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Gli USA e il Medio Oriente, un’influenza in declino? Intervista a Gianluca Pastori

Creato il 15 ottobre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Redazione

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Sono trascorsi ormai oltre quattro anni dallo storico discorso di Barack Obama al Cairo. Era, quello, il momento in cui gli Stati Uniti annunciavano un ‘nuovo inizio’ nelle loro relazioni con il mondo arabo e musulmano, ovvero un punto focale della politica estera obamiana. A seguito dell’intervento in Afghanistan e dell’invasione dell’Iraq, la Casa Bianca, così come il popolo americano, avvertiva la necessità di distendere la propria mano verso quei Paesi che, in un modo o nell’altro, si sentivano vittime dell’‘imperialismo’ americano. Tra questi vi era certamente l’Iran, che, dalla Rivoluzione khomeinista del 1979, aveva identificato – non sempre senza contraddizioni – Washington come ‘il Grande Satana’, ossia il principale nemico da combattere per esportare la rivoluzione al di là dei propri confini. Il riavvio del programma nucleare nel 1984, inaugurato circa tre decenni prima dallo Scià Reza Pahlavi, è una sfida che Teheran, in un crescendo di percepita pericolosità in Occidente, ha portato fino ai giorni nostri. Il 15 ottobre a Ginevra, Iran e Stati Uniti, all’interno del forum diplomatico conosciuto come 5+1 (che include i cinque Paesi con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, più la Germania), sono tornati a parlarsi in un clima di rinnovata distensione, che ha avuto pochi precedenti negli ultimi tre decenni. Un riavvicinamento che non sembra, però, raccogliere consensi unanimi, se è vero che Israele, tra i principali partner per gli americani nella regione, continua a considerare ‘non credibile’ la rinnovata ‘eroica flessibilità’ di Teheran proclamata dalla Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei. Il filo che unisce Medio Oriente e Stati Uniti, però, non implica solo la questione nucleare iraniana. Anzi. Dal primo giuramento di Obama, la regione ha attraversato uno dei momenti di maggiore instabilità dell’era post-Guerra Fredda. Le rivolte della cosiddetta ‘Primavera Araba’ hanno provocato la caduta di regimi autocratici di lungo corso, su tutti quello di Hosni Mubarak in Egitto, e la guerra civile in Siria, che sembra ben lontana dal concludersi, nonostante i recenti sviluppi diplomatici. Le vicende che riguardano l’arco di instabilità che intercorre dal Cairo fino a Damasco, due perni – pur sotto diverse influenze – del sottosistema mediorientale, non appaiono secondarie agli occhi degli Stati Uniti che, nonostante un generalizzato ridimensionamento della proprio influenza nella regione, sembrano piuttosto riluttanti ad abdicare al ruolo di paramount power.

Tali tematiche sono state al centro del colloquio che l’Osservatorio di Politica Internazionale di BloGlobal ha avuto con Gianluca Pastori, Professore di Storia delle Relazioni Politiche tra il Nord America e l’Europa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il Professor Pastori insegna, inoltre, Storia delle Relazioni Internazionali al Master in Diplomacy dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI). Il Professore è anche socio fondatore di SeSaMO – Società per gli Studi sul Medio Oriente. Tra le sue principali pubblicazioni troviamo Iran. Guida pratica all’Islam fra tradizione e modernità (1999), Il pomo della discordia. La politica imperiale della Gran Bretagna, il Baluchistan e il Great Game (2004) e Le nuove sfide per la forza militare e la diplomazia: il ruolo della NATO (2008).

All’indomani dell’avvio dei lavori dell’Assemblea Generale, si respira un nuovo clima di fiducia nelle relazioni tra Stati Uniti ed Iran. L’apparente rischiaramento dei rapporti avviene altresì dopo la rinuncia, quantomeno momentanea, di Washington ad intervenire militarmente in Siria contro il regime di Bashar al-Assad, che da lungo tempo agisce all’interno della sfera d’influenza di Teheran. Secondo Lei, c’è una relazione tra il passo indietro statunitense e la mano protesa iraniana? È quindi l’Iran la vera partita in gioco in Siria per la Casa Bianca?

