città della Mosa fedeli al delfino, e nel luglio dello stesso anno assediarono Vaucouleurs. Distrutta Domrémy, Jeannette non può più attendere e le “voci” la sollecitano con comandi e indicazioni precise. Così, senza avvisare i genitori, Jeannette che da quando si era sistemata a Vaucouleurs, a sottolineare la sua emancipazione dalla famiglia e dall’infanzia, non si faceva più chiamare Jeannette ma Jeanne, accompagnando il suo nome con l’appellativo Pucelle che ufficializzava ormai il voto pronunciato in segreto alle sue sante e dissipava ogni sospetto di stregoneria. Tutti ormai la conoscevano come Giovanna la Pulzella, – nome con la quale d’ora in poi la chiameremo – tutti cercavano di avvicinarla, di parlarle, di conoscere il segreto di cui era depositaria. Bertrand de Poulengy che aveva assistito al primo incontro di Giovanna con Robert de Baudricourt, capitano di Vaucouleurs, che aveva riso come tutti gli altri alle parole di scherno del capitano, si era poi schierato tra i suoi sostenitori più accesi. Mentre Jean de Metz, un gentiluomo del luogo, si era spinto ben oltre. L’aveva stuzzicata sulle sue speranze e i suoi progetti con l’intenzione di divertirsi a sua volta.

   <<Cosa ti aspetti?>> le aveva domandato. <<Non lo sai che il re sarà cacciato e diventeremo tutti inglesi?>> Ma si era sentito rispondere senza un’ombra di esitazione nella voce:

   <<Sto aspettando che Robert de Baudricourt si decida a farmi accompagnare dal Delfino, ma egli sembra sordo alle mie richieste. Eppure prima di metà Quaresima dovrò essere da lui, a qualunque costo, e vi posso assicurare che ci sarò, anche se per giungervi mi dovessi consumare le gambe fino alle ginocchia. Solo io posso salvare le sorti della Francia, anche se avrei preferito starmene a filare al mio paese accanto a mia madre, io lo farò perché questa è la volontà del Signore>>.

Le sue parole furono udite con vera commozione, suscitando un moto d’orgoglio e al contempo di speranza. Il 22 febbraio 1429 partì da Vaucouleurs diretta a Chinon, accompagnata da un manipolo di uomini, Colet de Vienne, un corriere reale, Jean de Metz, Bertrand de Poulengy e da Richard Larcher, anch’egli soldato al servizio del capitano di Vaucouleurs, seguiti ciascuno da un proprio servitore.

A Fierbois, nel santuario di Sainte-Catherine, dopo aver ascoltato messa, convinse un frate a scrivere, sotto dettatura, una lettera, che sarebbe stata cura di Colet de Vienne consegnare al Delfino; dove, senza tutte le perifrasi del linguaggio curiale, gli annunciava di avere già percorso centocinquanta leghe per accorrere in suo aiuto e di avere cose di grandi importanza da comunicargli, e di essere disposta a fornirgli subito una prova della soprannaturalità della sua missione, riconoscendolo senza esitazione in mezzo alla folla dei suoi dignitari.

Pervenuto l’assenso regio, Giovanna riprese il viaggio.

In abiti maschili, i capelli corti, con una fede sempre più ferrea e una popolarità crescente, giunse domenica 6 marzo 1429, dopo undici giorni di galoppo, a Chinon.

Il re, come al solito titubante e pessimista, vedeva con un certo fastidio la crescente aspettativa che il popolo aveva posto verso questa sconosciuta giovane ragazza, di cui egli credeva irrilevante e che avrebbe dovuto rimanere segreto. Aveva accondisceso a ricevere quella ragazza testarda, solo perché proposta da Baudricourt, uomo di sicura fedeltà e di saldi nervi, di cui si fidava ciecamente.  Tutto però avrebbe dovuto svolgersi nel più assoluto segreto, dopo tutte le dovute precauzioni possibili. Egli non sapeva nulla con chi aveva a che fare; poteva essere una pazza visionaria o addirittura un’assassina.

Dopo le convincenti e favorevoli risposte degli uomini che le erano restati al suo fianco per tutto il viaggio, i contatti proseguirono inviando dignitari di corte e prelati a parlare direttamente con Giovanna, che da quando era arrivata aveva preso alloggio presso una modesta locanda. Le autorità ecclesiastiche e i teologi che la sottoposero a incessanti interrogatori si convinsero di avere a che fare con un’inviata del Signore o, nella peggiore delle ipotesi, con una sprovveduta visionaria che però poteva risultare utile per galvanizzare gli animi sfiduciati della gente.

