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Gramsci e la storia

Creato il 25 agosto 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno

Gramsci e la storia
Pasolini e la tomba di Gramsci
Perché Gramsci non ha mai creduto che il marxismo fosse una scienza? Gramsci ha sempre concepito il marxismo come una "visione del mondo", originatasi sul terreno delle condizioni storiche, e, quindi, scaturita dalle condizioni materiali di vita. Per spiegare come egli sia arrivato a questa conclusione, occorre ricostruire, in modo schematico e a grandi linee, la sua strategia di indagine. Anzitutto, nella ricerca di Gramsci c’era uno “scopo” che la orientava in una determinata direzione, e questo scopo, come per tutti i teorici marxisti, non era soltanto teorico, ma anche pratico: dalle analisi teoriche, che quella ricerca avrebbe dato luogo, erano implicati problemi politici, in quanto esse avrebbero offerto agli uomini che si proponevano l’identico scopo le indicazioni precise da seguire nella lotta politica.
In un articolo (Che fare?) del 1923, Gramsci poneva tutta una serie di domande: il movimento operaio europeo aveva subito una sconfitta su tutti i fronti, in particolare in Italia, dopo la marcia su Roma, un movimento reazionario era salito al potere. Davanti a questa disfatta, l’uomo politico sardo si chiede perché in occidente il processo rivoluzionario, dopo la rivoluzione russa, anziché concludersi con la vittoria del proletariato fosse finita nella reazione fascista: [... pp. 267-270]. Gramsci aveva presente la situazione particolare che si era determinata in Italia dopo il governo fascista, aveva cioè presente una particolare condizione storica. Quindi, anche le sue domande erano particolari, cioè volevano mettere in evidenza quel ch’era accaduto in Italia nei primi anni del dopoguerra. Occorreva, in primo luogo, rispondere al perché della sconfitta, e, in secondo luogo, rispondere a come la classe operaia doveva prepararsi e organizzarsi in futuro, non solo per evitare un’altra (ed eventuale) sconfitta, ma soprattutto per realizzare il suo scopo.
Se la ricostruzione è corretta, allora possiamo dire che tutte quelle domande erano da ricondurre ad una domanda radicale, che secondo noi, ha originato la direzione del suo percorso teorico: se scopo della classe operaia (e non credo che ci siano dubbi che questo fosse per Gramsci lo scopo della classe operaia) era realizzare anche in occidente le premesse per una futura società socialista (la prima delle quali era la presa del potere), allora quali mezzi conformi al fine occorreva scegliere e forgiare? Che Gramsci considerasse, nell’allora fase politica mondiale, lo scopo maturo, “oggettivamente” maturo, non aveva dubbi (basta rileggere tutti gli articoli precedenti a quella data). Ciò ch’egli non riteneva matura era la capacità di scegliere mezzi conformi allo scopo. Per mezzi non dobbiamo pensare soltanto al livello organizzativo della classe operaia, ai quadri dirigenti, ai giornali, al partito, al sindacato, ecc. Questi sono soltanto strumenti d’azione, ossia strumenti che traducevano la teoria politica in azione politica, realizzando così lo scopo. Questi strumenti, senza la teoria, cioè senza gli studi, le ricerche o le “ricognizioni del terreno” erano ciechi, era come tirare sassi nel vuoto, erano privi di efficacia, deboli, in sostanza, non erano conformi allo scopo. Se gli strumenti non erano maturi, se si era stati incapaci di mantenere le posizioni conquistate, se addirittura la classe operaia era stata politicamente sconfitta e ricacciata indietro, allora davvero voleva dire che quelli strumenti erano stati ciechi: “Perché i partiti proletari italiani sono sempre stati deboli dal punto di vista rivoluzionario? Perché hanno fallito quando dovevano passare dalle parole all’azione? Essi non conoscevano la situazione in cui dovevano operare, essi non conoscevano il terreno in cui avrebbero dovuto dare battaglia. Pensate: in più di trent’anni di vita, il partito socialista non ha prodotto un libro che studiasse la struttura economico-sociale dell’Italia” (Che fare?, p. 268).
Ora, secondo noi quella domanda originaria, che Gramsci non perderà mai di vista sino al giorno della morte, non solo getta una luce su tutta la sua futura attività teorica (anche lo scritto sulla Questione meridionale era un primo tentativo di risposta – provvisoria – a una serie di domande che si diramava da quella originaria), ma anche sugli scritti giovanili, che rivelano lo sforzo di pervenire con chiarezza a quella domanda originaria. Molteplici erano i problemi che quella domanda poneva, ma di tutti gli aspetti posti da quella domanda noi vogliamo soffermarci su quelli che riteniamo cruciali per la nostra strategia di ricerca. Anzitutto, perché Gramsci ritenesse la “filosofia della prassi” non una scienza, bensì un’ideologia, anzi perché ritenesse delle “deviazioni” o “revisioni” tutte quelle tendenze che la interpretassero in tal senso? Abbiamo detto che la teoria, la conoscenza storica era ciò che guidava e illuminava l’azione politica, quindi per Gramsci la teoria non era separabile dalla prassi politica. Per Gramsci non vi erano dubbi: teoria e prassi costituivano un’unità inscindibile, e il marxismo in questo senso era la teoria più potente in quanto aveva teorizzato la sua stessa unità.