Sulla scena siriana, la Casa Bianca sta giocando diverse partite contemporaneamente e il set dei suoi obiettivi è in continua evoluzione. Oggi, Obama punta soprattutto a ricostruire la credibilità internazionale dell’amministrazione, che negli ultimi mesi è stata parecchio scossa. In questa prospettiva, la ‘distensione’ con l’Iran ha assunto un peso crescente, anche perché in questo ambito sembrano esserci segnali positivi. Non direi, però, che questa sia la vera posta in gioco in Siria. Inoltre, mi sembra improbabile che Rouhani accetti di sacrificare Assad sull’altare del dialogo con Washington. Il peso negoziale ‘globale’ dell’Iran dipende anche dalla sua capacità di essere attore regionale, cioè di creare e difendere di una rete di alleanze in MO; abbandonare Assad significherebbe assestare un duro colpo a questa strategia e, sul lungo periodo, alla credibilità dell’Iran in generale. Per certi aspetti, quello cui abbiamo assistito è stato l’incontro di due debolezze: quella di Obama, costretto a prendere una posizione che forse non voleva, pur rischiando di compromettere i suoi obiettivi di lungo periodo; e quella di Rouhani, il cui basso profilo, se da una parte ne rafforzava la credibilità internazionale, dall’altra lo esponeva, sul piano interno, a critiche potenzialmente pericolose.

Restando in tema di Iran, la Rivoluzione khomeinista del 1979 ha alienato per gli Stati Uniti un partner di lungo corso all’interno dei fragili equilibri mediorientali. Da allora, se Washington è stata vista da Teheran come ‘il Grande Satana’, viceversa la Casa Bianca ha guardato all’Iran come la minaccia maggiore per la stabilità della regione. Dopo oltre trent’anni, Lei ritiene che i due Paesi non avrebbero potuto far altro che perseguire la strada del confronto/scontro?

Non credo che, nella storia, esistano dinamiche irreversibili; fra l’altro, la rivalità fra Washington e Teheran, dal 1979 ad oggi, è stata tutt’altro che ‘monolitica’. Probabilmente, l’accesa ostilità che ha caratterizzato almeno la parte visibile delle relazioni USA-Iran nell’immediato periodo post-rivoluzionario era inevitabile: troppo forti erano stati i legami tra gli Stati Uniti e lo Shah perché la rivoluzione (indipendentemente dal suo evolvere in rivoluzione ‘islamica’) non assumesse anche una forte coloritura anti-americana. Allo stesso modo, oggi sappiamo che la ‘crisi degli ostaggi’ – che ha condizionato (e che, se non altro a livello emotivo, continua a condizionare) le relazioni fra Teheran e Washington – si legava soprattutto alla lotta di potere allora in corso in seno alla nuova classe dirigente iraniana. Non a caso, avvicinamenti tattici (vogliamo chiamarle ‘convergenze d’interessi’?) ci sono stati anche nel corso degli anni Ottanta; basta pensare alla c.d. vicenda ‘Iran-Contras’. Sono stati anche questi avvicinamenti a gettare le basi del dialogo più o meno sotterraneo che ha caratterizzato le presidenze Rafsanjani e Khatami. E’ chiaro che alcune priorità politiche dell’Iran contrastano con quelle di Washington e dei suoi alleati. Ciò, però, non mi sembra abbia mai messo davvero in discussione la consapevolezza della necessità di definire un modus vivendi che soddisfi entrambi.

Se si parla di Iran, è difficile non volgere lo sguardo ad Israele. Definita ‘la roccaforte dell’Occidente’ in un’area vitale per l’interesse strategico statunitense, oggi Tel Aviv sembra avere però perso parte di quella centralità che le era stata riservata durante la Guerra Fredda, in particolare dalla fine degli anni Sessanta. Anzi, l’ipersecuritizzazione israeliana sembra talvolta ostacolare il normale corso dei processi diplomatici in Medio Oriente. Lei crede che Israele sia oggi un asset o una liability per gli Stati Uniti?