Finalmente il 6 marzo 1429 il Delfino si decise riceverla a corte.

Giovanna riconobbe immediatamente il suo Delfino, che non aveva mai visto, tra la mischia nella quale si era celato.

   <<Nobilissimo signor Delfino>>, disse inginocchiandosi come prescriveva il cerimoniale.

   <<E’ questo il re?>> si schermì Carlo indicando il conte di Clermont che aveva assunto abiti e atteggiamenti regali proprio per trarre in inganno la contadina.

   <<Nobilissimo signor Delfino>>, ripeté sempre rimanendo in ginocchio <<re di Francia, è il Re dei Cieli e io, Giovanna la Pulzella, vengo da parte sua a dirvi che sarete incoronato nella città di Reims e diventerete il suo luogotenente.>>

Ancora una volta a Giovanna erano bastate poche semplici parole per vincere la diffidenza e l’ostilità dell’uditorio. Principi e dignitari non erano riusciti ad abbagliare con la loro pompa quell’adolescente infagottata nei panni grossolani del soldato.

Giovanna, una volta ottenuta l’attenzione del Delfino, gli espose i passi da compiere, rammentandogli che le erano stati suggeriti da Dio. Liberare Orléans, incoronarlo Re a Reims, cacciare definitivamente gli inglesi dal suolo francese, e liberare Carlo, duca d’Orléans, prigioniero a Londra.

Ora, il Delfino non poteva più attendere, inviò la Pulzella a Tours, le diede i soldati richiesti, tra i quali i due fedeli Jean de Metz e Bertrand de Poulengy e un cappellano. Fu costruita un’armatura apposta per lei e le furono donati dei cavalli. L’arma della Pulzella fu una spada che la “voce” di Santa Caterina le aveva indicato: fu ritrovata proprio dietro l’altare del santuario di Ferbois, infissa per terra, con cinque croci incise sulla lama, corrispondenti alle indicazioni date da Giovanna. Lei fece rimarcare su uno stendardo, con fondo argenteo pieno di gigli bianchi, l’iscrizione “Jesus-Maria”, con l’immagine di Dio da una parte e lo scudo della Francia sul rovescio, per guidare le truppe. Per evitare disordini all’interno dell’esercito a causa dell’arrivo della strana soldatessa, Carlo affidò la campagna militare al duca d’Alenço, genero del duca d’Orléans, mosso da un grande sentimento di legittimità contro gli usurpatori Inglesi e di simpatia verso Giovanna.

Il 28 Aprile 1429, un giovedì, con l’appellativo di Guerriera, la vergine, alla testa di una colonna di soldati e di un convoglio di rifornimenti, partirono da Blois, alla volta di Orléans per liberarla dall’assedio Inglese.

Il coraggio e la fama di Giovanna stava per essere messo alla prova.

Orléans era sotto assedio da sei mesi, delle cinque porte che interrompevano la cinta muraria, ciascuna guarnita di due torri comunicanti tramite un ponte levatoio, con un bastione che serviva da difesa avanzata. Solo la Porta di Bourgogne era praticabile, Giovanna la oltrepassò, seguita da Giovanni d’Orléans detto “il Bastardo”, perché frutto degli amori di Luigi duca d’Orléans e Mariette d’Enghien, signora di Chauny, e che Valentina Visconti, la consorte milanese del duca, dopo l’assassinio del marito in seguito all’attentato ordito dal duca di Borgogna, aveva accolto come un altro figlio.

Il suo ingresso fu trionfale, un incedere come i santi guerrieri delle apparizioni su un grande cavallo bianco, chiusa nella risplendente e brillante armatura argentea, impugnando lo stendardo candido e seguita dal “Bastardo” e da un leggendario capo militare, il guascone Etienne de Vignolles che, per il suo carattere impulsivo e irruento, si gloriava l’appellativo di “La Hire”, per la violenza e l’ira con la quale affrontava i nemici. Una folla sempre più numerosa, prese a formarsi attorno alla Pulzella, felici di poterla toccare e ammirare in tutto il suo splendore.

