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I corridoi della paura (Pt.2)

Creato il 04 aprile 2015 da Theobsidianmirror
I corridoi della paura (Pt.2)Ma come già per Polanski, i corridoi sembrano aver influenzato in buona parte quasi tutta la filmografia di Dario Argento. Ricordate il corridoio rivelatore della celeberrima scena finale di “Profondo Rosso” (1975)? E quell’altro, ancora più spaventoso, che dovette affrontare nello stesso film la scrittrice Amanda Righetti pochi istanti di venire assassinata? Altri corridoi furono generosamente offerti da Dario Argento nel successivo “Inferno” (1980), ricordate? Non solo tutti quegli orribili corridoi presenti nella magione newyorkese della Mater Tenebrarum, ma anche e soprattutto il corridoio dell’abitazione di Sara (Eleonora Giorgi), dove sia lei che Carlo (Gabriele Lavia) troveranno la morte in una delle scene a più alto tasso di suspense del film. “Le mie paure sono metafisiche, trascendentali, inspiegabili. Non sono paure concrete, reali, quotidiane, ma nascono dai miei incubi. Per questo i miei film hanno tutti una componente onirica. Mi spaventano le scale, mi atterriscano i corridoi e il pensiero che a percorrerli possano essere presenze oscure, maligne”, disse tempo addietro nel corso di un intervista lo stesso Dario Argento. I corridoi non sono quindi assolutamente un particolare lasciato al caso nel cinema del regista romano e, seguendo il suo stesso spunto, possiamo anche noi ampliare il nostro discorso alle scale, le cui caratteristiche, se vogliamo, sono ancora più sinistre di quelle dei corridoi: nelle scale l’angoscia viene amplificata dal suo andamento verticale, oltre che da quello orizzontale di cui già sappiamo.
Viene subito in mente “La casa con la scala nel buio” (1983) di Lamberto Bava, la cui scena iniziale è forse una delle più spaventose che io ricordi (e, per inciso, nel corso del film, abbiamo a che fare con diversi corridoi, non ultimo quello labirintico del finale, dove viene finalmente rivelato il volto del killer). Altre scale memorabili potrebbero essere quelle del bellissimo “Chi c’è in fondo a quella scala” (Pin, 1988) oppure dell’agghiacciante (decidete voi in che senso) “La scala della follia” (Dark Places, 1973), ma l’oscar della scala più celebre va senza dubbio a quella a chiocciola di Robert Siodmak (The Spiral Staircase, 1947), la storia una ragazza affetta da un mutismo di origine psicologica che si troverà ad avere a che fare con un serial killer specializzato nell’omicidio di donne disabili (inutile dire che la ragazza rimarrà inevitabilmente sola in casa con il folle omicida). Una menzione speciale va poi a “La donna che visse due volte” di Hitchcock, con le scale del campanile come vero luogo cardine di tutto il film, e naturalmente a “La corazzata Potëmkin” di Ėjzenštejn e all’indimenticabile scalinata di Odessa. Quest’ultimo, lo so bene, non è un horror né un thriller, ma la scalinata amplifica l’effetto drammatico e orrorifico della mattanza rappresentata in una scena talmente famosa da essersi meritata almeno una citazione di culto (ne "Gli Intoccabili”, naturalmente). 

I corridoi della paura (Pt.2)

Profondo Rosso (Dario Argento, 1975)

Ma lasciamo da parte le scale e torniamo rapidamente ai corridoi. Su quelli cimiteriali immaginati da Don Coscarelli nella sua pentalogia Phantasm (1979-2015) non credo serva aggiungere nulla (ne abbiamo parlato ampiamente qui), così come non serve dilungarsi sul corridoio di hitchockiana memoria ammirato in Poltergeist (1982) di Tobe Hooper (di quello abbiamo parlato qui). Interessante invece soffermarsi sui corridoi della metropolitana londinese così come li abbiamo visti nel fondamentale “Un lupo mannaro americano a Londra” (An American Werewolf in London, 1981). In questo caso si può parlare forse più di tunnel che di corridoi, ma la sostanza non cambia: l’orrore non proviene dai lati, ma dall’incertezza di ciò che attende dietro la prossima curva o, meglio ancora, di ciò che insegue alle spalle, costringendo chi si trova in tale situazione a fare ciò che non avrebbe mai voluto, vale a dire correre a perdifiato verso l’ignoto. Ritroveremo il tunnel altre volte nel cinema dell’orrore, l’ultimo cronologicamente forse in quel gioiellino di “Absentia” (2011), firmato dall’astro nascente Mike Flanagan. È invece obbligatorio parlare del corridoio per eccellenza, il numero uno dei corridoi, quello che in assoluto ha turbato i sogni di chiunque ne abbia affrontato la visione. Mi sto riferendo naturalmente al dedalo di corridoi visti in “Shining” (1980), ovvero a quell’incredibile scenografia messa in piedi da Stanley Kubrick per il suo Overlook Hotel. Chi di noi, ospite di un albergo per vacanza o per lavoro, non richiama alla memoria, almeno per un attimo, quelle angoscianti inquadrature di Shining? Chi di noi non prova un piccolo brivido quando si ritrova da solo, sbarcato dall’ascensore al piano di un albergo, alla ricerca la porta della propria stanza? A me capita sempre. Tutte le volte.

