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Give me a… Leone!

Creato il 04 dicembre 2013 da Nasreen @SognandoLeggend

cinemamania

GIVE ME A… LEONE

Un romano alla conquista del West
Tematiche della filmografia di Sergio Leone

di Mirko De Gasperis

 

Give me a… Leone!
 Filmografia Registica Completa:

 Gli ultimi giorni di Pompei1959
 Il colosso di Rodi – 1961

 Trilogia del Dollaro

 Per un pugno di dollari – 1964
Per qualche dollaro in più – 1965
Il buono, il brutto, il cattivo – 1966

 Trilogia del Tempo

 C’era una volta il West – 1968
Giù la testa – 1971
C’era una volta in America – 1984

 

Sergio Leone, nato a Roma nel ’29, comincia il suo rapporto con il cinema fin da giovanissimo, ritrovandosi come comparsa in “Ladri di biciclette” di De Sica, a soli 18 anni. In seguito collaborerà come aiuto regista in produzioni hollywoodiane del calibro di “Ben Hur” e “Quo vadis?”, anche se non accreditato, prima di avere la sua prima regia con “Gli ultimi giorni di Pompei” subentrando al regista precedente, poi con “Il colosso di Rodi”, peplum, genere che andava in quegli anni. Ma questi sono solo i preamboli per i successivi film, suddivisi nelle due trilogie che compongono la sua filmografia (trilogie create più dalla critica, dalla stampa e dagli spettatori che non da Leone stesso): “la Trilogia del Dollaro” e “la Trilogia del Tempo”. 

Give me a… Leone!

Anche quando girerà “Per un pugno di dollari” (1964), Leone avrà sempre ben in mente questa sua idea, anzi verrebbe da dire proprio idealizzazione del mito, che aveva appena accennato con “Il colosso di Rodi”: figure appartenute al passato, mitiche appunto, che sembrano resistere anche alla storia. Non solo personaggi dell’Antica Grecia, quindi, ma anche i cowboy e, come vedremo più avanti, i gangster.

La trama è tanto semplice, quanto ordinaria: un cowboy senza nome e misterioso giunge nel solito villaggio western, senza regole o leggi, con due famiglie locali in una sorta di guerra fredda, che si spartiscono il controllo della zona. Tramite un rischioso doppio gioco e la velocità nello sparare, il cowboy finisce per metterli gli uni contro gli altri e ottenere il bottino finale.

Detto così, sembrerebbe un film come un altro (per la precisione come “La sfida del samurai” di Kurosawa, che infatti intenterà una causa per plagio, ottenendo i diritti sulla distribuzione nell’est asiatico e una percentuale sui ricavi mondiali). Ma guardando il film, si intuisce subito che qualcosa non torna, che non si è di fronte al solito western, specialmente per l’epoca. Lo spettatore non si trova più davanti ai classici eroi, puliti e senza macchia. Il realismo invade ogni pellicola di Leone, così abbiamo di fronte cowboy con la barba di qualche giorno, sporchi, rozzi, ma soprattutto cinici. Anche lo stesso protagonista, per quanto nel finale compia anche dei gesti nobili, facendolo classificare come positivo, ci lascia sempre qualche dubbio, soprattutto pensando al suo obiettivo finale: avrebbe compiuto quelle azioni da classico “eroe buono”, se avessero bloccato il suo obiettivo finale, ovvero i dollari? Il dubbio resta forte, perché nel film e poi nei due seguenti, che andranno a formare la cosiddetta “Trilogia del dollaro”, è proprio la moneta, i sacchi di dollari sonanti, il vero motore delle storie leoniane.

Non c’è spazio per l’eroe senza macchia, che invece si trovava spesso nei film di John Ford, il padre americano dei classici western (di cui peraltro Leone era anche ammiratore). Come se non bastasse l’ambientazione “sfregiata” e abbruttita dell’originale, Leone si spinge oltre, andando a spezzare anche tutti i clichés del western stesso. È ormai una frase cult, quella pronunciata da Ramon Rojo (un ottimo Gian Maria Volonté): “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto”. E quando il cowboy senza nome (in realtà, solo per questo film viene nominato come Joe, nome che poi sparisce nei film seguenti) sfida il rivale, ripetendogli quella frase, sul finale del film, aggiungendo un “vediamo se è vero”, con tono irrisorio, è Leone stesso che in realtà sfida al duello l’intero genere western, per come era stato fino a quel momento. Un duello che vince alla grande, riconosciuto subito dal pubblico. 

