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“Habemus Papam”, il film più bello di Nanni Moretti fin da “La stanza del figlio”, affronta il tema dell'impotenza nella particolare declinazione morettiana: l'impotenza a esprimersi: l'afasia.
Infatti la figura dell'afasia attraversa tutto il cinema morettiano. Dall'incapacità a esprimere i propri sentimenti che trasforma Moretti in lupo mannaro in “Sogni d'oro” all'impossibilità di trasmissione del discorso della fede ne “La messa è finita”; dalla ripulsione per il discorso falso fatto di parole di plastica (l'indimenticabile protesta per le domande della giornalista in “Palombella rossa”) alla difficoltà della creazione artistica che è il grande tema di “Aprile”.
Questa è la ragione per cui in Moretti è così frequente la figura dello psicoanalista. La psicoanalisi non è forse il tentativo di spezzare il silenzio dell'Es, o meglio, il suo esprimersi insensato e distorto? “Dove c'era l'Es ci sarà l'Io”. La psicoanalisi è la ricerca di un senso al linguaggio (Lacan).
Ora, per il non credente Moretti, qual è la caratteristica principale di un Papa? E' un comunicatore. La bocca della verità per un miliardo di uomini. Quando il Papa riluttante appena eletto (un gigantesco Michel Piccoli) viaggia sconosciuto in metrò, parlando da solo come un matto, dice: “Sto cercando le parole per un discorso che devo fare davanti a tante persone. Sono un po' preoccupato”. Parlando con la psicoanalista Margherita Buy, collega ed ex moglie di Moretti, alla domanda che mestiere faccia, risponde: “Che cosa faccio? Faccio l'attore”. L'attore, cioè l'incarnazione massima della comunicazione – colui che appare in scena e parla direttamente al cuore di una platea di sconosciuti. E' proprio questa incapacità che lo schiaccia – di qui il “gran rifiuto”, l'angoscia, il blocco, le sue urla inarticolate che risuonano durante l'annuncio “Habemus Papam” al balcone di Piazza San Pietro. L'inarticolato è il modo dell'afasia.
E' degno di nota peraltro che durante la sequenza del Conclave tutti i cardinali, in tutte le lingue, pensino la stessa cosa: “Non io, Signore, non io”. Non è una nevrosi singolare di Michel Piccoli ma un terrore collettivo.
Questa invenzione - di un Papa che entra in crisi all'atto dell'elezione, onde bisogna chiamare uno psicoanalista - dà luogo com'è ovvio a magnifici momenti di commedia. Commedia nera, alla Ferreri, quando quelle urla irrompono durante l'annuncio del cardinal protodiacono al balcone (nella scena, per inciso, Moretti si dimentica il crocifero, che invece appare nella seconda comparsa al balcone nel finale). Notevole qui un'inquadratura di suore e fedeli sconvolti, poiché ha una particolare sincerità. Moretti potrà anche rivendicare in modo un po' nietzschiano la “terribile bellezza” del darwinismo, quando parla col cardinale, ma la bellezza non meno terribile della fede e della confidente attesa non lo lascia indifferente.
Tutti gli sviluppi di una situazione così ricca sono gestiti splendidamente, con una logica degna della commedia classica americana. Viene subito chiamato il famoso psicoanalista Vezzi (Moretti). Deliziosi i dettagli sulle difficoltà procedurali quando si psicoanalizza un Papa, deliziose le gaffes di Moretti (il suo dar la mano al Papa quando lo incontra, il suo “Vede, Papa, con tutta questa gente intorno...”). Quando poi Michel Piccoli diventa uccel di bosco per le vie di Roma, il film si divide in due linee parallele, ed è vero che, come molti già hanno osservato, esse non sono troppo ben coordinate - ma sono entrambe così amabili!
La prima vede Moretti e i cardinali ancora in Vaticano, convinti che il Papa sia sempre chiuso nei suoi appartamenti. Qui esplode la magnifica comedy dei cardinali, che Moretti trasforma in un personaggio collettivo, ed è l'invenzione più pirotecnica del film. Si direbbe che Moretti sia affascinato da questo corpo di principi della Chiesa, che descrive con uno sguardo di calda simpatia (mentre riserva la parodia aspra ai giornalisti). Anche prima di comparire lui in scena, li concretizza con invenzioni assolutamente chapliniane: vedi come, nel voto al Conclave, la scena ponga un geniale parallelismo con i bambini a scuola durante un compito in classe. Tutte le osservazioni sul gruppo cardinalizio, sulle sue dinamiche, sul loro modo di “sgelarsi” sotto l'influsso dello psicoanalista, fino alla gigantesca sequenza del campionato di pallavolo, hanno una felicità inventiva stupefacente.
La seconda linea narrativa del film è dedicata al vagabondaggio del Papa. Qui vi sono varie avventure (anche un accenno di riflessione sulla fede, quando ascolta una predica in chiesa – ma sotto quest'aspetto tutta la pars construens del film, appena accennata, è un po' debolina), che culminano nel capitolo sul teatro dove, tramite Cechov, vengono allo scoperto non solo il particolare delle aspirazioni giovanili frustrate del personaggio ma il generale del discorso sul teatro sotteso al film. Di qui la conclusione – dove è perfetta l'entrata solenne del “Miserere” di Arvo Pärt sulla svolta drammatica della (non sorprendente) sorpresa finale.
Questo anche per dire che “Habemus Papam” si caratterizza per un'estrema bellezza formale. Raramente Moretti, i cui esordi cinematografici erano all'insegna di una semplicità formale che sfiorava il disinteresse, ha realizzato un film così rifinito in termini di inquadratura e di montaggio (c'è anche un raffinato esempio di montaggio temporale non consecutivo, raro per l'autore, riguardo al colloquio del Papa con Margherita Buy). Per questo, per la sua compattezza, per la sua umanità, il film è da salutare come un passo avanti di prima importanza nel percorso del cinema morettiano.
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