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Gravity: Riuscita Fantascienza d’Autore

Da Dietrolequinte @DlqMagazine

Matteo Vergani7 ottobre 2013Gravity: Riuscita Fantascienza d’Autore

La fantascienza, il genere forse più granitico e consolidato della storia della settima arte, di recente sembra aver preso due fondamentali direzioni. Da una parte le major tendono a sfornare fumettoni dove superuomini dotati di poteri eccezionali vengono chiamati a salvare il loro o il nostro pianeta (ne sono esempi più che esaurienti Iron Man, Riddick e Man of Steel). Dall’altra, invece, l’industria del cinema pare essersi fossilizzata sulle ambientazioni extrafuturibili o post-apocalittiche dove la digitalizzazione e il pessimismo cosmico paiono fare da padroni, conditi da una sana dose di ambientalismo (guardare per credere i vari Avatar, World War Z, After Earth ed Elysium). Quindi parrebbe tutto a posto, no? E invece si vede come il pubblico sia ormai insofferente dinnanzi a queste storie incredibili e troppo lontane dal comune, persino dall’universo visionario della Sci-Fi più classica. Perciò non c’è da stupirsi se nella soffocante canicola del Lido di Venezia, proprio un rivoluzionario film di fantascienza, distante kilometri (o meglio, anni luce) dai prodotti contemporanei di genere, si sia imposto all’apertura della 70. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, suscitando critiche entusiaste ed elogi unanimi. Si tratta di Gravity, ultimissimo lavoro dell’apprezzato regista messicano Alfonso Cuarón, nel quale spiccano due stelle di prima grandezza quali Sandra Bullock e (l’ormai) attempato George Clooney. Ma dove sta tanta bellezza ed eccitazione di fronte ad un lungometraggio che, almeno a prima vista, pare anch’esso non proprio un baluardo di originalità? Ebbene, come prima cosa va detto proprio a tale riguardo che Gravity risulta rivoluzionario proprio perché ritorna senza vergogna ad uno dei temi più amati e gettonati della fantascienza anni ’80 e ’90, ovvero i viaggi spaziali, di cui abbiamo potuto ampiamente godere in opere apprezzatissime in passato come Space Cowboys (2000) di Clint Eastwood e il celeberrimo Apollo 13 (1995) di Ron Howard.

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Abbandonato il clima da conquista spaziale tipico della guerra fredda, questi film hanno sempre affascinato il pubblico perché, vere e proprie tragedie ambientate tra le stelle, raccontano lo scontro dell’uomo contro l’ignoto che lo circonda, il buio cosmico dove cercare le risposte della sua origine e combattere contro quella forza primordiale e terribile che è il nulla. E Gravity proprio questo fa, e, servendosi di una trama semplice e a dir poco lineare, racconta l’estenuante avventura della dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) impegnata in un rocambolesco e pericolosissimo rientro dallo spazio dopo che la sua stazione è ormai distrutta e il compagno di viaggio Matt Kowalski (George Clooney) è finito alla deriva. Insomma, la classica vecchia lotta dell’uomo contro le forze (in questo caso cosmiche) della natura. Da un punto di vista narrativo, la splendida sceneggiatura, scritta a quattro mani da Alfonso Cuarón e dal fratello Jonás, non si lascia traviare dalla facile tentazione della spettacolarizzazione che il genere, quasi a livello subliminale, suggerisce, e si concentra su una profonda e complessa analisi psicologica della protagonista, la quale si trova a dover fronteggiare da sola grandi problemi (il rientro in orbita) e i piccoli ostacoli della situazione (l’assenza di gravità, le riserve di ossigeno). Numerosi sono gli argomenti affrontati nella pellicola, primo fra tutti quello della maternità, reso sia fornendo allo spettatore informazioni che riguardano la dottoressa Stone (la protagonista ha perso di recente una figlia) sia a livello figurativo (il cavo/cordone ombelicale che tiene ancorati gli astronauti alla nave/madre e le pose fetali della Bullock rannicchiata nella capsula/grembo). In seguito, abbiamo il tema ridondante delle origini, il quale viene espresso nei continui riferimenti dei personaggi alla loro casa e, in modo non chiaramente esplicitato, agli stati e alle nazioni (simboleggiati dalle varie navette e stazioni spaziali orbitanti).