Quell’anno, “Per un pugno di dollari” resta al vertice delle classifiche nostrane per mesi, battendo ogni record di incassi. E lo stesso avverrà in America, la patria del western. Ma, almeno all’inizio, la critica non lo esalta come dovrebbe. Specialmente negli Stati Uniti, che sentono quasi perdere lo scettro di legittimi “padroni” di quel genere ormai in declino, sfidati da un regista romano, che ha girato il suo film in Spagna, oltretutto! Infatti la produzione di “Per un pugno di dollari” sarà molto travagliata, con una produzione ispanico-tedesca molto insolita, con Leone stesso che si ritrovò a rischiare, e molto, dal punto di vista economico.

Anche dal punto di vista attoriale, nonostante Leone cercasse almeno un volto noto fra i maggiori interpreti del western americano, si dovette “accontentare” di un allora sconosciuto Clint Eastwood, interprete di una serie americana dell’epoca, “Rawhide”, che però il regista vide, finendo per sceglierlo assieme alla produzione. Un’intuizione azzeccata: Eastwood, con le sue espressioni quasi assenti, di ghiaccio, con il sigaro toscano e il poncho, darà vita ad un personaggio rimasto nella storia del cinema, western e non. “Mi piace Clint Eastwood perché è un attore che ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza cappello” dirà di lui Leone.

Un altro elemento importantissimo, forse fondamentale, sono sicuramente le musiche di un ancora semisconosciuto Ennio Morricone, compagno di classe di Leone alle elementari, che da quel film in poi comparirà in tutti i film diretti dal regista. Ancora oggi, riguardando e riguardando le varie sequenze, è impossibile capire se siano le musiche ad esaltare le scene, o viceversa, come due ingredienti che, mescolandosi, esaltano i propri sapori a vicenda. Un po’ come il formaggio sugli spaghetti, spaghetti-western in questo caso. Perché d’ora in poi, sarà questo il nomignolo affibbiato a quello che veniva un sottogenere del western “ufficiale”, di matrice italiana. 

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L’anno seguente, con i riflettori ormai puntati su di lui, Leone si appresta a girare quello che doveva chiamarsi inizialmente “La collina degli stivali”, ma che poi venne rinominata “Per qualche dollaro in più” soprattutto per una questione pubblicitaria, poiché richiamava il nome del film precedente. Vengono riconfermati Morricone alle musiche (il suo tema del carillon è qualcosa di storico), Eastwood come protagonista e Volonté come antagonista, affiancati da Lee Van Cleef, convinto dallo stesso Leone a tornare sulle scene (l’attore aveva in quel periodo deciso di smettere, arrangiandosi come pittore). Cambia invece il partner spagnolo della precedente co-produzione che aveva dato non pochi problemi all’intera troupe.

“Per qualche dollaro in più” vede quindi il ritorno del cowboy senza nome, qui soprannominato come il Monco, poiché si dice che usi soltanto la sinistra, perché la destra gli serva per sparare. Sempre mosso dalla ricerca dei dollari, finirà per incontrare il colonnello Mortimer (interpretato da Van Cleef) con il quale, dopo l’iniziale rivalità, finirà per allearsi, per andare a sfidare l’Indio, un temibile rapinatore di banche appena evaso. Molti sono i temi introdotti da Sergio Leone nel nuovo film, che poi ritorneranno anche in seguito. Il più importante è quello dei flashback. Infatti, a differenza del film precedente, il motore che muove la storia non è più soltanto il dollaro, ma anche la vendetta. Il colonnello Mortimer ha qualcuno da vendicare e, per tutto il film, si assiste a brevi flashback, soprattutto attraverso i ricordi dell’Indio, annebbiati dalla droga, che ci vengono mostrati, poco alla volta, in una sottotrama ben dosata, che spinge lo spettatore a volerne sapere sempre di più. Persino il cinico cowboy senza nome nel finale finirà per preoccuparsi prima di aiutare il colonnello nel suo obiettivo, per poi pensare ai soldi, in un secondo finale più scanzonato, di nuovo cinico, come il precedente.