I corridoi della paura (Pt.2)

Phantasm (Don Coscarelli, 1979)

E ogni volta prego che non mi venga assegnata quella maledetta camera numero 237. Sorvoliamo, a proposito di Stanley Kubrick, su quel claustrofobico corridoio circolare visto in “2001 Odissea nello spazio” (1968), e passiamo decisamente oltre, spostando la nostra attenzione su una saga horror nella quale i corridoi l’hanno sempre fatta da padrone: sto parlando di Nightmare (1984-1994) che, sin dal primo capitolo scritto e girato da Wes Craven (A Nightmare on Elm Street), ha elargito corridoi terrificanti in tutte le salse: corridoi di case, di scuole, di fabbriche abbandonate e… chi più né ha più ne metta. Non è assolutamente inverosimile questa abbondanza di corridoi in una saga che ruota attorno al mondo onirico, luogo spaventoso per eccellenza, i cui temi (in questo caso le ossessioni legate all’infanzia) ricalcano i topoi del cinema horror e addirittura li superano, incarnando una volta per tutte le paure più ancestrali e materializzandole nel mondo reale sotto forma di una figura demoniaca, quel Freddy Krueger che, dal punto di vista analitico, rappresenta in realtà la coscienza sporca dalla quale i cittadini di Springwood non riescono a liberarsi. Il corridoio in Nightmare rappresenta ancora una volta il punto di passaggio tra l’aldiquà e l’aldilà ma ciò che lo rende sostanzialmente diverso è la capacità di chiudersi su stesso, cortocircuitando i propri estremi affinché sia sempre più difficile, per l’incauto viaggiatore, distinguere l’inizio dalla fine, il sogno dalla realtà, il bene dal male, la vita dalla morte. Dopo Nightmare e per tutti gli anni Novanta il cinema occidentale finisce un po’ per trascurare il corridoio come elemento perturbante. Parlando del presente sono solo due i casi che a memoria riesco a citare: “Naboer”, film norvegese del 2005 del regista Pål Sletaune, dove il povero John si ritrova alle prese con due invadenti vicine e una casa dai troppi cunicoli; e “Citadel”, piccolo film irlandese del 2012 di Ciaran Foy, dove i corridoi di un complesso di appartamenti sono il teatro di agghiaccianti episodi di aggressione da parte di individui che (forse) non sono nemmeno più umani. Il secondo, in particolare, mi ha dato più di un brivido costringendomi a condividere, anche se per poco, l’agorafobia del protagonista.

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Nightmare, dal profondo della notte (Wes Craven, 1984)

Spostiamo quindi la nostra attenzione al nascente fenomeno conosciuto come J-Horror e troviamo subito nuova linfa in “Ju-On” (The Grudge, 2000) di Takashi Shimizu. Il film racconta della maledizione di una casa dove, anni addietro, un uomo uccise la moglie e il figlio in un impeto di gelosia. L'insegnante di quest’ultimo si recherà nella casa in cui è avvenuta la strage per rimanere vittima della maledizione rimasta nella casa e propagarla all'esterno come un'epidemia. È proprio la scena girata in notturna nel corridoio di un ospedale, ripresa dalle telecamere di sorveglianza, quella forse più terrificante. Fu proprio Ju-On a inaugurare quel canone orrorifico in base al quale vengono mostrati lunghi corridoi le cui le luci si spengono in sequenza avvicinando le tenebre (e con esse la minaccia in esse contenuta) al malcapitato di turno. Ne avrò viste a milioni di scene del genere. Al momento mi sovviene “Coming Soon” (2008) del tailandese Sopon Sukdapisit (recensito qui), ma sono certo che ne esiste una lista interminabile, così come interminabile sarebbe tentare di elencare i corridoi all’interno del cinema asiatico dove, proprio per la tipica struttura degli edifici, i corridoi angoscianti sono spesso involontari e comunque presenti anche quando non necessari ai fini della narrazione. Tra i tanti possiamo citare “Dark Water” (2002) di Hideo Nakata, “The Eye” (2002) dei fratelli Pang, “APT (2006) e “Forbidden Floor” (2006), entrambi del coreano Ahn Byeong-ki, “Apartment 1303” (2007), del giapponese Ataru Oikawa, oppure da Honk Kong "Haunted Office" (2002) di Marco Mak e, perché no, “Red Eye” (2005), del coreano Kim Dong-bin dove il luogo dell’orrore assume le sembianze del corridoio di un treno. È proprio in questo prolifico scenario che si inserisce la saga “Whispering Corridors”….

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