Giovanna, com’era usanza militare a quel tempo, inviò tre lettere di sfida agli inglesi: si trattava di missive categoriche nelle quali la sicurezza del mandato divino suonava come superba sicurezza, ma che erano tuttavia accompagnate, un apparente paradosso, anche da espressioni umili e quasi imploranti. Sgombrassero subito il campo, nel nome del Signore secondo la Sua volontà. La risposta degli inglesi non si fece attendere. L’insolenza che misero in quelle parole, fu seconda al desiderio di vederla cadere da cavallo in mezzo al fango. I due massimi titoli d’onore della Pulzella, il rapporto con le “voci” e la verginità, per loro erano sinonimi di “strega” e “puttana”. Se Giovanna confidava in san Michele, gli inglesi avevano dalla loro san Giorgio che li proteggeva.

Giovedì 5 maggio 1429, giorno dell’Ascensione, la Pulzella aveva predetto la ritirata degli inglesi entro cinque giorni, e pretese un altro attacco, nonostante i comandanti preferissero attendere l’arrivo dei rinforzi.

   <<Voi avete il vostro consiglio ed io ho il mio>>, disse. <<Credetemi, il consiglio di Dio porterà al successo, il vostro a niente>>. Il sostegno della popolazione indusse i generali a darle retta, così alle 7 del mattino Giovanna, seguita dal suo esercito, si fece avanti fin sotto il fossato e scatenò la battaglia più cruenta dell’assedio.

Settantuno cannoni, varie colubrine e perfino numerose catapulte ne presidiavano gli spalti, ma non furono sufficienti a fermare la Pulzella. Così il 7 maggio i francesi conquistarono la bastìa detta “degli agostiniani”, la fortificazione a guardia del ponte sulla Loira che permetteva l’accesso alla città da sud. Giovanna già in precedenza si era ferita a un piede con una  chausse-trape, una specie di chiodo a molte punte con cui seminava il terrore tra le truppe; mentre in quell’ultimo scontro un berrettone di balestra le si conficcò tra il collo e la spalla: gridò di dolore e pianse, ma, secondo le testimonianze del suo cappellano frate Jean Pasquerel, respinse l’offerta dei suoi fedelissimi che le proponeva di “incantare” la ferita con un amuleto per calmare il dolore. Giovanna scelse semplicemente un impacco d’olio e lardo e tornò subito a combattere.

Dopo sette mesi d’assedio e sette giorni di combattimenti continui, le sue predizioni avevano sforato di soli tre giorni. Era l’8 maggio quando Orléans capitolò e fu liberata, i fortilizi nemici smantellati e gli inglesi costretti a ripiegare.

Giovanna aveva mantenuto la parola.

Se la folla più scomposta e incanaglita improvvisamente palpitava di fervore religioso e di coraggio militare, pronte a migliaia a ingrossare le file delle sue truppe, per combattere con un condottiero la cui strategia era ispirata direttamente da Dio!

Tutto sembrava procedere secondo la protezione divina. Dopo la veglia del sabato, domenica 17 luglio 1429 nella cattedrale di Saint-Remy, tradizionale sede per la consacrazione dei sovrani francesi, il Delfino fu consacrato Carlo VII re di Francia, seguendo il cerimoniale tradizionale al fianco di Giovanna che teneva alto il suo bianco stendardo con dipinti due angeli, ciascuno con un fiordaliso in mano, e sul gonfalone era dipinta un’annunciazione. Giovanna, quando l’arcivescovo Regnault de Chartres, incoronò Carlo VII, s’inginocchiò e pianse di gioia mentre il popolo gridava “Noël!”.

Se è vero che il morale conta molto in guerra, le schiere francesi ne erano pervase tanto da restituirgli l’antico spirito combattivo, mortificato ripetutamente a Sluys, a Crécy, a Poitiers e ad Azincourt.

A chi le chiedeva se fosse prudente cercare a tutti i costi la battaglia, Giovanna aveva dato una risposta sibillina:

   <<Avete buoni speroni?>>.

Tutti l’avevano interpretata come un invito alla ritirata. Poi con un sorriso, aveva subito spiegato che a ritirarsi sarebbero stati gli inglesi e che gli speroni sarebbero stati necessari per inseguirli.

Finalmente, quasi alle porte di Patay, l’esercito inglese, che per molte settimane non si era praticamente fatto veder, si materializzò. Tutta colpa di un cervo terrorizzato che si era trovato a passare a portata di tiro degli inglesi, provocando il loro istinto di cacciatori, più forte della loro prudenza di soldati. Le urla e il trambusto dell’improvvisata battuta, rivelarono la posizione del nemico e consentirono ai francesi di schierarsi per primi, in favore del vento e di luce, senza lasciare agli inglesi il tempo di piantare quelle selve di pioli che costituivano un ostacolo insormontabile per i cavalli e un prezioso riparo per arcieri e balestrieri.