Un altro elemento decisivo del cinema leoniano è la presenza dei tre protagonisti, due contro un antagonista in questo caso, a voler essere precisi. Un elemento che ritornerà anche nei due film successivi e, in parte, anche in “Giù la testa”. Siamo ancora in piena Trilogia del dollaro, ma “Per qualche dollaro in più” è già un’altra cosa rispetto al precedente, c’è allo stesso tempo più malinconia e persino più umorismo (per la prima volta vediamo il Monco ghignare), laddove la prima pellicola era invece più secca e asciutta. Anche stavolta il pubblico premia Leone e soci, arrivando a superare, anche se di poco, il risultato di “Per un pugno di dollari”, battendo nelle classifiche italiane anche Sean Connery, alias James Bond.

Give me a… Leone!
Dopo due successi del genere, Leone decise di finirla con il western, ma la United Artists, tramite Vincenzoni, sceneggiatore dell’ultimo film, lo contattò, comunicandogli l’intenzione di rivelare i diritti dei primi due film e di volerne un terzo. La cifra offerta avrebbe permesso al regista romano di vivere di rendita, per il resto della sua vita, e si ritrovò ad accettare, ritrovandosi a disposizione un budget di 1,3 milioni di dollari, una cifra astronomica rispetto a quelle delle precedenti pellicole.

Così prende il via il progetto per “Il buono, il brutto, il cattivo” che diventa l’archetipo, la quintessenza dello spaghetti-western stesso. Durante la guerra civile americana, si muovono tre personaggi, alla ricerca di 200mila dollari, ognuno di loro conosce soltanto un’informazione per trovare quel tesoro, chi conosce il luogo, chi il nome della tomba dove è sepolto il tesoro. Le loro strade dovranno quindi incrociarsi, stringere alleanze, superare le insidie della guerra, fino al celeberrimo triello finale, nel cimitero. Il cowboy senza nome torna per la terza e ultima volta in un film di Leone, interpretato ancora una volta da Eastwood, soprannominato il Biondo, in questo caso, e ricoprendo il ruolo de Il buono, che compare nel titolo. Torna anche Van Cleef, che però va a fare il cattivo, Sentenza, pistolero senza scrupoli, mentre la new entry della pellicola è Eli Wallach, che interpreta Tuco, il brutto, dando vita ad un personaggio divertente e a dir poco memorabile.

Come detto, “Per qualche dollaro in più” aveva già introdotto il tema dei tre personaggi principali, ma, rispetto alla precedente pellicola, c’è una sostanziale differenza: non si tratta più di un due contro uno, come nel caso dell’Indio, che, per quanto ben caratterizzato, resta un personaggio statico, che non è attivo nella storia, se non quando viene affrontato. Stavolta Sentenza è, sì, il cattivo, il “vero” nemico, ed è indubbio che Tuco e il Biondo, per quanto spesso litigiosi, siano più legati, durante la storia, ma l’antagonista stavolta ha una storia propria, che porta avanti, andando ad incrociarsi, in maniera attiva con quella degli altri due, che d’altro canto si separano spesso, finendo anche per allearsi con Sentenza, in alcuni casi. Questa apparente anarchia è la vera carta vincente del film, dove lo spettatore non ha veri punti di riferimento, dove chiunque può davvero vincere alla fine. Con questo film, Leone porta alla definitiva fine del classico eroe western, già segnata con “Per un pugno di dollari”; basti pensare che il buono sarebbe il solito, cinico, cowboy senza nome. Gli altri son peggio di lui. Degli elementi precedenti, stavolta Leone fa a meno di quello dei flashback. Si torna a mettere in primo piano i dollari, come obiettivo finale, dando quasi l’impressione di trovarsi, in quanto a potenza filmica, ad un “Per un pugno di dollari” alla seconda, o alla terza.