Ma giudicare il marxismo come una teoria scientifica non aveva, secondo la sua prospettiva, nessun senso: le teoria scientifiche, anche quando sono “soggettivamente” oggettive, sono allo stesso tempo delle ideologie. La qual cosa può apparire paradossale, ma alla luce dello storicismo integrale di Gramsci il paradosso scompare. Gramsci, infatti, non avrebbe nessuno difficoltà a definire scienza il marxismo, purché a questo termine non si desse il significato di astorico e di atemporale. Anzi, se vogliamo, anche il marxismo era una scienza, ma solo alla condizione specificate sopra, cioè se lo intendiamo come “soggettivamente” oggettive e come ideologia. Come le teorie scientifiche riescono a trasformare il mondo, sia quando agiscono sulla sovrastruttura (trasformando il “senso comune”, e quindi agendo come ideologie), sia quando, applicate alla tecnologia, trasformano le forze di produzione, così la “filosofia della prassi” è una scienza, sia perché, in quanto ideologia o “visione del mondo”, scalza il vecchio senso comune, sia perché è mezzo conforme al fine. La produzione del pensiero per Gramsci è un’attività non slegata dal processo di produzione materiale della vita. Non esiste, quindi, un momento dell’attività umana che si sottrae al condizionamento della storia. Persino una teoria riconosciuta scientifica non si sottrae al condizionamento storico. Se essa volesse essere valida sempre e in ogni circostanza, dovrebbe sottrarsi al movimento stesso della storia, non essere soggetta ad alcuna correzione temporale. E ciò per Gramsci la stessa storia della scienza ci dimostra che non è possibile. Anche la pratica scientifica è un processo complesso legato alle condizioni storiche. Anche quando i suoi risultati raggiungono validità universale, ciò non significa che le procedure con le quali quei risultati sono stati conseguiti non siano influenzate dalle condizioni storiche (tanto è vero che esistono discipline come la “storia della scienza” e l’“epistemologia”: discipline che riflettono storicamente su quelle procedure e sui suoi risultati). Quindi, il marxismo concepito come una scienza cadrebbe in questa aporia con la quale ogni teoria della storia è costretta a misurarsi: teoria del movimento storico non soggetta al movimento. La concezione storicistica evita di cadere in questa aporia, ma non evita il rischio di cadere in una posizione relativistica (a questi problemi, sempre negli anni Venti, tenterà di dare una risposta Karl Mannheim in Ideologia e Utopia). Gramsci, rifiutando l’interpretazione del marxismo come scienza, è caduto nel vizio opposto, cioè lo ha identificato con l’ideologia. In quanto tale, essa era destinata ad essere superata come ogni altra filosofia: come concezione del mondo, il marxismo veniva ad essere una visione parziale della realtà sociale.
La critica più coerente a questa impostazione di Gramsci è stata avanzata da Louis Althusser. Secondo il filosofo francese Gramsci ha avuto il torto di difendere “in tesi d’altra parte frettolose e superficiali, una concezione manifestamente insufficiente, se non falsa, delle scienze” (1980: 344). Il non corretto rapporto con la scienza non ha fornito a Gramsci, secondo Althusser, una definizione completa e corretta della filosofia. Sta di fatto che quando Althusser parla di scienza il modello a cui si riferisce è quello di stampo positivista. Ora non c’è dubbio che una qualsiasi teoria della storia per essere valida non deve intrattenere rapporti soltanto con la politica, altrimenti rischia di ridursi a pura strumentalità, cioè la teoria si subordina alla prassi politica: ogniqualvolta che muta il quadro di riferimento politico, la teoria rischia di essere deformata e piegata ai fini tattici della politica[1]. Ma la teoria della storia, sebbene debba dialogare con la scienza anche per differenziarsene, tuttavia non deve né identificarsi con essa né deve eliminare il discorso della intenzionalità del soggetto:
I positivisti infatti, come Louis Althusser, pongono una coupure epistemologica tra ideologia e scienza, fra intenzionalità e valori soggettivi da un lato e registrazione oggettiva “scientifica” dei “fatti” (Tatsachen) dall’altro. Questa registrazione esprime la passività imposta all’individuo in una società totalitariamente amministrata [...], la sua impotenza a dominare le scienze naturali controllandole con una riflessione critica autonoma (Zima, 1976: 32). Si tratta dunque di comprendere che una teoria sistemica della storia dovrà assumersi il compito di mediare la scienza con l’ideologia: i suoi risultati devono avere il carattere dell’oggettività, ma essere allo stesso tempo soggetti a correzioni e a integrazioni. Se fossero considerati prettamente scientifici sarebbero chiusi ad ogni prospettiva critica, mentre se fossero prettamente ideologici sarebbero del tutto soggettivi. Occorre pertanto capire il senso di questa connessione. Rispetto a tutte le altre riflessioni, il marxismo si presenta come la “filosofia” più adatta a comprendere i rivolgimenti sociali, perché è una teoria che non si dichiara al di fuori della storia, ma vuole agire al suo interno. Soltanto che questa prospettiva, non essendo sempre rispettata, subisce talvolta da parte dei maggiori teorici marxisti delle notevoli oscillazioni.
