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I demoni di Prada e la letteratura

Creato il 25 settembre 2011 da Ghostwriter

  Il diavoloTutto quello che è scritto bene finisce prima o poi su The Art of Hunger, perché non dovrebbe esserci anche un film dall'apparenza patinata e frivola come Il diavolo veste Prada, dai buoni dialoghi e con il ritmo di un piccolo sisma? Tanto più che di questo film non m'interessa né la regia né altri aspetti formali quanto il fatto (sociologico) che attesta un'appartenenza reciproca della moda e della letteratura di cui la cultura nostrana non è mai stata molto consapevole. Anzi, il classicismo testamentario dei nostri umanisti l'ha sempre snobbata - con le debite eccezioni, s'intende. Gli anni Cinquanta in America sono stati importanti per tante ragioni, una delle quali è stata la crescita esponenziale dell'arte fotografica, da semplice documento etnografico a mezzo espressivo, della narrativa del dopoguerra che comincia a liberare strani demoni (Capote, Salinger, Vidal si allontanano da una certa retorica diffusa dal “mito vivente” Hemingway), delle arti visive che esplodono nel dripping di Jackson Pollock o nel quadro all over di Franz Kline – un vero e proprio atto bellico e modernista- così come della musica, sempre più radicale, con John Cage da un lato e i Beatles dall'altro. Sconfinamenti, energia e colore dappertutto: la metropoli è come un Grande Quadro Cinetico. Negli anni Cinquanta poteva accadere che i racconti di uno scrittore esordiente come Truman Capote cominciassero ad apparire su una rivista di moda e costume come Harper's Bazaar...C'è stata un'epoca in cui pubblicare letteratura, non articoletti sediziosi, tra le collezioni di Paco Rabanne o Pierre Cardin non solo era normale, era decisamente cool.   Il film di David Frankel riprende quest'idea, senza calcare la mano bensì ricamandoci sopra (qui il ricamo è d'obbligo, direi, ma guai a sbagliare l'abbinamento gonna-cintura) dando al personaggio di Andy (Anne Hathaway) una verniciatura eterea e blasonata: “voglio scrivere” è per lei il motto per eccellenza, perciò sia chiaro che la segretaria punta in alto, almeno al New Yorker. Per “aprire tutte le porte che contano” bisogna fare una strana gavetta, come sanno tutte le stagiste di questo mondo: passare, in questo caso, al centro di un ciclone chiamato Myranda Priestley (Meryl Streep). Il Grande Capo, la Porta mistica, l'Inferno. D'altra parte, non credo che il tema del film sia la moda, quanto piuttosto la carriera: ovvero l'immagine che ciascuno di noi si fa del talento e di quanto possa costare realizzarlo. La diabolica Myranda è molto chiara in proposito nella scena in cui dice a Andy che la sua collega di lavoro non potrà andare alle sfilate di Parigi: “se non vieni vorrà dire che non prendi sul serio il tuo futuro, qui come in qualsiasi altra pubblicazione”. La moda non è un argomento, ma lo scenario di tutte le strade possibili. Sembra quasi di sentire il demone di Jean Baudrillard il teorico della società dei simulacri: “tutto è estetico e politico allo stesso tempo”.    New YorkerAdesso qualche ragguaglio storico, giusto per “rovinare le sacre verità” (citiamo Harold Bloom). Per chi non fosse informato il New Yorker dell'immediato dopo guerra non era un posto dove una fanciulla idealista e cocciuta come Andy avrebbe potuto sentirsi a suo agio: Truman Capote, prima di diventare una celebrità, faceva giusto il fattorino presso la redazione del NY e, a quanto racconta Gerald Clarke nella sua documentatissima biografia (pubblicato in Italia da Frassinelli), era un posto per sinistrati che campavano dei sussidi governativi scrivendo articoli pretenziosi. D'altra parte, quello strano ragazzo di statura insolitamente bassa che svolazzava tra le scrivanie portando il caffè e parlando a più non posso non poteva essere, tutto sommato, un testimone attendibile. Pare che ebbe anche delle noie con Robert Lowell, il poeta, a causa di una sua conferenza alla quale Capote diede forfait...per la noia, forse. Oppure era, come sostiene lui, un semplice mal di schiena? L'unica cosa certa è che i racconti che scrisse per Harper's ora sono dei classici rilegati nei Meridiani (Mondadori). Che non si possa separare del tutto l'esercizio letterario dal cocktail party (Eliot l'aveva capito fin troppo bene, ma aveva ottenuto per sé la possibilità di essere schizzinoso) lo indica anche il fatto che una certa narrativa sembra ossessionata da questo genere di situazioni, al limite tra il mondano e il teatro dell'assurdo: ancora nel suo La vita è un'altra storia (Minimum fax, 2010) , lo scrittore postmoderno John Barth scriveva un racconto intitolato Toga Party dove si fa beffe di certe usanze degli intellettuali universitari, nel tono beffardo e nello stile allusivo che può aver trovato già in autori come Salinger o Capote. Non troppo diversamente funziona lo struggente Wonder Boys di Michael Chabon, da cui è stato tratto un film diventato, anch'esso, un oggetto di culto. Nel corso del tempo, certo, le riviste newyorchesi sono cambiate: McSweeney's, curato da Dave Eggers, Granta e altre ancora sono forse più lette e ammirate dello stesso New Yorker. Le generazioni cambiano, ma un'idea mi sembra costante: gli scrittori americani non amano le barriere, si può cantare la depressione come l'euforia ovunque, perciò in un certo senso che si tratti di Manhattan o di Brooklyn sono tutti on the road. Da noi, invece, la narrativa è di solito dominata dal tinello domestico. Le strade sono strette, troppo strette. La vetrina si è spenta da tempo sulla “bella lingua” che piace sempre di meno persino ai poeti. Se non sono drammi familiari è romanticismo paccottiglia, altrimenti il romanzo sociale e di denuncia, con i toni apocalittici che piacciono tanto ai cattolici, anch'essi messi presto in svendita. In fin dei conti, non è meglio una giacca di Vivianne Westwood?  

 


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