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I diritti televisivi strumento per cristallizzare la Serie A, a danno dei meriti sportivi?

Creato il 03 novembre 2014 da Tifoso Bilanciato @TifBilanciato

La simulazione della possibile distribuzione dei diritti televisivi 2015/18 recentemente pubblicata su Tifoso Bilanciato, ci consente di approfondire un tema che, da sempre, appare sottotraccia quando si parla di questo argomento: quali sono pregi e difetti dei criteri di distribuzione? Il sistema adottato dalla Serie A è realmente efficace sul medio periodo? Può essere migliorato?

Abbiamo visto che il sistema attualmente in vigore, che discende dalla cosiddetta “Legge Melandri”, provvede a ripartire i soldi attraverso un mix di variabili: una quota comune a tutti (40%), una legata al seguito che le squadre hanno (30%) ed una ai risultati sportivi (30%).

Affacciandoci in Europa, non si può non notare che gli altri ragionano in maniera abbastanza diversa.

 

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  • La Bundesliga suddivide i soldi esclusivamente sulla base di un criterio meritocratico: la quota nazionale sulla base del piazzamento degli ultimi 4 anni (con un peso decrescente man mano che ci sia allontana dalla stagione in corso), quella internazionale fra le squadre che hanno partecipato alle Coppe Europee in proporzione al loro apporto effettivo in termini di ranking UEFA;
  • La Premier League ha una forte componente “comunitaria”, nel senso che sommando le quote divise in parti uguali si arriva al 70% del totale. Il resto è basato sull’effettivo impatto della squadra sulle televisioni (non tutte le partite della Premier sono trasmesse in diretta) e sulla classifica finale ottenuta;
  • La Ligue 1 prevede una quota “comunitaria” del 50% e distribuisce la restante parte fra classifica della stagione in corso (25%), risultati storici del quinquennio (5%) e audience televisiva (20%).

Ecco una rappresentazione grafica che consente di apprezzare più rapidamente i criteri:

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L’impatto finale è molto diverso e condiziona l’andamento sul medio periodo di una competizione.

La Serie A “gattopardesca”

Nella nostra Serie A l’attuale sistema è in vigore dalla stagione 2009/10 e ha sostituito una precedente ripartizione che avveniva sulla base di trattative dirette portate avanti dalle squadre.

Partivamo quindi da uno scenario di riferimento in cui vigeva la “legge del più forte”, nel senso che era evidente che le grandi squadre recitassero un ruolo determinante e si accaparrassero il grosso delle disponibilità. Certo, non eravamo ai paradossi della Spagna, dove attualmente Real e Barça si dividono da sole il 50% dell’intera posta lasciando alle altre 18 la differenza, ma certamente il peso proporzionale delle grandi era esagerato.

La Legge Melandri, in perfetto “stile Cencelli”, è stata quindi probabilmente studiata per iniziare (o finire?) una transizione che cercasse una mediazione fra le esigenze di tutti:

  • Le “grandi”, che ovviamente non volevano rinunciare a quanto di loro diritto;
  • Le “medie”, che erano a caccia di maggiori ricavi;
  • Le “piccole”, cui probabilmente non sembrava vero di raddoppiare il chip previsto per il solo fatto di partecipare alla Serie A.

Il problema di fondo di questa legge, tuttavia, è che ha creato in sistema gattopardesco: dando l’illusione che tutto cambiasse ha invece imposto un rigido status quo, in cui i reali cambiamenti di valori in gioco sono di fatto impossibili.

Qualunque squadra di Serie A sa che i suoi ricavi rimarranno sostanzialmente immutati, indipendentemente dai risultati sportivi. Solo l’aumento o la diminuzione del monte diritti televisivi (come accadrà dal 2015/18) o una promozione/retrocessione possono cambiare questo scenario.

A seconda della squadra per la quale tifiate, questa affermazione porterà delle reazioni diverse, ovviamente. A noi, però, interessa capire che impatto tutto questo ha sulla Serie A in senso lato, cercando di spogliarci dal legittimo ed irrazionale sentimento da tifosi.

La sostanziale irrilevanza dei risultati: il caso di Parma e Torino

Facciamo un esempio concreto, partendo da quello che è successo lo scorso campionato, nel quale la classifica finale vedeva il Parma al 6° posto, il Torino al 7°. Due ottimi risultati. Due squadre che hanno sensibilmente migliorato la posizione del campionato precedente (ci sarebbe anche il Verona, ma in quanto neopromossa il dato non è confrontabile con l’anno precedente) e in un caso, il Torino, anche i dati del quinquennio.