Ma i critici di Gramsci, che hanno sostenuto la scientificità del marxismo, credevano che in quanto scienza il marxismo non veniva superato nemmeno da un’effettiva realizzazione del comunismo. Il materialismo dialettico, in sostanza, come teoria scientifica della storia, doveva essere valido tanto nelle cosiddette società precomunista quanto nella società comunista. È evidente l’errore di prospettiva di cui questi critici non si avvedevano: assimilando il marxismo alla scienza della natura, subivano teoricamente l’egemonia della pratica che essi si proponevano di rovesciare. Credevano in altri termini che soltanto l’accettazione dello scientismo desse forza e garanzia di successo al socialismo. Pertanto una teoria delle trasformazioni sociali e storiche per essere valida non deve porsi come teoria scientifica, bensì come teoria sistemica. Il passaggio da una teoria scientifica della storia ad una teoria sistemica ha implicato una scissione tra il momento della ricerca e quello “del mondo dei valori”, cioè il concetto di avalutatività[2]. Da questo di vista si comprende perché, secondo me, il criterio di “avalutatività” di Weber non può essere considerato in astratto, ma debba comunque tener presente se il riferimento ai valori mascheri un interesse concreto e particolare, e quindi non esplicitato, o un interesse dichiarato e da concretizzare. Occorre comunque esaminare che rapporto c’è tra la scienza (o teoria) e la politica. Come osserva Pietro Rossi, dal punto di vista di Weber la scelta dei valori, degli scopi, degli interessi a cui l’attività politica si richiama, non può essere fondata sulla scienza, nel senso che essa non rappresenta il risultato necessario di una affermazione scientifica (1979: 252).
Sebbene la separazione non impedisca una connessione tra la conoscenza storica e la scelta politica ai fini della realizzazione dei valori, tuttavia le due sfere debbano essere mantenute distinte e non essere confuse. Il confronto con Weber ci spinge a ridefinire, infatti, il rapporto Teoria e Praxis: una teoria capace di interpretare “correttamente” le forze dinamiche che agiscono nella società fornisce senza dubbio una consapevolezza maggiore a quelle stesse forze che tentano di trasformare la prassi sociale, ma non garantisce di fatto che tali forze agiranno nella direzione indicata dalla teoria, cioè sulla base di quella consapevolezza. Tra la teoria e la prassi politica non necessariamente c’è identità, anche quando la teoria si pone totalmente schierata dalla parte delle forze dinamiche. Parlando fuor di metafore, la teoria sistemica della storia, sebbene consideri il movimento comunista un fattore dinamico di trasformazione, non per forza di cose si identifichi con la sua prassi, cioè con le sue scelte politiche. La teoria analizza le condizioni e le possibilità[3] che questo movimento storico ha di realizzare il suo obiettivo, ma non è in grado di prevedere se alla fine del processo storico esso lo realizzerà o non lo realizzerà. La teoria analizza le condizioni generali che rendono possibili le trasformazioni di un sistema sociale, senza entrare nel merito della sua effettiva realizzazione.
In sostanza, anche da una previsione esatta di un “fatto” non necessariamente se ne può inferire un valore: il “fatto” costituisce soltanto la condizione necessaria ma non sufficiente per concretizzare il valore. Se alla teoria sistemica spetta il compito di analizzare le possibilità e le condizioni oggettive che un valore ha di realizzarsi, rimane poi all’attività politica concretizzarlo fattualmente. Secondo un’interpretazione meccanicistica del materialismo storico, dal crollo o dal collasso dell’economia capitalistica, cioè da un “fatto”, doveva scaturire fuori la società socialista, cioè l’affermazione di valori umani, quali la giustizia sociale, l’emancipazione umana da ogni forma di dominio, ecc. Ora, se fosse teoricamente possibile prevedere il crollo della società borghese, non se ne potrebbe logicamente dedurre la formazione di una società più giusta. Occorre una volontà politica che sappia volgere a proprio vantaggio le condizioni scaturite da quel fatto. Ecco perché l’attività politica, pur essendo in connessione con la ricerca storica, non può essere completamente assimilata ad essa: si distribuiscono su piani diversi. Alla teoria dunque il compito di mettere in evidenza i limiti che un valore ha di concretizzarsi, ma non quello di farli rispettare: la comprensione del mondo e la sua trasformazione sono due attività distinte, ma non separate.



[1] È accaduto infatti alla teoria politica di Gramsci d’essere stata continuamente deformata dalla scelte tattiche del Partito comunista o dai vari gruppi politici che si ritenevano depositari autentici di quella teoria.
[2] Sul concetto di avalutatività il richiamo teorico è chiaramente diretto a Max Weber, Il significato della “avalutatività” delle scienze sociologiche e economiche (1917) (1958: 309-375).


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