Dopo tante tergiversazioni, scaramucce d’assaggio, rinvii adesso i due eserciti si trovavano di fronte in campo aperto e con un dispiegamento di forze che propendeva per gli inglesi.

Era il 18 giugno, i francesi disponevano di un’armata forte di 6 mila uomini, che affrontò in campo aperto gli inglesi. Fu l’attacco fulmineo voluto, sembrerebbe, proprio da Giovanna che, determinò le sorti della battaglia. I morti, secondo alcune fonti, da parte inglese furono 10 mila, mentre tra i francesi solo 3: senza dubbio si trattò di una esagerazione, ma comunque fu una grande vittoria, se perfino il comandante inglese John Talbot, conte di Shrewsbury, finì tra i prigionieri. Per il popolo i successi delle armate francesi erano merito della Pulzella, che ormai si era creata un partito di sostenitori – tra cui il Bastardo e il duca di Alençon – anche tra i maggiorenti del regno. I suoi successi le consentirono di entrare senza combattere dapprima a Troyes e poi nella stessa Reims. Una settimana dopo, il 17 luglio come abbiamo visto, il Delfino, che aveva fatto ben poco per guadagnarsi la corona, divenne re di Francia come Carlo VII, in contrapposizione a Enrico VI.

Fosse stato per lei, Giovanna non si sarebbe fermata. Era pur vero che aveva trasformato la strategia francese da difensiva in offensiva. Ma non si accorse, presa com’era dalla sua missione e dalle “voci”, che il vento della Storia stava cambiando. Il nuovo re e la sua corte, anziché approfittare del momento propizio per marciare su Parigi, pensarono a una tregua col duca di Borgogna, Filippo il Buono, al quale era stata affidata dagli inglesi la custodia della capitale, concedendogli i centri della regione dell’Oise, fedeli al Re, in cambio della pace. L’8 settembre 1429 d’accordo con i suoi capitani, Giovanna raggiunse Parigi, dove con la sua compagine si recò fin sotto le mura della città, circondate da un primo e un secondo fossato, il secondo era allagato e qui la Pulzella dovette fermarsi misurando la profondità dell’acqua con la sua lancia. D’improvviso fu ferita da una freccia che le attraversò la coscia. Ciononostante non volle lasciare la posizione, ordinò invece di gettare fascine e altro materiale per riempirlo. Il giorno seguente furono raggiunti da due emissari che le intimarono, per ordine del Re, di interrompere l’offensiva e tornare a Saint-Denis.

Giovanna ubbidì.

Il 21 giugno, il Re dispose lo scioglimento dell’armata e si avviò verso sicuri castelli della Loira.

Giovanna però, mostrava di non essere placata nell’animo. C’erano ancora troppe città in mano agli inglesi o agli amici traditori, venduti per pochi soldi, perché non si dovesse pensare a un’azione definitiva per farli evacuare dalle terre di Francia.

Una di queste era Compiègne nella regione dell’Oise. La Pulzella non ascoltò gli ordini, partì senza preavviso da Sully nel marzo del 1430, a capo di 200 mercenari piemontesi, assoldati da Bartolomeo Baretta. Oramai combatteva solo per se stessa, per seguire le sue “voci”, voci che le avevano comunicato la sua prossima caduta in mano ai nemici entro il 24 giugno, il giorno di San Giovanni. Pur sapendo che sarebbe stata la sua ultima azione militare, Giovanna non si sottrasse alla sua missione. Qui prese Margny, una delle fortezze costruite dagli avversari per l’assedio. Durante un giro di ricognizione intorno alla fortezza, fuori dalle mura della città, le porte si chiusero davanti, mentre un gruppo di anglo-borgognoni assaliva l’armata della guerrigliera.

   <<Durerò un anno, non di più>>, pare avesse detto a Chinon, un vaticinio che si era avverato. Fu catturata da Lionel de Wamdonne, luogotenente di Jean de Luxembourg conte di Ligny, fedele vassallo del duca di Borgognone.

Era il 23 maggio 1430, un martedì. Il periodo glorioso della guerriera liberatrice era concluso, adesso cominciava la discesa fino alla morte.