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Tecnicamente ineccepibile, il film si affida ad una regia inventiva ed estremamente dinamica, che organizza la narrazione in (finti) lunghissimi piani sequenza di oltre dieci minuti (usando l’espediente tecnico del celebre Nodo alla gola di Hitchcock) che si snodano tra ambienti spaziali e cunicoli interni alle navicelle (così come in Alien di Ridley Scott), giocando moltissimo su quella che pare essere l’ossessione iconografica del regista fin dal terzo capitolo di Harry Potter (ma si veda anche il futuribile I figli degli uomini), ovvero un’estrema fluidità della macchina da presa che continua a passare dentro e fuori dalle superfici riflettenti (siano essi specchi o visiere di caschi spaziali). Finalmente poi, dopo anni di inconcepibili e irreali esplosioni cosmiche che contraddicevano ogni legge fisica, ecco che Cuarón, memore del maestro Kubrick in 2001: Odissea nello spazio, gira le scene in esterno senza alcun rumore (ricordiamo che si tratta di ambienti senz’aria), tranne la più che coinvolgente colonna sonora di Steven Price, aggiungendo un importante punto di realismo al suo lavoro e facendo felici i fisici e gli astronomi di tutto il mondo. Ma ciò che bisogna lodare senza posa è la straordinaria performance della Bullock, che dopo alcuni anni di oblìo (almeno se parliamo del cinema dei blockbuster e dei grossi incassi, l’attrice ha comunque vinto un Oscar nel 2010 con The Blind Side), ritorna prepotentemente alla ribalta, iniziando forse a fare un pensierino a qualche premio importante (un’altra statuetta?). Qui si trova a dover sostenere da sola novanta minuti di solitaria lotta contro un universo digitale ricostruito in studio e successivamente reso stereoscopico per introdurre appieno lo spettatore nell’ansia e nell’eccitazione della situazione. Infatti, a distanza di oltre settant’anni dal suo primo utilizzo cinematografico in Psyco di Hitchcock, ecco che assistiamo al ritorno della pratica nota come morte della star, in quanto Clooney, al pari di Janet Leigh nel 1960, sparisce dallo schermo dopo appena mezz’ora dall’inizio, lasciando nelle mani della Bullock la responsabilità della pellicola.

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Interpretazione intensa e genuina, che unita ad un sorprendente fisico da ventenne e ad un fascino maturo contribuiscono a farne un sex symbol senza tempo oltre che una performer di indiscussa bravura. La Bullock si trova ad impersonare un’eroina solitaria ed impaurita in balia degli eventi, la quale dovrà fare appello a tutto il suo coraggio e alla sua instancabile forza di volontà per trovare uno spiraglio di salvezza. Per il ruolo erano state interpellate stelle di prima grandezza come Angelina Jolie, Scarlett Johansson, Natalie Portman e Naomi Watts, ma alla fine la Bullock pare aver accolto con grande spirito la parte, dimostrando ancora una volta di essere in grado di reggere senza alcun problema un solido ruolo da solista. Per Clooney invece la sfida lo ha visto trionfare contro il collega Robert Downey Jr., anche se la sua presenza scenica si riduce a una semplice spalla narrativa di indiscusso humour e di ineccepibile bravura. La fotografia di Emmanuel Lubezki rende appieno la fredda e crepuscolare atmosfera cosmica, così come le ricostruzioni scenografiche di Andy Nicholson riproducono più che fedelmente l’interno dei moduli spaziali. Ma i veri co-protagonisti della pellicola sono di sicuro gli effetti speciali che, affidati alla Framestore, società premio Oscar per La bussola d’oro (2007), creano un universo perfettamente credibile e coerente, pur senza rinunciare alla classica adrenalina ed all’estetica sublime della finzione scenica. Un vero paradiso per gli occhi e per il cuore questo Gravity, un’opera meritatamente elogiata per la sua perizia tecnica quanto per la grande perfezione narrativa, due elementi che ne faranno di sicuro un successo sia commerciale che d’autore. D’altronde, così come recita la nostra memoria collettiva, non resta che andare verso l’infinito e oltre. Ma attenzione; occhio alla gravità!

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