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Che vantaggio economico hanno avuto da questo piazzamento in campionato in termini di diritti televisivi?

Ci si aspetterebbe, a buon senso, che lo sforzo di queste due squadre venisse premiato. Ovverosia che se una squadra “non grande” (così non offendiamo nessuno) riesce a fare un campionato eccellente, possa in qualche modo ottenere in cambio una remunerazione immediata del suo impegno. Una cifra che, se investita opportunamente, possa consentire alla squadra di “giocarsela” anche l’anno dopo, ovviamente non al livello delle grandi, ma certamente neanche ripartendo da dove era in passato.

Purtroppo non è così.

Se guardiamo alla quota parte di diritti televisivi che vengono distribuiti sulla base delle classifica, l’effetto positivo viene dai criteri 3-a (risultati ultima stagione, pari al 5% del totale) e 3-b (risultati ultimo quinquennio, pari al 15% del totale). Complessivamente il valore distribuito è di 171 mln di euro.

La parte assegnata sulla base del piazzamento al termine della stagione vale in totale 43 mln, che vengono ripartiti pro quota sulla base del peso dei punti REN sul totale dei disponibili (ad esempio la Juventus, con 20 punti su 210, ha diritto al 9,52% dei 43 milioni).

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Ogni posizione in classifica, quindi, consente di ottenere circa 204mila euro in più rispetto a chi segue. Si va da un massimo di 4,074 mln del primo classificato, fino ai 204mila euro dell’ultimo. Un valore che premia lo sforzo immediato (perché viene calcolato nell’anno in cui avviene, quindi contribuisce immediatamente a maggiori ricavi) ma obiettivamente dagli effetti contenuti.

Non è molto diversa la situazione se si osserva l’impatto del risultato di una stagione sulla classifica quinquennale, che inizia a valere dall’anno successivo (e produce i suoi benefici per un totale di 5 stagioni). In questo caso i 128 mln di euro annui devono essere divisi fra i 1.050 punti complessivi che vengono assegnati (sono 210 per ogni stagione) e comportano un beneficio di 610mila euro, per ciascuna delle 5 stagioni che seguono.

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Vogliamo vedere che effetto hanno prodotto il 6° posto del Parma ed il 7° del Torino sui conti delle società?

  • Il Parma, passato dal 10° posto del 2012/13 al 6° posto del 2013/14 ha ottenuto immediatamente 815mila euro in più ed un bonus ripetitivo di circa 611mila euro per 5 anni. Il suo anno d’oro vale quindi in totale 3,87 milioni di euro, divisi su 6 anni.

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  • Il Torino, passato dal 16° posto al 7° posto, quindi con un balzo addirittura maggiore, ne esce ancora più penalizzato. Se si è portato a casa 1,8 mln di euro subito (per la classifica annua), l’impatto del suo piazzamento nella stagione 2013/14 non è sufficiente, in questo momento, a fargli scalare posizioni nella classifica quinquennale, quindi non porta ulteriori benefici.

Nessuna delle due squadre ha quindi ottenuto un vantaggio economico tale da poter costituire una base sufficientemente solida per pensare di ripartire da li e, l’anno dopo, potersela giocare con qualche vantaggio maggiore rispetto al campionato precedente.

Ma c’è di peggio, in realtà: che benefici avrebbero le squadre se confermassero anche per i 5 anni successivi lo stesso piazzamento?

Limitati per il Parma, che arriverebbe ad incassare alla stagione 2018/19 circa 3,3 mln di euro in più rispetto a quelli ricevuti nella stagione 2012/13. Maggiori per il Torino (che sconta nell’attuale calcolo del quinquennio 3 anni passati in Serie B), che potrebbe contare su 8,5 mln in più.

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Una goccia nel mare, soprattutto per il Parma, che rispetto ai granata ha il “problema” di aver comunque ottenuto dei buoni piazzamenti negli scorsi anni (con due ottavi posti ed un decimo) e quindi vede migliorare in maniera molto contenuta i propri ricavi.

 

Questa scarsa attenzione posta al risultato sportivo è ancora più acuita dalla rigidità delle regole decise per ripartite il restante 80%.