Vi fu un urlo di gioia, nelle file anglo-borgognone, all’annuncio della cattura di Giovanna. Immediatamente furono avviate le trattative con Carlo VII e Filippo III di Bourgogne per il suo rilascio, ma Carlo, il suo “dolce re” si rifiutò, non fece neppure un tentativo per liberare colei che gli aveva regalato vittorie e una corona dorata.

Agli inglesi, invece, premeva il suo riscatto, una Giovanna nuovamente in campo era assai pericoloso, inoltre volevano provare la sua natura eretica per delegittimare l’incoronazione di Carlo, da lei scortato fino a Reims. Pertanto instaurarono un processo-farsa accusandola di stregoneria.

La corte di Carlo non fu da meno, si adoperò anch’essa per denigrarne la figura, prese a ridicolizzarla, a screditarla agli occhi della Francia, minimizzando il contributo, ben più evidente che quelle misere manovre politiche, che Giovanna aveva dato nelle numerose battaglie alle quali aveva partecipato. Giovanna era il prodotto residuo di un periodo passato, ora non più gradito, un contenitore usato e inutile, da riscattare oltretutto a peso d’oro: il gioco non valeva la candela, tanto meglio quindi eliminarla dalle coscienze. Ma non tutta la Francia l’aveva abbandonata: processioni e preghiere ebbero luogo a Tours, e in tutti i territori, dove la Pulzella era assurta a protagonista.

I dottori dell’Università di Parigi, il 26 maggio, chiesero, in forma epistolare, che la ragazza fosse processata dall’Inquisitore di Francia, giacché sospettata d’eresia.

Il 9 gennaio 1431 iniziava così il processo presso Rouen nel castello de Le Bouvreuil, fortezza di Richard Beauchamp. Il duca di Bedford, reggente di Francia, fu il vero patrocinatore del processo, reggente il vescovo di Beauvais Pierre Cauchon. Il processo si divideva in due fasi: “L’istruttoria”, fondata sulle testimonianze raccolte su una supposta cattiva fama della Pulzella, e una “ordinaria”, con l’invito a pentirsi, o, se strettamente necessario, la tortura e la sentenza.

L’Inghilterra, pur di influenzare il processo, e colpire re Carlo attraverso colei che della sua incoronazione era stata l’artefice, voleva dire delegittimare il re di Francia, mise sul piatto fiumi di denaro per ottenere la prigioniera, in altre parole diecimila lire tornesi, oltre che l’influenza di Cauchon.

Così, al principio di novembre, forse ad Arras, Giovanna passò in mani inglesi. Carlo VII osservò la vicenda, in silenzio, forse, in ritardo, si stava accorgendo dello sbaglio che aveva commesso a non riscattarla. Tra gli Inglesi il vescovo di Norwich e al di sopra del Collegio Giudicante, il cardinale di Winchester, prozio e cancelliere di Enrico VI, assistettero al processo.

Giovanna che conosceva la fama degli inglesi nel turpiloquio, in Francia erano chiamati Godon, storpiando così la bestemmia preferita oltremanica, ebbe modo di verificarla personalmente. Le dicevano che fosse una strega, oltre che una puttana, forse col preciso obiettivo di sfiancarne il morale. Pare fosse fatta oggetto di continue attenzioni da parte dei suoi carcerieri, ma nessuno sa se queste arrivarono allo stupro. Il che, peraltro, non stupirebbe. Nella prima fase, almeno, la Pulzella non rischiava la morte: sarebbe bastato ammettere l’eresia, e spogliarsi quindi dalle vesti sacre, per essere forse confinata in uno dei tanti monasteri che, purtroppo, adempivano questo compito in tutto il continente. Ma Giovanna mostrava di credere alle sue “voci”, e le difendeva con successo, nonostante l’Europa del periodo cominciasse ad affrontare quella fase persecutoria, e bigotta, che va sotto il nome di “caccia alle streghe”: donne spesso sole, e vulnerabili, ree di essere state iniziate all’arte divinatoria.