Come se non bastasse, a rendere ancora più imponente il film giunge un elemento nuovo, nel cinema di Leone: la storia. Infatti, a differenza delle prime due pellicole, dove l’azione si svolgeva, sì, nel western, ma senza vere indicazioni temporali, con “Il buono, il brutto, il cattivo” c’è la Guerra civile americana, con le sue date a ricordarci il periodo storico dove si muovono i personaggi. Non si tratta di un semplice sfondo, per colorare la narrazione. I personaggi camminano nella guerra, vi si infiltrano, vengono catturati, la sfruttano e ne vengono sfruttati. Le palle di cannone sono presenti persino nei classici duelli dei villaggi western, tanto che alcuni hanno parlato della presenza di un quarto personaggio principale. E Leone alza il tiro, approfittandone per esprimere i suoi giudizi su un tasto tanto delicato, specialmente per il popolo, e il pubblico, americano. “Non ho mai visto tanta gente morire tanto male” commenterà il Biondo, quando si ritroveranno fra i soldati, durante una battaglia fra nordisti e sudisti. E di fronte la guerra, persino questi personaggi, tanto cinici e imperfetti diventano i più umani, in confronto alla violenza e alla scelleratezza del conflitto (in diverse occasioni il Biondo si fermerà e resterà accanto a soldati che stanno per morire, arrivando a dare loro un minimo di conforto, senza lasciarli morire da soli).

Il film fu un successo clamoroso, spopolando ovunque, sorretto ora da una grande produzione americana. La stessa United Artists non previde affatto il grande successo, con oltre 25 milioni di dollari incassati quell’anno. Soltanto la critica continua a non considerare il lavoro di Leone e il genere dello spaghetti-western, ritenuto ancora troppo commerciale. Basti pensare che un critico come Roger Ebert, poi divenuto uno dei più importanti a livello mondiale, in quel periodo espresse un giudizio più basso (che poi comunque cambiò negli anni) poiché sosteneva che lo spaghetti-western non poteva essere considerata arte. Nel nostro paese, la critica rimproverava a Leone la troppa violenza, non adatta ad un (classico) film western, anche se già cominciavano ad aumentare i critici che invece riconoscevano il talento del regista romano. “Per fare centro tre volte, come è appunto il caso di Sergio Leone, bisogna essere dotati di vero talento. Non si imbroglia la grande platea, è più facile ingannare certi giovanottoni della critica, che abbondano in citazioni e scarseggiano in idee.” Così scrisse di lui, un certo Enzo Biagi, sull’Europeo.

 

Così sì conclude la trilogia del dollaro. In tre anni tre successi, che introducono un nuovo genere che, negli anni seguenti, specialmente in Italia, diverrà un vero e proprio filone. Leone, nonostante i detrattori, finisce per cambiare la faccia all’intero western, rendendola più sporca, cattiva e, in definitiva, molto più umana e commovente.

 

Give me a… Leone!

Concluse le tre pellicole precedenti, a Sergio Leone era capitato sotto mano il romanzo “The Hoods”, che raccontava le vicende di un gangster cresciuto nel quartiere ebraico di New York, e il regista era intenzionato a farne una pellicola (ci riuscirà soltanto 17 anni più tardi, con il suo capolavoro “C’era una volta in America”). Per l’ennesima volta, aveva deciso di smettere con il western; in realtà, lo aveva già deciso dopo il primo film, ma aveva sempre finito per essere convinto da offerte interessanti. E questa volta l’offerta gli arriva dalla Paramount, che gli concede un budget ancora maggiore, rispetto al precedente della United, ma soprattutto gli dà la possibilità di lavorare con l’attore preferito da Leone, colui con il quale avrebbe voluto tanto lavorare: Henry Fonda. Una volta convinta la star americana che, inizialmente, era restia ad interpretare il ruolo del cattivo, al cast si aggiunge Charles Bronson, attore che Leone avrebbe voluto dal primo film (proprio il suo rifiuto “costrinse” il regista a cercare l’allora sconosciuto Eastwood) e Jason Robards nel ruolo di Cheyenne. Si tratta di un cast stellare per l’epoca, la conferma del nuovo status di Leone, anche all’estero. Per il ruolo della prostituta Jill McBain il regista scelse Claudia Cardinale, che in Italia era già famosa e conosciuta. Per la prima volta, nei film leoniani emerge una figura femminile tanto importante nella storia.