Ricordiamoci infatti che la suddivisione avviene:

  • per il 40% del totale in parti uguali;
  • per il 10% del totale sulla base della classifica storica dal 1946 alla stagione precedente a quella del quinquennio preso precedentemente in esame;
  • per il 5% in proporzione agli abitanti del Comune dove ha sede la squadra;
  • per il 25% sulla base dei sostenitori

Nessuno di questi criteri è flessibile o, comunque, dipendente dall’andamento reale della squadra. Anche l’unico che in un mondo ideale potrebbe spostare ricavi (i sostenitori potrebbero essere parzialmente portati a sostenere una squadra che da buoni risultati ed il totale dei soldi allocati sulla base di questo parametro è di oltre 200 mln di euro) è in realtà tolto di scena, perché la definizione dei sostenitori avviene ufficialmente coinvolgendo 4 società di indagine, ma nella realtà è approvata e negoziata nei meandri delle Assemblee della Lega di Serie A.

Questa situazione nasce probabilmente, come dicevamo all’inizio, dalla necessità di continuare a garantire alle grandi squadre flussi certi di denaro per competere a livello internazionale. Flussi che però avrebbero dovuto essere uno strumento temporaneo nell’attesa di andare a sviluppare quelle parti di ricavo alternative (stadio, merchandising, commerciale) che sono quelle che consentono di fare realmente il salto di qualità.

Invece, purtroppo, questi incassi garantiti sono stati spesi male. Vissuti più come rendita di posizione che non come base sicura sulla quale costruire una crescita. E l’effetto apparentemente positivo per le Big ha però contribuito (non è la sola causa, ovviamente) ad azzoppare la crescita del sistema calcio.

Perché toglie risorse potenziali alle squadre medie (mentre invece se ne trovano di taglio simile in Europa che danno filo da torcere alle nostre big), condannate a restare nell’anonimato.

E anche perché alla fine apre a scenari poco edificanti a fine campionato, le famose “torte”, dove le squadre evitano di farsi del male l’una con l’altra, nella logica “oggi io aiuto te, domani tu aiuti me”. Tanto la quantità di denaro che si lascia sul tavolo è contenuta. In compenso si acquisisce un “credito” che domani si potrebbe incassare per rimanere in Serie A, seduto al tavolo comunque ricco dei diritti televisivi, anziché retrocesso in Serie B dove, paracadute a parte (parliamo di 15 mln, una cifra interessante ma minima per squadre che magari ne vengono da anni di Serie A intorno ai 30/35 mln), non rialzarsi subito significa rischiare di cadere in un limbo dal quale è difficile risollevarsi.

Modelli alternativi?

Abbiamo voluto provare a capire se qualcuno dei modelli usati all’estero potrebbe aiutare a risolvere il tema che abbiamo evidenziato, riportando sugli altari l’importanza del risultato sportivo a scapito di altri parametri.

Il modello in assoluto più adatto è quello della Bundesliga, dove tutti gli incassi sono distribuiti in base al merito. Ecco i criteri usati in Germania:

Quota nazionale

La quota nazionale viene ripartita all’’80% a favore della Serie A e per il restante 20% a favore della Serie B (questo significherebbe che in Italia la Serie B avrebbe diritto ad incassare circa 150 mln di Euro!). Nella nostra verifica non faremo questa ripartizione, che sottraendo ulteriori denari alla Serie A non renderebbe il dato immediatamente paragonabile.

Vengono considerate le posizioni conquistate negli ultimi quattro campionati, con un fattore moltiplicativo che ne aumenta l’importanza man mano che ci si avvicina alla stagione in corso: la terza stagione viene moltiplicata per 2, la seconda per 3 e l’ultima per 4: in questo modo si premia non solo l’exploit di un anno, ma anche la capacità di miglioramento nel medio periodo delle squadre.

Quota internazionale

La quota internazionale, invece, è riservata alla Serie A e viene distribuita con criteri multipli:

  1. il 31% circa, fra le squadre qualificate per un posto UEFA al termine della stagione, per premiare il loro risultato immediatamente;
  2. il 32,5%, in parti uguali fra tutte le altre squadre che hanno partecipato al Campionato;
  3. il 36,5% residuo viene dato alle squadre che hanno partecipato alle competizioni UEFA nei 5 anni precedenti, in proporzione all’incremento del Ranking UEFA che hanno apportato.