Il 27 marzo iniziò la seconda fase “ordinaria” del processo, la prima durò fino al 26 marzo, dove si chiedeva all’imputata, sottoposta anche a tortura, di pentirsi e di confessare. La tecnica adottata nei colloqui era, in effetti, molto dura; accadeva fosse interrogata per ore, e spesso più volte il giorno, per accelerarne il crollo psicologico. Inoltre, l’interrogatorio prevedeva rapidi cenni su ogni argomento (i settantadue capi d’imputazione), cambiando continuamente discorso, affinché la ragazza cadesse in contraddizione, e potesse essere più facilmente appurata la sua fede eretica. Una frase detta in un momento di rabbia, il corpo provato da innumerevoli patimenti e privazioni, le fece dire una frase di sfida per la corte:

   <<Se anche vedessi la miccia accesa, la catasta di legna preparata e il boia pronto a darle fuoco, se io stessa già mi trovassi avvolta dalle fiamme, non direi nulla di più e sosterrei quello che ho detto al processo fino alla morte>>.

Non c’era più altro da aggiungere. Il processo si poteva ritenere finito. Restava solo darle la sanzione finale, ma vi doveva assistere tutta la folla che non aveva mai potuto avere accesso alle sale del castello in cui il processo si era celebrato. Fu scelto il cimitero di Saint-Ouen dove, in gran fretta furono eretti due palchi. Sul più grande di essi presero posto tutti quelli che avevano partecipato al processo. La folla si assiepava vociante fin sui gradini dei due palchi e sembrava conquistata dall’esilità e dal pallore della Pulzella che vedeva per la prima volta.

Era la mattina del 24 maggio, Cauchon incominciò a leggere la sentenza di condanna.

All’improvviso Giovanna lanciò un grido soverchiando le formali e tediose parole del vescovo. La giovane combattente svuotata da ogni risentimento né sfida alcuna, sfiduciata dalla mancanza di un aiuto dall’alto, urlò parole di clemenza che subito la folla coprì con un brusio continuo di stupore e un clamore gioioso. Anche sul palco delle autorità quell’uscita inaspettata aveva scatenato un putiferio. I vescovi si consultavano febbrilmente, Cauchon, ancora incredulo, discuteva col cardinale d’Inghilterra, mentre il segretario del re Laurent Calot, urlava al tradimento. A quell’urlo Guillaume Erard, sull’altro palco, aveva tirato fuori da una manica della tonaca un documento e pregava Giovanna di firmarlo. Era una breve formula di abiura che fu letta a voce alta, affinché la giovane donna comprendesse, ma anche in favore della folla.

L’abiura che fu letta a Giovanna non era più lunga che otto righe, nelle quali s’impegnava a non riprendere le armi, né portare abito d’uomo, né capelli corti, mentre agli atti fu messo un documento di abiura di quarantaquattro righe in latino.

Giovanna forse confusa, stordita e stanca, forse nemmeno si rendeva conto cosa stava facendo, di fronte a quella folla che certo non si voleva perdere quello spettacolo, vi appose, guidata dalla mano del frate, il suo nome, l’unica parola che sapeva scrivere.

Cauchon, quando la calma era tornata, dopo quella scena concitata, poté leggere la sentenza: in ragione del suo ravvedimento, ma a causa delle gravi colpe commesse, Giovanna era condannata alla prigione perpetua.

La sentenza emessa era comunque durissima: Giovanna era condannata alla carcerazione a vita nelle prigioni ecclesiastiche, a <<pane di dolore>> e <<acqua di tristezza>>. Nondimeno, la ragazza sarebbe stata sorvegliata da donne, non più costretta da ferri giorno e notte, libera dal tormento dei continui interrogatori; quale dovette essere la sua sorpresa quando udì le parole di Cauchon che ordinava: <<Conducetela là dove l’avete presa>>. Questa violazione delle norme ecclesiastiche fu con ogni probabilità voluta dallo stesso Cauchon per un fine preciso, indurre Giovanna a indossare nuovamente l’abito da uomo per difendersi dai soprusi dei soldati. Cauchon, evidentemente si convinse che era necessario giocare d’astuzia con Giovanna. La sua repentina e tardiva confessione non lo aveva convinto fino in fondo. Forse si poteva ancora sperare in una reiterazione dei suoi peccati. Sarebbe bastato poco. Infatti, solamente i relapsi, ossia coloro che, avendo già abiurato, ricadevano in errore, erano destinati al rogo.

Gli inglesi, tuttavia, si erano convinti che oramai Giovanna fosse sfuggita loro di mano, infuriati per quella che ritenevano fosse la sua giusta punizione, ignorando le procedure dell’Inquisizione, si abbandonarono a una deplorevole protesta contro lo stesso vescovo Cauchon giungendo anche a lanciargli pietre.

