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I canti orfici compiono cento anni

Creato il 18 novembre 2014 da Cultura Salentina

I canti orfici compiono cento anni

18 novembre 2014 di Redazione

Cesare Minutello

Pasquale Urso: Lavoro nel vicolo (Acquatinta)

Pasquale Urso: Lavoro nel vicolo (Acquatinta)

E’ giusto che, per una volta, Cultura Salentina oltrepassi i confini della “salentinità” rendendo omaggio ad una delle più significative ricorrenze letterarie dell’anno: cento anni fa Dino Campana pubblicò, a proprie spese, quello che sarebbe divenuto uno dei punti cardinali della poesia italiana (e non solo) del novecento, i Canti Orfici. All’inizio di dicembre 1913, come ricorda Angela Urbano, Campana consegna a Papini il manoscritto “Il più lungo giorno”; Papini lo dà a Soffici per un parere: Soffici lo smarrisce e verrà ritrovato soltanto nel 1971. Nel frattempo, dopo aver minacciato Papini di farsi giustizia “con un coltello” se non gli avesse restituito le sue poesie, Campana le riscrive a memoria e le stampa a proprie spese nel 1914, titolando la raccolta Canti Orfici. Due anni dopo scriverà a Cecchi: ” Se vivo o morto lei si occuperà di me, la prego di non dimenticare le ultime parole They were all torn and cover’d with the boy’s blood che sono le uniche importanti del libro”. La citazione, da Whitman, è l’epigrafe dei Canti Orfici: ” Essi erano tutti stracciati e coperti con il sangue del fanciullo”. Riporto qui il testo de “La chimera”, che come Sirio si staglia sui cieli alti, nottetempo, della poesia mondiale, a mò d’ Esempio per i cultori salentini del versificare.

La chimera (di Dino Campana)

Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera


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