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I Fiori Blu: se una Notte d’Inverno un Traduttore…

Creato il 10 gennaio 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine
I Fiori Blu: se una Notte d’Inverno un Traduttore…

«In questo romanzo, è il Duca d’Auge che sogna d’essere Cidrolin o è Cidrolin che sogna d’essere il Duca d’Auge?». Questo è il quesito che si pone Italo Calvino nella Nota del traduttore posta in calce al romanzo I fiori blu di Raymond Queneau e io non posso fare a meno di chiedermi: e se facessi una recensione composta di sole domande? Un’idea del genere sarebbe gradita all’autore “tanto folle quanto clorico” degli Esercizi di stile? Non incorrerei nel rischio di costringere il pensiero a doppi e tripli salti mortali per ingabbiarlo dentro un reticolo di forzature derivanti da una scelta tanto radicale? Varrebbero anche le interrogative indirette o dovrei essere fondamentalista? E come inserire, qualora si renda necessario, le citazioni che abbisognano? Adesso la mente va a Billy Wilder, o meglio, alla targa che aveva appesa nel suo studio e che era solito guardare quando si trovava in una crisi creativa: «Come lo farebbe Lubitsch?». Già, come risolverebbe questo problema Queneau? Più facile sarebbe rispondere alla domanda: come Calvino tradurrebbe questa eventuale recensione? Bisognerebbe semplicemente guardare la resa della traduzione italiana de I fiori blu per approntare un ipotetico prospetto; o no? Chi dice che ciò che sia avvenuto una volta debba, mutatis mutandis, avvenire nella stessa maniera in futuro? D’altronde, non era lo stesso Queneau sostenitore della tesi di “un’uscita dalla Storia”, che aveva mutuato da Hegel dietro l’intercessione dell’insegnamento di Alexandre Kojève? Questa teoria non è forse ravvisabile nella presa di distacco ironica dell’autore che fa affermare a uno dei generi del protagonista Cidrolin: «La storia non è stata mai il telegiornale e il telegiornale non sarà mai la storia»? E allora, cos’è la Storia, a cosa serve? Davvero, come «disse il Duca d’Auge al Duca d’Auge – tutta questa storia per un po’ di giochi di parole, per un po’ d’anacronismi», come quelli posti nel folgorante esordio de I fiori blu? Se «resti del passato alla rinfusa si trascinavano qua e là», se perfino il nostro vissuto si dissolve perdendo ogni connotazione pedagogica, non ci resta altro che fare di esso un divertissement scevro da implicazioni morali? Quest’ultima domanda me ne riporta alla mente di sguincio anche un’altra, che già in precedenza mi ero posto: la libertà che Calvino si concede nella traduzione è spesso spinta oltre i limiti della reinterpretazione?

una immagine di Raymond Queneau 620x837 su I Fiori Blu: se una Notte dInverno un Traduttore...

Vero è che alcuni giochi di parole siano improponibili nella nostra lingua ma questo autorizza anche alla lettura di termini quali Totip e Standa inerenti esclusivamente alla realtà del bel paese? E non è un’invasione di campo l’italianizzazione della semplice battuta: «Copernic soit qui mal y pense» con il calembour tutto calviniano: «Il Diavolo fa le pentole ma non i copernichi»? Come reagirebbe lui stesso qualora venisse a conoscenza di una siffatta volontà migliorativa che un traduttore estero arbitrariamente gli applicasse? Quale il motivo che ha fatto di Queneau una specie di prontuario su cui esercitarsi partendo da una sua opera (vedi anche la versione degli Esercizi di stile tradotta da Umberto Eco) e non un autore da rispettare religiosamente? La fedeltà del testo non potrebbe essere sempre omogenea a questo splendido passo, così leggera da rispecchiare perfettamente la soavità dell’originale: «Tutto quel che lei ha raccontato prova come due e due fan quattro che lei è il giustiziere del cavolo, il minosse dei miei stivali, il montecristo di mamma sua, lo zorro di nostra nonna, il robinud dei fattacci vostri, il catone della morale murale, l’implacabile scarabocchiomane, insomma il rompiballe anticidrolinico patentato»? A questo punto sono conscio della gravità del mio gioco da recensore: forse il lettore vorrà sapere: – Ma il romanzo? Già, il romanzo? Innanzitutto, perché I fiori blu? Come non essere d’accordo con la proposta avanzata da Calvino nella sullodata Nota del traduttore, che ha il vantaggio di avere avuto il suggerimento dello stesso Queneau? Che I fiori blu sia un’espressione sarcastica francese per indicare «le persone romantiche, idealiste, nostalgiche d’una purezza perduta» non è corroborato da una tradizione di riferimenti letterari ben rintracciata dallo stesso scrittore italiano?

una immagine di Copertina di una delle tante edizioni uscite per Einaudi de I fiori blu 1991 su I Fiori Blu: se una Notte dInverno un Traduttore...

Ma se Calvino veste anche i panni dell’esegeta, perché si limita poi a dare spunti poco sviluppati sulle possibili letture di un romanzo impregnato di allegoria? Come non cercare messaggi nascosti in una vicenda intessuta di sogni, dove il confine tra realtà e irrealtà esonda su una pagina che non fa distinzioni tra di essi? La vitalità del Duca d’Auge contrapposta all’immobilità del popolano Cidrolin: non possiamo forse scorgervi due modi di affrontare gli eventi, che in un certo qual modo risultano entrambi perdenti? E nella figura di Labal, la più chiaramente filosofica del libro, in colui che prorompeva così: «Eh sì! Penso. Appena mi sveglio, penso. Vado a dormire, e penso. Nell’intervallo, non ho fatto altro. Pensi un po’ se… ecco che finisco per imporre la mia piccola mania anche agli altri», non possiamo scorgere la critica ai pensatori che tramite la ragione si ergono a giudici del mondo? Non finirà lo stesso portinaio travolto dall’edificio che sorvegliava, come se il palazzo della ragione crollasse su se stesso? E che questo simbolismo sia da non escludere non è forse deducibile dalla scelta di chiamare uno dei cavalli parlanti Stéphane, come Mallarmé? È stata avanzata la solita lettura psicanalitica della storia, che qui non commenterò perché forzata; piuttosto mi pongo la questione: c’entra qualcosa Freud ne I fiori blu? Il fatto che sia lo stesso Cidrolin a scriversi “assassino” sulla staccionata per un delitto che non ha commesso non fa riaffiorare sottili complessi di colpa indagati dalla scienza dell’anima? Fin qui la psicanalisi; ma da un esponente (da giovane) del Surrealismo non è lecito aspettarsi anche una dose di anticlericalismo? Sia l’abate Riphinte che il vescovo Biroton, con i loro vuoti formalismi e i loro rituali cerimoniali, non vengono più volte scornificati dall’energia manesca del Duca d’Auge? Non saranno entrambi per cèlia presi a cannonate dal nobile francese? E non dovremmo anche ricordare che la disputa sull’esistenza di popolazioni preadamitiche è un pretesto per mettere in dubbio l’autorità delle Scritture? Qui termina la mia recensione ma l’ultima di un’irritante serie di domande fa più o meno così: quanti tra i lettori saranno arrivati alla fine di questo articolo?

 

In copertina una fotografia che ritrae Italo Calvino


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