Mentre Giovanna dileggiata con più ferocia, dai suoi carnefici che la vedevano nuovamente rinchiusa nella sua angusta cella, ben presto si rese conto dell’errore fatale in cui si era lasciata trascinare. Non era tanto l’apostasia in cui per sfinimento si era riconosciuta, lei aveva rinnegato Dio, le sue “voci”, la sua stessa vita. Cosa c’era di tanto drammatico nella condanna subita, il taglio dei capelli, l’abbandono degli abiti maschili, lei che era stata un soldato di Cristo e del suo re, e adesso per una sciocca presunzione o tardiva viltà, sarebbe morta come qualunque pavida femminuccia, quando anche le guardie sarebbero state sazie del suo corpo impuro. Fu per questo motivo che aveva chiesto con insistenza, come le era stato promesso, che fosse custodita in una sede religiosa, ciò avrebbe significato, nel suo caso, un abito monastico e la possibilità di ascoltare messa.

Ma il disegno del vescovo Pierre Cauchon si stava realizzando.

La domenica del 27 maggio giorno della SS Trinità, mentre dai campanili di Rouen le campane suonavano a festa, Giovanna si era convinta udendo ancora le “voci” che poteva rappacificarsi con il Signore e le sante. Gli abiti maschili erano ancora lì nella cella, gettati in un sacco per distrazione o per malizia, quale migliore prova di disubbidienza si presentavano. Infatti, poco dopo, il vescovo di Beauvais fu avvertito che la ragazza aveva nuovamente indossato gli abiti maschili. Cauchon, seguito da alcuni frati, salì alla prigione così videro che nuovamente indossava abiti maschili. Invece di tentare giustificazioni attendibili, Giovanna affermò coraggiosamente di aver indossato gli abiti maschili di propria iniziativa, poiché si trovava tra uomini e non, come suo diritto, in una prigione ecclesiastica, sorvegliata da donne. Inoltre affermò di udire nuovamente le “voci” che, per bocca di santa Caterina e santa Margherita, le avevano fatto capire quale miserabile tradimento aveva commesso, accettando di ritrattare tutto per paura della morte e che volendo salvarmi avevo venduto l’anima. E aggiunse:

   <<Preferisco fare penitenza in una sola volta e morire piuttosto che sopportare più a lungo la sofferenza di questa prigione>>.

Cauchon, uscendo dalla prigione, seguito dalla combriccola di religiosi, s’imbatté in Warwich e altri inglesi e, in un divertente miscuglio di lingue esclamò:

   <<Fare well, state allegri, è fatta…>>, lasciandosi scappare un sorrisetto disonesto. Un risultato inatteso, un ribaltamento del destino. La decisione della Pulzella di indossare gli abiti maschili, quando tutto ciò era proibito ed era scritto nell’abiura, da lei sottoscritta, aveva fatto di Giovanna il suo carnefice, essa stessa aveva contribuito ad appiccare il fuoco al suo falò.

A questo punto non restava che la condanna al rogo per eresia che fu istituita per il 30 maggio 1431.

Intanto nella piazza del Mercato Vecchio era stato issato, sopra un’alta impalcatura, il palo del supplizio e tutto intorno erano stati accatastati rami e fascine. In cima al palo era stato appeso un cartello con innumerevoli scritte ingiuriose. Di fronte al patibolo, erano state erette due tribune su cui dovevano prendere posto rispettivamente i giudici religiosi e il balivo con le altre autorità civili. Poco distante un piccolo palco, pronto per ricevere il balivo il quale avrebbe lwetto la sentenza di condanna, e un ecclesiastico per dare un ultimo conforto alla condannata. La folla era accorsa come sempre numerosa, quando si trattava di assistere a un rogo, lo spettacolo era assicurato ma quel giorno inspiegabilmente, la folla era silenziosa e mesta, docile alle ingiunzioni degli innumerevoli soldati inglesi chiamati a contenerla, restia perfino ad abbandonarsi all’euforica eccitazione che un rogo poteva procurare. Oltre che sulla piazza, si era distribuita lungo il percorso che Giovanna avrebbe dovuto compiere. Quando la carretta avanzò, con sopra Giovanna infagottata nella grezza tunica bianca, apparve fragile e smunta. Con lei vi erano fra Martin e Jean Massieu.

La folla vedendola giungere su quel carretto, fu presa da una forte emozione e i soldati faticavano a contenerla. Contro ogni regola per abbreviare la cerimonia, che si era protratta oltre ogni resistenza degli astanti, il balivo rinunciò a pronunciare la sentenza, limitandosi a indicare con un gesto enfatico il patibolo.