C’era una volta il west” ruota infatti attorno alla terra ereditata da Jill, dopo la morte di McBain, l’uomo che aveva sposato. Su quella terra, strategica per la costruzione della ferrovia, che deve passare da quelle parti, finiscono per intrecciarsi le storie dello spietato Frank, al soldo di Morton, l’imprenditore che deve costruire la ferrovia, di Cheyenne accusato ingiustamente della morte di McBain e del misterioso Armonica, un pistolero tanto silenzioso quanto veloce a sparare, inseparabile dalla sua armonica a bocca, che pare sempre stare con il fiato sul collo di Frank, per una questione in sospeso.

Ancora oggi, a distanza di anni, si sono venute a creare differenti scuole di pensiero, quasi fazioni, nel decidere quale sia il miglior western girato da Sergio Leone e, per quanto i gusti rimangano una faccenda personale, gli ultimi due film che restano a contendersi questo scettro sono proprio “Il buono, il brutto e il cattivo”, film finale della precedente trilogia e questo “C’era una volta il west”, inizio della cosiddetta Trilogia del tempo. Entrambi hanno infatti racchiuse al proprio interno praticamente tutte le tematiche leoniane, che di film in film venivano fuori. Eppure il confronto resta inutile, perché “C’era una volta il west” è un film soprattutto diverso rispetto ai precedenti.

Prima di tutto il dollaro non è più il centro della narrazione e l’obiettivo finale della trama. È indubbio che la terra di McBain sia lo spunto di partenza dell’intera vicenda, ma resta il solo Morton, personaggio secondario, “mezz’uomo”, come viene definito da Cheyenne, un omuncolo affetto dalla tubercolosi, a essere legato al solo guadagno. Armonica è spinto dalla vendetta, che ci viene spiegata attraverso i flashback, che tornano come in “Per qualche dollaro in più”, mentre erano stati abbandonati nel film successivo. Ed è proprio con quel film che vi sono i punti di maggior contatto. Se infatti “Il buono, il brutto, il cattivo” poteva essere considerato un “Per un pugno di dollari” più grande e magnificente, “C’era una volta il west” è sicuramente un “Per qualche dollaro in più” più approfondito, più maestoso e più epico (forse il più epico fra i film western del regista).

Come detto, non è più il solo dollaro a spingere la vicenda, perché oltre la vendetta di Armonica, anche Cheyenne, forse quello che inizialmente era più mosso da interessi personali, che aveva sentito “puzza di soldi”, finisce per venire in soccorso di Jill, mosso più dal semplice affetto per la donna. Frank, per quanto per quasi tutto il film offra la sua pistola per gli interessi di Morton, nel finale finisce per abbandonarlo, per tradire gli affari, per regolare i conti con Armonica. “E così alla fine ti sei reso conto che non sei un uomo d’affari” gli dirà Armonica, “Solo un uomo” sarà la risposta di Frank.

Come si intuisce torna anche l’impostazione a tre personaggi che, per quanto differenti e caratterizzati in altra maniera, richiamano i ruoli che erano stati del Biondo, di Tuco e di Sentenza nel precedente film. Ritorna anche il contesto storico, che però si muove in maniera diversa, rispetto al terzo film, quando si infilava prepotentemente nella vicenda dei personaggi, anche in maniera violenta. Stavolta il contesto storico, la fine del west, per l’appunto, resta sospeso, quasi sornione sullo sfondo, ma compare, implacabile, a rendere conto ai tre protagonisti nel finale. Tutti sono legati alla ferrovia e, per quanto si adoperino a farla costruire, spinti da motivazioni diverse, ignorano che è proprio l’arrivo del treno, il collegamento veloce fra la costa orientale e quella occidentale americana, la definitiva fine del vecchio “west”, cioè tutti quei piccoli villaggi sperduti, senza regole, al limite della civiltà. Forse il solo Armonica lo intuisce, ma comprende che non c’è molto da fare, che ormai i tempi sono cambiati. Questa nuova realtà è incarnata dal personaggio di Jill, unica donna, la vera forza aggregatrice per gli uomini, per fondare qualcosa di stabile, una futura città, e non più un semplice villaggio (la scena finale è molto esplicativa in ciò). Frank, Cheyenne e Armonica a turno saranno tentati, anche se solo per brevi attimi, di restare con Jill, abbandonare la loro vita da pistoleri vagabondi, per condurre una vita stabile. Ma, chi per un motivo, chi per un altro, non lo faranno.

