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A volte basta trovare una storia, non per forza originale e, subito dopo, trovare il "modo" di raccontarla. C'è chi riesce in una delle due imprese, chi fa cilecca in entrambe. E poi c'è Wes Anderson...
Sì, quello che non sbaglia mai un colpo. Difficile da credere, almeno fin quando non si è appurato che, così è.Per il Grand Budapest Hotel Wes Anderson, si ispira allo scrittore austriaco Stefan Zweig, autore di novelle e numerose biografie. E' negli anni trenta infatti che, il regista statunitense, vuole ambientare la sua storia. Quella che fondamentalmente vede un'amicizia solida e grottesca, instaurarsi tra il concierge del rinomato Gran Budapest, Monsieur Gustave/Ralph Fiennes e il suo "garzoncello", Zero Moustafa.
C'è la perfezione geometrica e l'armonia che pervade lo schermo, a partire dalla Hall dell'albergo fino alle singole stanze. Da sfondo e per contrasto, l'avvicinarsi di una guerra che si avverte solamente al di fuori del Grand Budapest. A mettere in moto la locomotiva immaginifica di Anderson, è un delitto. Stavolta l'espediente scelto sa molto di thriller tipicamente inglese, quasi si torna a pensare ad Hitchcock. E ci sono addirittura dei "cattivi" veri. M. Gustave aveva un debole per le donne attempate, amava distruggere la loro solitudine e al tempo stesso, soddisfare le proprie voglie. Quando una di queste dame muore, Madame D./Tilda Swinton, in circostanze piuttosto misteriose, Gustave si vede costretto a finire in carcere per l'accusa di omicidio. Alle sue spalle non solo l'ombra di una pesante e ingiusta accusa, ma anche la follia dei figli della vittima, assetati dei suoi averi e in trepidante attesa di un testamento che li avrebbe soddisfatti.
E se così non fosse? Se la donna prima di morire avesse scritto che, in caso di morte per omicidio, avrebbe lasciato tutto a M. Gustave? Dove il tutto è in realtà, un quadro dal valore inestimabile.
E se il cattivo di turno, altro non è che un Adrien Brody in stile Nosferatu, c'è veramente poco da ridere...Mi viene in mente la sequenza in cui Agatha/Saoirse Ronan corre lungo i corridoi del Grand Budapest, con il dipinto in mano per sfuggire all'ira di Dmitri/Nosferatu. Ad un tratto la commedia dai colori pastello cede il posto al thriller carico di suspense. Wes Anderson le trova tutte le maniere di stupire lo spettatore. Immaginate una fuga sulla neve in uno stop motion improvvisato, dove i poveri protagonisti buoni sopra uno slittino, rincorrono un pazzo criminale sugli sci. Il criminale, a titolo di cronaca, è Willam Dafoe.
Torna l'amore e la fuga degli amanti giovani e coraggiosi, capaci di sconfiggere ogni male, perfino la guerra. Tutto è reso più lieve, anche il piccolo dolore per una storia che avremmo voluto riscrivere per cambiare qualche dettaglio, dalle mani graziose e dagli occhi celestiali di Agatha. I suoi dolci salveranno la vita a Gustave, permetteranno all'amore di vincere, insieme alla giustizia. Così come accadde per Andy Dufrense nella sua lotta alla conquista della libertà, anche Gustave troverà giustizia.
Si rimane sempre stupiti con un film di Anderson. Forse questo suo modo soprannaturale di raccontare storie che non troveremmo da nessuna parte. Il suo modo di strutturare ogni passaggio e curarlo fin nel minimo dettaglio, ottenendo un disegno perfetto, eppure mai freddo. Ne viene fuori un affresco leggero e surreale. Un carosello di infinite sfumature, che rende usuale ogni cosa, anche quando non lo è.
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