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Guerra d’Etiopia – Diario di un Combattente (Parte Sesta)

Creato il 18 marzo 2013 da Federbernardini53 @FedeBernardini

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(Copertina originale del manoscritto – “Mario Saragat”)

Grazie a Ines Saragat, nipote del protagonista di queste pagine, che a quell’evento partecipò in prima persona, abbiamo l’opportunità, dopo quasi ottant’anni, di riflettere su una pagina assai controversa della nostra storia recente, che ci viene presentata in forma di diario.

Un documento prezioso, che pubblichiamo in esclusiva, a puntate, per i lettori dell’Urlo.

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Mario Saragat -secondo da destra

E così alle 15 mi separai da Felice, con rammarico ma contento di lasciarlo in salute, e più per averlo trovato in un simile periodo.

Alle 8 di sera arrivammo a Macallè dove era la riunione di tutta la spezzettata Batteria Comando.

Facciamo le tende e l’indomani ci dice il comandante di Batteria, dopo un elogio ferventissimo, che il comando superiore per il lavoro fatto da noi, ci mandava a riposo senza giorni fissati; perché poteva darsi anche che domani stesso ci richiedessero da Adua, dato che per quello siamo venuti a Macallè.

La sera il colonnello comandante ci lesse il Bollettino dove pure ci sono gli elogi al 7° da S.E. Badoglio e da Pitassi com. d’artiglieria. L’indomani, domenica 23 febbraio, dopo la Messa e un lungo discorso di Mons. Don Angeli ten. Cappellano, venne personalmente il Generale Pitassi il quale ci fece a voce il suo elogio, ma in special modo alle tre Pattuglie 1^, 2^ e 3^.

Io appartenevo alla 2^ P.o.c.

La sera vennero cinque o sei macchine cariche di ufficiali di ogni grado con cinque giornalisti tra i quali una Signorina francese; fecero un banchetto speciale e dopo questo la signorina volle ballare un ballo con i soldati che avevano piacere di ballare.

La nostra Pattuglia subito si è messa su, e dentro la tenda “Lazio” ha avuto luogo questo divertimento che durò sino alle quattro del mattino.

Tutti eravamo allegri sia dal vino sia dalla gioia; il colonnello fece un ballo con la Signorina, il quale era buffo vederlo con la pancia fuori di un metro, con gli occhi che gli scintillavano dal vino.

Dopo il ballo la volle baciare, e fece venire l’acquolina in bocca pure a noi, e allora erano grida di ogni genere, nessuno ricordava più di essere militare, tenevamo tutti un contegno rispettoso ma non militare, più che borghese.

E così dal giorno viviamo a riposo e in attesa.

Il giorno 25 da Adua richiesero due Pattuglie, ma per fortuna a me mi lasciarono; e nessuno più si mosse.

Ogni giorno seguiamo i nostri che avanzano rapidamente sull’Amba Alagi e già sono arrivati alla strada imperiale che conduce ad Addis Abeba.

E noi ce ne stiamo fino a nuovo ordine a riposo.

Questa notte, ossia 1° Marzo, alle ore 21, fanno l’allarme (cosa che ci sbalordisce essendo in un posto così sicuro).

Allora ci spiegano: dal Tembien le azioni sono sempre in vigore; questi giorni hanno avuto un fortissimo attacco e oggi sono scappati assieme a Ras Sejum ferito, e si ha paura per qualche infiltrazione.

Su Adua, Ras Cassa anche è ferito ed è scappato, ma è già circondato, il suo seguito è distrutto; nelle nostre mani ha lasciato forte quantità di materiali, quadrupedi e armi.

Oggi, giorno 3-3-36, iniziato il campo sportivo per l’istruzione.

4-3-36. Passato magazziniere al materiale Radio e dispensato da tutti i servizi; per passarci il tempo, io e un sergente ci mettiamo a sviluppare e a stampare fotografie.

Giorno 20-3-36. Ordine improvviso di partenza.