 

Give me a… Leone!

Come si intuisce anche dal titolo, “C’era una volta il west” doveva essere l’ultimo film di Leone ambientato nel west, il finale definitivo del suo discorso sul vecchio west. Siamo nel ’71 e ormai aveva già cominciato a lavorare sul suo progetto legato a “The Hoods”, e non girava un film da almeno tre anni, dal ’68 per l’appunto. Ma ancora una volta, per eventi al di fuori delle proprie volontà, si ritrova su un progetto legato in parte alla tematica western.

Giù la testa” nasce principalmente per due motivi: il primo, il più noto e confermato, è quello economico. Leone sapeva della lunga durata e del costo della produzione dell’adattamento di “The Hoods” e per raccogliere ulteriori fondi, un film del genere era l’ideale, data la sua ormai consolidata fama nel genere. Il secondo motivo, meno noto, che alcuni considerano una leggenda, furono i dissidi con Peckinpah, regista d’azione molto affermato allora, sulla visione di questo progetto, che finirono per spingere il regista romano a prendere le redini dell’intera operazione, quasi in una sorta di sfida con l’americano.

Ad essere precisi, “Giù la testa” già non rientra più nel genere western, in quanto ambientato in Messico, durante la rivoluzione del 1913, anche se lo ricorda molto, per le sparatorie, lo stile dei personaggi e delle ambientazioni. Juan Miranda, peone bandito, morto di fame, assieme alla sua banda, decide di attaccare la banca di Mesa Verde, il suo sogno da sempre. E quando incontra sulla sua strada John Mallory, misterioso irlandese, esperto di esplosivi, farà di tutto per convincerlo a partecipare con lui al colpo, mentre da parte sua John cercherà di convincerlo a seguirlo nella causa della rivoluzione messicana, quella di Zapata e Pancho Villa, che è già nell’aria. La loro amicizia e i rispettivi obiettivi li porteranno ad attraversare l’intero conflitto, fino al tragico finale.

Anche per questo film, Leone ha a disposizione delle star come Rod Steiger e James Coburn, ai quali affianca affermati attori del panorama italiano come Romolo Valli, esemplare nell’interpretare il secondario, ma importante personaggio del dottor Villega. Per le motivazioni sopra citate, il film è stato sempre considerato come un’opera minore del cineasta romano, anche se più a torto che a ragione. Non ritorna l’impostazione a tre personaggi, dato che quelli principali sono soltanto due (anche se la tirannia potrebbe pure essere considerata come il vero antagonista della pellicola), che continuano sulla falsariga di quello che era prima l’Uomo senza nome e poi Armonica, per quel che riguarda John, e Tuco e Cheyenne, per quel che riguarda il peone Juan. Ma ci sono sempre i temi del ricordo legato ai flashback (stavolta tocca a John mostrarci il suo misterioso passato, sottolineato dallo splendido tema del maestro Morricone) e anche in questo caso, viene rimarcato l’allontanamento dal tema del dollaro, che viene usato soltanto come spunto di partenza.

Continua invece il cambiamento nell’approccio dei personaggi. Ancora più che nel precedente, i personaggi non restano immutabili nei loro comportamenti, come nella Trilogia del dollaro, al contrario evolvono, cambiano a seguito di conflitti interiori. Juan e John si parlano, si insultano, ma si cambiano anche, a vicenda. E il loro rapporto porta nel film un tema nuovo del cinema leoniano, che era rimasto sottopelle dai tempi di “Per qualche dollaro in più”: il tema dell’amicizia. Prima di Juan e John, non si poteva parlare di un rapporto del genere fra i vari personaggi, specialmente fra i due buoni, contro il cattivo di turno. Avevano degli obiettivi in comune, magari si rispettavano, ma non arrivavano mai a considerarsi amici, come invece capita per la prima volta in “Giù la testa” che introdurrà questo tema portante, assieme al tempo, del successivo e ultimo capolavoro di Sergio Leone. Ritorna anche il tema della storia, che però avrà un ruolo ancora diverso rispetto a “Il buono, il brutto, il cattivo” e “C’era una volta il west”. Se nel primo influenzava, quasi procurando nuove difficoltà ai personaggi, divertendosi con loro, e nel secondo se ne stava sullo sfondo, immobile e sorniona, in “Giù la testa” la storia diventa politica, portandosi dietro anche la visione di Leone stesso sulla rivoluzione e le classi sociali in lotta.

