Magazine Opinioni

Google tax ma sanno cosa stanno facendo?

Creato il 17 dicembre 2013 da Ilcanechesimordelacoda
.
Dal blog di Ernesto Maria RUffini:
A problemi complessi corrispondono solo soluzioni articolate; le soluzioni semplici sono solo un altro problema.
La Google o Web tax è un esempio perfetto di come la buona volontà e qualche norma non bastino a fare una tassa, ma possano, al massimo, crearne l’apparenza, dando a un problema reale – le poche o nulle tasse pagate da aziende dell’economia digitale – solo l’illusione di una soluzione. Illusione che fa scappare le aziende e non porta un soldo nel casse dello Stato, ma offre solo la sensazione di aver risolto un problema che invece rimane tale e quale.
Ma cosa prevede questa Web Tax di cui tanto si parla in questi giorni?
L’obbligo di acquistare da soggetti italiani titolari di partita IVA e una molto vaga modifica alle regole fiscali sui prezzi applicati alle operazioni fra società dello stesso gruppo, operazioni con le quali si trasferiscono i guadagni dall’una all’altra di tali società (cosiddetto transfer pricing).
Queste le diposizioni che dovrebbero permettere di trattenere in Italia i ricavi che le aziende del settore ottengono vendendo servizi on line ad aziende italiane, ricavi che oggi esse registrano all’estero (Irlanda, in prevalenza), per instradarli poi in paradisi fiscali. In realtà ciò che si otterrà sarà, nell’ordine, un bel po’ di contenzioso tra le aziende interessate e il fisco italiano, una lite con il fisco di altri paesi e una “boccia-tura” della norma dell’Italia da parte degli organi comunitari.
Cominciamo da quest’ultima.
Imporre a tutte le aziende estere che compiono anche una sola operazione in Italia di aprirvi partita IVA o di far fatturare da un soggetto italiano è un onere assurdo, che contrasta con la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi sanciti dal trattato fondativo dell’UE. È una tale evidente e flagrante violazione della stessa ragion d’essere dell’UE (e prima ancora della CEE) che persino gli uscieri della Commissione o della Corte di giustizia potrebbero rimbalzarcela, dopo essersi fatti grasse risate alle nostre spalle.
Ma supponiamo pure che ciò non avvenga (“nella denegata ipotesi”, diciamo noi avvocati nei ricorsi). Il risultato immediato sarebbe che i ricavi resterebbero in Italia e i costi sostenuti per tali ricavi resterebbero all’estero, perché è all’estero che queste aziende pagano i dipendenti e acquistano i beni necessari alla loro attività: un nonsense contabile e fiscale. Come reagirebbe un’azienda straniera a tale situazione?
Spostando le attività in Italia; e avremmo la materializzazione della lesione della libertà di stabilimento.
Imputando alla società italiana alcuni dei propri costi oppure facendosi pagare diritti su marchio, proprietà intellettuale e altri beni immateriali (iltransfer pricing di cui sopra); in questo modo buona parte dei ricavi prenderebbero comunque la strada dell’estero senza pagare un soldo di tasse nel nostro paese. Il fisco italiano reagirebbe contestando l’imputazione di tali costi o diritti e ne nascerebbe un contenzioso che darebbe risultati probabilmente magri e sicuramente rinviati nel tempo.
Accettando la situazione, con i ricavi tassati in Italia e i costi dedotti all’estero; una situazione che però danneggerebbe il fisco dell’altro paese e lo farebbe insorgere, innescando una controversia internazionale.
Andandosene dall’Italia.
Insomma, la Web tax è una tassa che non risolve nulla, ma, in compenso, complica tutto. E questo per un motivo molto, molto semplice, al quale ci si dovrebbe arrivare con il mero buon senso (essendone ovviamente dotati): la soluzione proposta è una norma interna italiana, ma il problema è di diritto internazionale, riguarda i rapporti tra l’Italia e altri Stati e l’attività di una multinazionale, che dell’Italia può anche infischiarsene. È un po’ come se uno si preoccupasse di assegnare i posti alla tavola di casa sua per invitati che mangiano altrove. Inutile, semplicemente inutile.
Non c’è dunque niente da fare per contrastare l’elusione fiscale in questo campo? Dipende.
C’è molto da fare per chi crede nella cooperazione internazionale per risolvere questi problemi, ad esempio proprio attraverso l’OCSE, che ha avviato nell’ultimo anno uno studio dei profili tributari dell’economia digitale per contrastare l’elusione (progetto BEPS), seguita a ruota dall’UE. C’è molto da fare per chi crede in un’Europa più integrata anche in campo tributario: regole comuni nei confronti dei paradisi fiscali (così come esiste una tariffa doganale comune); un’imposta sui redditi delle società europee calcolata in tutta l’UE con le stesse regole (sulla scia del progetto CCCTB) e poi ripartita in base ad alcuni indicatori (fatturato, dipendenti, ecc.) fra i vari paesi, in modo che ognuno vi applichi la propria misura d’imposta; un sistema IVA che consenta di effettuare tutti gli adempimenti in un solo paese, ripartendo poi il gettito fra tutti quelli in cui l’azienda è attiva. Equità, semplicità, efficienza non sono un terzetto inconciliabile, se si sa quello che si fa.
Non c’è niente da fare, invece, per chi pensa di risolvere un problema internazionale con una soluzione nazionale, come è appunto la Web tax. Agire così vuol dire restare, in campo economico, inchiodati all’idea sorpassata, ottocentesca, ormai puerile di sovranità nazionale: un’idea che gli studiosi di International Political Economy, come Robert Gilpin (Politica ed economia delle relazioni internazionali, il Mulino, 1990) o Susan Strange (Chi governa l’economia mondiale? Crisi dello stato e dispersione del potere, il Mulino, 1998), hanno messo in soffitta da circa vent’anni; un’idea che si contraddice, nel momento in cui nell’attuarla si ignora la sovranità di altri stati; un’idea, infine, che ha, nel caso specifico, la pericolosa ricaduta di tagliar fuori l’Italia dal futuro, anzi dal presente. Perché noi viviamo già nell’era digitale.
E qui si tocca con mano la delicatezza della leva tributaria e la necessità di maneggiarla con cura e competenza: cancelli cento tasse, anche giustissime, e nessuna azienda viene a stabilirsi da te; ne metti una sbagliata, e tutte scappano.
Il fisco non è solo una norma o una variabile in un’equazione econometrica; è una disciplina che entra nella nostra vita familiare, economica, sociale e politica in modi che richiedono sempre un attento studio.

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Dossier Paperblog

Magazine