Penso che Washington abbia smesso da tempo di considerare lo Stato di Israele come un asset. Gli anni del legame ferreo fra i due Paesi sono ormai passati. Di questo è consapevole lo stesso governo israeliano; nonostante i toni duri (che, tuttavia, negli ultimi mesi sembrano essersi smorzati), la sua posizione sia sulla Siria, sia sull’Iran è stata, nei fatti, estremamente cauta. Paradossalmente, Tel Aviv si è anzi proposta, in più occasioni, come il più convinto sostenitore di Bashar al-Assad: la logica è quella del ‘meglio un nemico noto che l’incertezza che lo sostituirebbe’. E’ chiaro che questo non significa un ‘rovesciamento delle alleanze’ in Medio Oriente. E’, però, altrettanto chiaro che questo teatro ha perso la centralità strategica che aveva tradizionalmente avuto per la politica USA. Anche se il ‘pivot to Asia’ è stato (in parte) abbandonato, ciò (con buona pace delle attese che avevano sollevato i primi discorsi pubblici del Presidente Obama) non ha significato il ritorno su larga scala di Washington in MO. Non penso che questo ‘disinteresse’ dipenda totalmente da questioni di bilancio. Le difficoltà economiche hanno sostento il processo di ‘understretching’, ma non ne sono state la sola ragione. Per amore o per forza, credo che, nei prossimi anni, Israele (ma il discorso vale per tutti gli attori regionali) dovranno abituarsi a degli Stati Uniti sempre meno presenti e, in ogni caso, sempre più ‘egoisti’ nelle loro azioni.

La Primavera araba e i tentativi di democratizzazione che ne sono scaturiti si sono svolti senza alcuna leadershipfrom behindfrom the front degli Stati Uniti. Al contrario, Barack Obama si è dimostrato un Presidente debole, senza una linea guida precisa, il che ha generato ulteriore confusione sulla presunta paramountcy degli Stati Uniti in Medio Oriente, già oltremodo indebolita dagli eventi caratterizzanti la war on terror dell’amministrazione Bush. Quanto avvenuto in Egitto nel corso degli ultimi 2 anni è l’emblema dell’inconsistenza americana. Lei è d’accordo con una simile opinione?

In generale credo che, rispetto alle vicende della ‘Primavera araba’, la sopravvalutazione della capacità/volontà USA di influenzare il corso degli eventi sia evidente. Al contrario, proprio l’Egitto fornisce l’esempio migliore di come l’azione di Washington si sia limitata a seguire il corso delle cose, spesso facendosi trascinare da questo e, in ogni caso, rinunciando a priori a imprimervi una propria visione. Se vogliamo, possiamo parlare di atteggiamento essenzialmente reattivo da parte (in primo luogo) della Casa Bianca. Questo atteggiamento ha stupito parecchio gli osservatori. Tuttavia, come già accennato, credo che il loro stupore sia dovuto soprattutto all’assuefazione della comunità internazionale a un ruolo egemone che gli Stati Uniti sono sempre più riluttanti a esercitare. La postura assunta da Washington durante la Guerra Fredda (e che ha rappresentato un po’ l’apogeo dell’interventismo ‘a stelle e strisce’) rispecchiava quelle che erano, allora, le loro priorità, priorità che incidentalmente coincidevano (in tutto o in parte) con quelle dei loro partner. Gli stessi Stati Uniti hanno faticato a scollarsi di dosso questa eredità, che è riaffiorata – seppure in panni diversi – durante le presidenze Clinton e Bush jr. Tuttavia, mi sembra chiaro che, oggi, le scelte dell’amministrazione USA sembrano guardare con sempre più attenzione al foro interno, piuttosto che a quello internazionale. Non so se tutto questo possa essere etichettato come ‘inconsistenza’; sicuramente, rappresenta un allontanamento consistente rispetto alle categorie interpretative sulla base delle quali siamo abituati a valutare l’azione degli Stati Uniti nel mondo.

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