Siamo nel ’71, in pieno periodo sessantottino, con un piede già negli anni di piombo, e un argomento del genere finiva, per forza di cose, per generare delle polemiche. Cosa che, puntualmente, avvenne. L’aspetto bizzarro fu che vennero critiche sia da una parte politica che dall’altra. Se infatti la parte più moderata della critica lo definiva addirittura un film “bombarolo” per il protagonista tanto esperto di esplosivi (simboli in quegli anni di attentati terroristici) e per la frase di Mao Tse Tung con la quale comincia il film, che pare giustificare eventuali sommosse o scontri (“La Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di violenza”), dall’altra parte la fetta più politicizzata ne biasimava la critica che Leone rivolgeva alla sottile contraddizione di ogni rivolta popolare: “Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: Qui ci vuole un cambiamento! e la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono dietro un tavolo e parlano, parlano e mangiano, parlano e mangiano; e intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Per favore, non parlarmi più di rivoluzioni!” dice Juan Miranda a John, in una scena in cui discutono della rivoluzione. Quest’impostazione in realtà mette in mostra l’anarchismo che ha sempre accompagnato le idee di Sergio Leone, che poi ha finito per applicare ad ognuno dei propri personaggi, che prendono sempre le loro decisioni, andando in contrasto spesso sia con le istituzioni oppressive, sia contro chi voleva combatterle.

 

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Come detto, Leone aveva già letto il libro “The Hoods” ai tempi di “C’era una volta il west”, e per seguire questo progetto su un film gangsteristico, rifiuterà anche la regia de “Il padrino”. Ma soltanto nell’82, dopo più di dieci anni dall’ultimo film diretto, Leone comincerà a girare “C’era una volta in America”, quello che viene considerato dai più come il suo capolavoro. Questi dieci anni sono occupati da tutta una serie di collaborazioni con sceneggiatori (ben sei), ricerche sull’epoca storica da affrontare, ovvero perlopiù il proibizionismo nella New York degli anni ’30. In questi dieci anni, Leone si “arrangia” come produttore di alcuni film, arrivando anche a fare da mentore per un altro romano, Carlo Verdone, il quale riconoscerà sempre l’importanza dell’apporto di Leone per quel che riguarda la sua futura carriera registica.

Come nei film precedenti, per quel che riguarda il casting degli attori alterna la scelta di grandi nomi come Robert De Niro, già vincitore di due premi Oscar per il protagonista Noodles, e James Woods per l’amico Max, ad attori di minor rilievo (sceglierà la semisconosciuta Elizabeth McGovern per il ruolo di Deborah, grande amore di Noodles, dopo aver ricevuto provini di attrici del calibro di Meryl Streep e Glenn Close. Questo per capire il livello di fama mondiale ormai raggiunto dal regista romano). Ritorna per la sesta e ultima volta il fidato Ennio Morricone alle musiche, che qui diventano talmente importanti che Leone arriva a pretendere che vengano suonate anche durante alcune scene filmate, per far entrare ancora di più gli attori nella parte.

La trama, sicuramente la più complessa, fra tutti i film girati da Leone fino a quel momento, segue le vicende di Noodles, dall’adolescenza nel ghetto ebraico di Brooklyn alla vita da gangster durante il Proibizionismo, fino al ’68, anno in cui torna, per scoprire un’amara verità sul suo passato e sul destino delle persone con le quali era cresciuto, soprattutto il miglior amico Max e Deborah, il grande amore della sua vita. Il susseguirsi degli eventi non è però lineare e cronologico, bensì diviso su tre grandi filoni temporali, corrispondenti al ’22, al ’32-33 e al ’68.