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Felice Saragat

Giorno 21-3-36. Ore 2 del mattino, partenza per Amba Alagi; ore 14, arrivati al passo di Alagi.

22-3-36.Alle ore 18, venuto Felice con la moto a trovarmi. E’ stato tutta la notte fino alla mattina alle 7 con me; ogni giorno assieme fino al 30 notte ore 24, quando siamo partiti per l’avanzata.

Le strade, un disastro; troppo strette. E le curve bisognava aiutarle noi a mano, superavano i 90 gradi, tutta la notte per fare sei chilometri (a momenti faceva marcia indietro, l’uomo, in quelle curve).

Alle ore 11 del 31, arrivati a Enda Corcos.

Alle 12 e 30, fardello e in marcia verso le linee; con noi aggregati sono quattro carrette auto e quattro muli.

Strade non ce n’è e nessuno, si sa, conosce il posto; le carrette bisogna portarle su a spinte. (Anche gli ufficiali non si risparmiano le fatiche vedendo che noi non ne possiamo più).

La sera ci coglie l’acqua, mentre spingevamo le carrette sul passo di Aihè (quota 3434).

La mattina il posto, ovunque si passi, è un pantano di fango, date le persone e i muli che sono passati. Ma noi, bisogna avanzare.

Il lavoro del giorno, solo Dio lo sa.

La sera, verso le tre, abbandoniamo le carrette, a chi scassate da una parte, e a chi dall’altra; e senza queste non possiamo più andare su perché si slitta.

Dalla mattina alle quattro fino alle tre di sera si è fatto sei chilometri, ma è peggio di averne fatto 80 dalla stanchezza e dalla gran fame che si ha; eppure bisogna caricarci i corredi e il materiale a spalle e continuare a salire, per arrivare al passo Duber dove due giorni fa si è avuto l’attacco, avendo anche delle perdite dalla parte nostra.

Alle sette di sera si arriva; qui troviamo i feriti nostri buttati per terra perché l’ospedaletto che c’è è pieno; nessuno ha voglia di farsi la tenda e ci buttiamo così, compresi gli ufficiali.

Verso mezzanotte incomincia a piovere; alle due viene l’ordine dal nostro colonnello che è avanti, di seguirlo entro notte.

E ci mettiamo in cammino, con l’acqua che scroscia, il posto ci fa spavento a vederlo. E’ una vallata tutta sassosa, e la mulattiera nessuno la trova benché abbiamo la luna a favore.

Alle quattro del mattino arriviamo dal colonnello tutti inzuppati d’acqua e stanchi morti; qui dobbiamo stendere le linee e andare di Pattuglia.

A me mi mandano con un sergente maggiore alle linee, per un ordine.

E’ spaventoso raccontare: la linea è a due chilometri, ma è tutto burroni e siamo dovuti scendere con le cinghie dei pantaloni; dopo mezz’ora di strada ci imbattiamo in un gruppo di abissini, eravamo già fuori dalle linee.

Dio sa come ci siamo scampati.

Arriviamo dove dovevamo arrivare, ossia dal Generale Pitassi; alle sei del mattino siamo di ritorno.

Alle 12 (mezzogiorno) si parte di qui; le carrette sono tutte ribellate, l’acqua ancora non ha smesso, ma nessuno più ci fa caso.

Dopo tre ore ci raggiungono due carrette, con il materiale più interessante.

Alle 10 di notte arriviamo al passo Mecan, ci mangiamo una scatoletta in due perché viveri non ne abbiamo, ma il puzzo dei cadaveri non ci lascia respirare, il fuoco è sempre continuo.

Alle 4 di notte ci alziamo perché dobbiamo portare il materiale su una collina, e ci accorgiamo che eravamo in mezzo ai cadaveri nostri, messi provvisori per farci il cimitero.

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Felice e Mario Saragat – primo e secondo da destra

Foto di proprietà di Ines Saragat



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