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Hedda Gabler: ai Confini del Dramma Borghese

Creato il 13 dicembre 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Alessandro Puglisi

Hedda Gabler, annoiata e dispettosa, voluttuosa e scostante, è il personaggio al centro di uno dei testi teatrali più noti, e più di successo, di Ibsen, portato in scena dal regista Antonio Calenda, nella traduzione di Roberto Alonge, prodotto dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e dalla Compagnia Enfi Teatro e interpretato, fra gli altri, da Manuela Mandracchia, Luciano Roman, Jacopo Venturiero e Federica Rosellini. Su un fatto si può essere tutti d’accordo: Henrik Ibsen è stato un drammaturgo che, più e prima di altri, forse ancora più celebrati, è riuscito a scavare le interiorità più recondite, e portare alla luce le numerose contraddizioni sociali che sarebbero esplose (nell’arte, soprattutto) con il passaggio dal diciannovesimo secolo al ventesimo, e nei primi anni di quest’ultimo. Hedda Gabler è una di queste “interiorità scavate”. Il testo viene licenziato dal suo autore nel 1890, e la prima rappresentazione ha luogo l’anno successivo. Da un punto di vista cronologico, Hedda Gabler segue altri due testi centrali, Casa di bambola, del 1879, e La donna del mare, del 1888, e in certo modo ne completa, e amplifica, la portata. La vicenda vede Hedda (Manuela Mandracchia) prima sposa, per ragioni economiche più che affettive, a Jorgen Tesman (Jacopo Venturiero), studioso e topo di biblioteca, poi tremendamente gelosa di Løvborg (Massimo Nicolini), studioso “rivale” del marito, manifestamente di capacità superiori, e della signora Elvsted (Federica Rosellini), vecchia fiamma di Tesman e adesso amante di Løvborg; e la vede anche insidiata, e poi ricattata, dal mellifluo giudice Brack (Luciano Roman): intreccio di ragioni e azioni che non le dà scampo.

Hedda Gabler: ai Confini del Dramma Borghese

Calenda sceglie un approccio classico, e sostanzialmente rispettoso del testo, e inquadra i suoi attanti in una bella scenografia, di Pier Paolo Bisleri, trapezoidale e delimitata ai lati da ampi tendaggi, con un’estensione sul fondo, separata da un velatino scuro, utile a mantenere in scena parte di ciò che si svolge fuori scena, visto ma non udito. In questi due spazi, illuminati dalle luci discrete e tendenzialmente piene e dirette di Nino Napoletano, e senza mai irrompere in proscenio, o concedersi “a parte”, si aggirano i personaggi. Su tutti, la Hedda interpretata da Manuela Mandracchia, con misura e proprietà, e consapevolezza del fatto che il suo personaggio è il vero e proprio perno attorno a cui ruotano (anche fisicamente) tutti gli altri. Bravi i comprimari, da Venturiero a Nicolini a Roman, e particolarmente intensa la giovane Federica Rosellini nella parte di Thea Elvsted, personaggio che più degli altri, e con maggior dolore, conosce un percorso di progressiva e ineffabile disillusione. Vale la pena di annotare anche il personaggio della zia Julle (Simonetta Cartia) e quello di Berte (Laura Piazza, brava e singolarmente nel ruolo di una domestica che, nel testo originale, è molto più avanti con l’età).

Hedda Gabler: ai Confini del Dramma Borghese

Hedda Gabler è un meccanismo drammaturgico che forza di continuo i limiti, i confini, a tratti molto angusti e allo stesso tempo sfumati, del dramma borghese, insinua dubbi, suggerisce derive vagamente meta-teatrali, accede ad ironie brechtiane, finanche destabilizzanti. Calenda sceglie una via registica solida, se vogliamo senza particolari “scossoni” (qualcuno potrebbe pensare, per converso, alla versione cult di Thomas Ostermeier), ma efficace e dal buon ritmo, nonostante l’estensione, invisa, è sembrato, a certo pubblico medio, attestato ormai sui tempi, mediamente più ridotti, del cinema. Di certo, questa Hedda Gabler vive soprattutto della bravura di Manuela Mandracchia, non più “attrice rivelazione”, ma affermata interprete, tra le più brave della sua generazione; e si inserisce nel solco di altre rappresentazioni di grande qualità, ospitate in anni passati sempre dallo Stabile catanese, tra cui Danza di morte e Signorina Giulia di Strindberg, il primo con la regia di Marco Bernardi, il secondo con quella di Valter Malosti.

 

Fotografie di Tommaso Le Pera

 

Hedda Gabler: ai Confini del Dramma Borghese

 


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