Non si tratta più di un semplice utilizzo di brevi flashback, come nei precedenti film: in “C’era una volta in America” il ricordo del tempo passato (e perduto) diventa uno dei temi della pellicola stessa, dove pare sparire il tempo presente. Considerando infatti che il tempo presente della storia sarebbe il ’68, viene da sé che per uno spettatore dell’84 (anno di uscita), o odierno, non si può mai parlare di “vero” presente. E nel film è proprio questo l’intento: l’alternanza fra i vari piani temporali, crea nello spettatore un sottile spaesamento, una perdita di coordinate che lo fa scivolare e lo coinvolge nello svolgimento degli eventi, tanto da dargli l’impressione che quella storia non abbia davvero né un inizio, né tantomeno una fine (dato che il finale si riallaccia proprio alla sequenza iniziale). Si arriva quasi a dubitare che sia soltanto un sogno dello stesso Noodles, un nostro sogno. Di sicuro era il sogno di Sergio Leone, il tentativo più riuscito di spiegare cosa erano per lui quei miti: figure che, come abbiamo detto, resistevano anche al tempo stesso, che fossero anni, vite intere o fotogrammi di una storia. “Quando scatta in me l’idea di un nuovo film ne vengo totalmente assorbito e vivo maniacalmente per quell’idea. Mangio e penso al film, cammino e penso al film, vado al cinema e non vedo il film ma vedo il mio… Non ho mai visto De Niro sul set ma sempre il mio Noodles. Sono certo di aver fatto con lui “C’era una volta il mio cinema”, più che “C’era una volta in America”” spiegherà Leone, in un’intervista.

Come già accennato, l’altro grande tema del film resta l’amicizia, quella fra Max e Noodles, anche di fronte all’amarissima scoperta finale, un sentimento che il protagonista finirà per difendere anche contro se stesso e la sua abituale indole. E affronterà questa scelta soltanto grazie, o a causa, del ricordo stesso, già spiegato in precedenza. “Siamo due vecchi, Noodles. L’unica cosa che ci resta è qualche ricordo” lo metterà in guardia Deborah, quando si rincontreranno dopo 35 anni. Questo film, più di tutti gli altri, racchiude, in un colpo solo tutti i temi trattati da Sergio Leone, in un mix sottile, in un vortice di emozioni che restano difficili da descrivere o da comprendere, a meno che non si ha avuto l’occasione di guardare la pellicola in questione.

La distribuzione americana riuscirà comunque nell’intento di rovinare l’intero film, rimontandolo in ordine cronologico ed eliminando 90 minuti di pellicola, segnandone l’insuccesso negli Stati Uniti. Sorte differente avrà in Europa, dove giungerà in versione originale, riscuotendo un grande successo, lo stesso che avrà negli USA, quando verrà ridistribuito in maniera fedele a quella che aveva in mente Sergio Leone.

 

Give me a… Leone!

Dopo quest’ultimo film, il regista aveva cominciato a lavorare ad una storia ambientata durante l’assedio di Stalingrado, una storia d’amore fra un ragazzo e una ragazzo, dei diversi blocchi, quello occidentale e quello sovietico. Ma purtroppo Sergio Leone se ne andrà nell’89, a 60 anni, per un infarto. Di lui restano questo “pugno” di capolavori che, negli anni seguenti finiranno per influenzare alcuni fra i più importanti cineasti a livello mondiale, da Martin Scorsese a Brian De Palma, da Clint Eastwood (che dedicherà il primo film da regista “A Sergio”) a Stanley Kubrick che ammetterà di quanto siano stati importanti i film di Leone, nella lavorazione di “Arancia meccanica” e “Barry Lyndon”, fino a Quentin Tarantino, che piazzerà sempre alcuni film di Sergio Leone come fra i suoi preferiti di sempre. Agli inizi della sua carriera, il regista del Tennessee, non conoscendo l’esatta terminologia delle diverse inquadrature, era solito chiedere al proprio aiuto-macchinista, per i primi piani: “Give me a… Leone”.

Give me a… Leone!


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