Mentre saliva con vera pena, i pochi gradini che la conducevano al patibolo sorretta da due soldati, Giovanna comprese che il suo tempo era finito, che non le sarebbe bastato per invocare la Vergine e le sue sante. Implorò una croce. Un soldato inglese impietositosi, presi due rametti di fascine e legateli insieme glieli porse. Giovanna la baciò con voluttà e se la mise in seno un attimo prima che gli inservienti le legassero le mani dietro il palo. Sul capo, liberato dal cappuccio, le era stata messa una mitra di pergamena con la scritta: “Eretica, relapsa, apostata, idolatra”. Mentre frate Martin s’intratteneva con la condannata fino all’ultimo per consolarla. Quando iniziarono ad accendere le micce, il frate alzò in alto il braccio e la confortò con il segno della croce scandendo: in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Le carni di Giovanna, dalla sua bocca contratta in una smorfia atroce di dolore, le uscì un’invocazione a Gesù che era un grido disumano, ma non riuscì a coprire il crepitio dei rami, i gemiti della folla ammutolita, le grida concitate del boia che inutilmente ordinava ai suoi aiutanti di porre fine a quel tormento con le lunghe picche appuntite.

Era, ancora una volta, il mese di maggio. Come al tempo delle fate, come sotto le mura d’Orléans.

Vi è un misterioso e costante legame, forte come un filo sottile di ragno, che unisce la breve vita di Giovanna allo splendore della primavera. Dopo il maggio dei riti arcaici, fecondo e gravido del risveglio della natura che l’inverno aveva assopito, dopo il clangore delle battaglie del maggio cavalleresco, ecco ora il fuoco e il fumo del maggio del martirio. Come Maria, anche Giovanna aveva fatto proprio il mese delle rose. Come a Mont Saint Michel santuario gotico, in cui gli abati dovettero molte volte abbandonare la croce per la spada, per difenderlo dagli attacchi e dalle invasioni; così Giovanna aveva parlato con gli angeli, guidato schiere in battaglia, lavorato e sofferto nei suoi diciannove anni passati in un lampo, dall’”albero delle fate” carico di speranze e sogni, al tronco scabro e spoglio del patibolo di Rouen, tanto simile alla croce.

Tre mesi dopo, Gustavo Bouillé teologo dell’Università di Parigi, fu incaricato di condurre un’inchiesta preliminare; egli doveva dimostrare che il Re di Francia Carlo VII non aveva mai favorito gli eretici. L’inchiesta appurò l’ingiustizia della condanna, e inoltre stabiliva la necessità di un nuovo processo, tutto per non urtare molti personaggi dell’Università e del clero che avevano preso parte al processo dichiarandosi favorevoli alla condanna. Condanna che era stata inflitta in buona fede stante i 12 articoli dell’accusa che, in seguito, si dimostrarono pieni di falsità.

Fu così suggerito alla madre Isabelle Romée e ai fratelli, di formulare una richiesta di riabilitazione, affinché sua figlia Giovanna potesse trovare giustizia. Tale processo sarebbe rientrato nell’ambito del diritto privato, aggirando in tal modo, la questione politica che avrebbe rappresentato.

Il 7 luglio 1456 il tribunale emanava la nuova sentenza che riabilitò Giovanna d’Arco e così il Re Carlo VII fu legittimato.

Erano trascorsi 25 anni dalla sua morte.

BIBLIOGRAFIA

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Michel Caffin de Merouville, Le beau Dunois et son temps, Parigi, Nouvelles Éditions Latines, 2003. ISBN 2-7233-2038-3.

Bogliolo Giovanni: “Giovanna d’Arco” BUR Biblioteca Univ. Rizzoli (collana Superbur saggi) €6,99

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Biografie: Giovanna d’Arco la ragazzina che liberò la Francia. Giovanna d’Arco. La ragazzina che liberò la Francia

AA.VV.  ISBN: 9788896034156  Copyright © 2013, Focus (Gruner+Jahr/Mondadori libri)

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Jules Michelet, Giovanna d’Arco, Napoli, FILEMA edizioni, 2000. ISBN 88-86358-39-3.

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Cfr. e voci: Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Featured image, Giovanna interrogata dal cardinale di Winchester, dipinto di Paul Delaroche del 1824. Musée des Beaux-Arts, Rouen.

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