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Gli accessori del babbo (22): i tappini

Da Desian
I tappini sono una dimensione dell’anima, sono una primavera che si srotola sul tappeto di sabbia del mare, sono le zuffe violente per la posizione, il risultato, la classifica che non tornano mai.
Colpa tua.
No, tu rubi.
Testa di.
Inutile nasconderlo, i tappini sono anche l’eloquio senza freni che si forbisce in strada, tra compagni a scuola ma anche, soprattutto (ah, che dolcissimo sadismo!), in parrocchia, tra un prete e l’altro, in attesa che passino.
Tutto ciò non è accaduto in una seduta di ipnosi regressiva ma semplicemente per strada, mentre attraversavo la città, da un capo all'altro, per lavoro. C'era per terra un tappino di birra schiacciato, l'ho calciato per un riflesso animale e "gol!", si è riaperto un mondo.
I tappini sono quei pomeriggi lunghi già abbastanza per rimaner fuori ma non tanto da permettere una vera partita di calcio, con le conte per selezionare le squadre e tutto il resto, compresi supplementari e calci di rigore se si arrivava pari. A quell'età volevamo un vincitore e, più ancora, uno sconfitto.
Tutti i giorni.
I tappini mimavano bene questo rito. Bastavano dita allenate e spazi decisamente più ridotti: un campo poteva stare abbondantemente sotto il metro quadro, una pista appena un po' di più. A calcio vero, giocato, in un metro quadro ci si prendeva a pedate.
I tappini erano epici e avevano nomi esotici: Cile o Perù nacquero certamente prima sui tappini che nella consapevolezza delle carte geografiche, Roger De Vlaeminck recitato come una litania blasfema, Tarcisioburgnich tuttattaccato (e, laggiù in provincia, bastava anche Maurizio Simonato come scioglilingua della fantasia). Suoni come perle che cadevano a terra rimbalzando.
I tappini, oggi, sono una difficoltà. Quella di tramandarne il senso, il fascino, la fantasia ai figli. Tanti concorrenti sleali (elettronici, rutilanti, rumorosi. E' il 2.0, bellezza) ma qualche volta quel campino di carta si srotola ancora. Sul parquet, in camera, coi tappini buttati fuori dal sacchetto che corrono via. Come perle, rotolano.
I tappini erano anche quell'altra magia: sorseggiare litri e litri di gazzosa (ché la birra non era ancora adatta, all'età) per farne scorta. Stando attenti, delicatissimamente, quando si stappava la bottiglietta: ero diventato un esperto a tenerli quasi lisci, alzando pian piano la corona, millimetro dopo millimetro.
I tappini erano la cura estrema e faticosa (la gazzosa, per quanto poco, costava) di procurarseli e non perderne nemmeno uno.
Preziosi.
Erano tutto questo, i tappini, ed altro ancora mentre il subbuteo era cosa da ricchi.

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