Che cosa avrebbe significato per la Serie A, nella stagione appena conclusa?

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Guardando Parma e Torino, le due squadre che avevamo preso ad esempio per cercare di mettere in evidenza la scarsa “premialità” dell’attuale sistema di ripartizione dei diritti televisivi in Italia, possiamo capire immediatamente come il sistema tedesco avrebbe invece inciso in maniera diversa.

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Mentre il Torino riceverebbe 6 mln di euro in meno, il Parma avrebbe avuto diritto a 11 mln in più di quanto non ha preso. Questa inizia ad essere una cifra che può realmente fare la differenza per una squadra, specialmente quando si tratta di Club con fatturato che oscilla intorno ai 50 mln.

La cosa prende addirittura un’altra piega se proviamo a verificare cosa accadrebbe se Parma e Torino confermassero le posizioni in classifica guadagnate lo scorso campionato. Ricordiamo che nell’attuale sistema di distribuzione della Serie A il Parma si sarebbe trovato nel campionato 2018/19 con ricavi addizionali per 3,2 mln rispetto al 2012/13, mentre il Torino ne avrebbe avuti 8,5 in più.

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(*) non stiamo assegnando il premio addizionale per il 6° posto, pari a circa 2 mnl di euro

Vedete la differenza?

Il Parma, passerebbe dagli attuali 31,8 mln di euro a 44,2 mln di euro. Nel corso del quadriennio il valore non cresce molto perché la squadra partiva da risultati del periodo precedente abbastanza vicini.

Il Torino, invece, ci permette di capire esattamente l’effetto meritocratico: inizialmente prenderebbe meno soldi di quanti non ne abbia oggi, ma poi confermando il 7° posto nell’arco di 4 stagioni arriverebbe a ridosso del Parma anche in termini di ricavi da diritti televisivi.


 

Perché non lo importiamo?

Nonostante il criterio meritocratico sia certamente quello più corretto da un punto di vista teorico occorre però capire se sia importabile in Italia così come disegnato in Germania.

La risposta è, a nostro avviso, negativa. Perché il modello Bundesliga non è fatto solo di ripartizione di diritti televisivi, ma rispetto alla nostra Serie A è un sistema con molte differenze, anche sostanziali:

  • grazie alla normativa “50+1”, ad esempio, nessun privato può possedere la maggioranza di una squadra di calcio, che viene così ad essere di proprietà dei tifosi. Questo comporta un ancor maggiore coinvolgimento e, soprattutto, nei fatti comporta introiti maggiori in termini di merchandising;
  • la Germania riesce ad attivare una forte componente di marketing territoriale: è per loro più facile attrarre aziende locali che intervengono – anche attraverso sponsorizzazioni – a finanziare l’attività della squadra;
  • il sistema tedesco si è mosso prima e meglio per assicurare l’indipendenza economica e finanziaria dei Club, che oggi possono beneficiare di un lavoro fatto in passato in un momento in cui altre realtà europee (fra le quali la Serie A) sono ancora indietro sulla via del risanamento.

L’introduzione secca di un modello esclusivamente meritocratico in Italia porterebbe certamente benefici alla Serie A nel suo complesso, aumentando la capacità di spesa delle squadre medie (idealmente a vantaggio di una maggiore qualità), ma genererebbe anche un serio problema immediato alle grandi, privandole di colpo di una quota di ricavi anche sostanziale (vale in particolare per Juventus, Inter e Milan, in misura molto minore per Roma e Napoli).

E quindi?

Certo è che qualche soluzione va trovata. Perché l’attuale sistema di ripartizione, pur avendo dato un colpo al cerchio ed uno alla botte, sta contribuendo ad appiattire la Serie A, togliendo buona parte degli stimoli economici, ormai prodromici a quelli sportivi.

Un’ipotesi di lavoro potrebbe essere quella di un sistema basato su quello tedesco, dove però ci sia una quota progressivamente in diminuzione (nell’arco di 5-6 anni) di ricavi assegnata in maniera tale da favorire le grandi (es. sui sostenitori), in modo che la riduzione progressiva di questo valore possa andare di pari passo con l’adozione di nuove strategie per intercettare fonti di ricavo.

Ma forse sarà più facile vedere il primo scudetto del Sassuolo …


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