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“I fratelli Friedland” – Daniel Kehlmann

Creato il 25 maggio 2015 da Temperamente

Voglio iniziare questa recensione de I Fratelli Friedland, l’ultimo romanzo di Daniel Kehlmann appena uscito per Feltrinelli, con uno spoiler non spoiler del finale (state tranquilli, poi vi spiegherò perché*)

“Fatum”, disse Arthur. “la grande F. Ma il caso è potente, e d’improvviso ti assegna un destino che non era mai stato il tuo. Una specie di destino casuale. È una cosa che succede in fretta.”

Kehlmann l’avevo già incontrato per La misura del mondo, meravigliosa storia parallela e incrociata sulla scoperta del mondo e su come l’abbiano ridisegnato i due protagonisti, Gauss e von Humboldt, un libro talmente bello che non mi stancherò mai di consigliarlo a chicchessia. Di conseguenza, le mie aspettative su questo nuovo romanzo erano altissime e io avevo moltissima paura di vederle deluse. Tutti i lettori commettono l’errore di innamorarsi di una storia e di cercarla poi ripetutamente negli altri libri dello stesso autore, mentre invece quando ci si avvicina a un libro l’unica cosa che bisognerebbe fare è semplicemente ascoltare (= leggere).

Ed è questo che fanno in principio i Fratelli Friedland: sono in una grande sala, un auditorium, circondati da un sacco di persone, in attesa di assistere al miracolo. Martin e Ivan e Eric, i due gemelli figli di un’altra donna, che Arthur il padre porta con sè in queste gite di famiglia del sabato pomeriggio, tutti insieme allo spettacolo di magia, anzi di ipnosi. Il grande Lindemann si esibisce in città: Martin ha un po’ paura, Eric è eccitato, Ivan è annoiato, Arthur pure, e dice di non crederci.
Poi sale sul palco, chiamato dal grande mago, e lì succede quel che deve succedere: il destino – del libro e dei suoi personaggi – accade. F., di fratelli di Friedland, ma soprattutto di fato, era il titolo originale scelto in tedesco da Kehlmann, perché questo romanzo vuole parlare del destino, di chi siamo, di cos’è la nostra vita e quella della nostra famiglia, e di ciò che facciamo e faremo di tutte queste informazioni.

Nessuna storia in senso cronologico stavolta; o almeno, non in senso piatto: il tempo c’è, e si parte da un inizio e si arriva a una fine, ma nel mezzo c’è l’estratto di un romanzo scritto da Arthur, che forse è anche una storia genealogica della famiglia, ed il racconto di uno stesso episodio visto da angolazioni temporali e voci diverse, che soltanto dopo un po’ di tempo riuscirete a mettere insieme tutti i pezzi. Non un vero incastro, stavolta Kehlmann rompe un vaso e lascia al lettore il piacere di rimettere a posto i cocci, mentre lui intanto ci gioca, raccontando la storia della ceramica, le tecniche usate per dipingerla, a chi apparteneva il tavolo su cui era posto il vaso rotto e chi l’aveva acquistato, se mi permettete questa similitudine. Questa, di sicuro, la cifra stilistica dell’inventiva di Kehlmann, che nei suoi romanzi si diverte proprio a mettere insieme più storie e orchestrarle insieme (vedi anche Fama del 2010).
Nei Fratelli Friedland appare simbolicamente il cubo di Rubik, quel gioco tanto di moda negli anni ’70/’80, poi scomparso nel buio, come sollievo e speranza di Martin, prete senza fede; e a questi incastri narrativi si accompagna l’introspezione, formulata nel porsi e porre domande metafisiche, filosofiche, sulla morte, sull’esistenza di dio, su cosa è la vita e su chi siamo noi, ammesso che siamo qualcosa, ammesso che esistiamo e che la nostra vita e le nostre relazioni abbiano un senso.

Mi alzai. Come mai riusciva sempre a farmi imbestialire così rapidamente? Come mai tutto quello che diceva era sempre vero, e come mai era vero sempre in modo così falso?

Sembra che l’abbia pescata a caso, questa frase, ma non lo è affatto, soprattutto all’interno dell’armonia del romanzo; soprattutto, per ciò che mi riguarda, se la riferisco a uno dei miei mille, inutili screzi in famiglia, con un mio fratello o uno dei miei genitori, esattamente com’è inserita qui nel romanzo kehlmanniano; e questo spiega in parte perché I fratelli Friedland mi è piaciuto, nonostante il contorsionismo a cui storia e stile sottopongono il lettore, perché riesce sempre a riportarti alla realtà, al vissuto, in un modo assolutamente vero pur nell’assolutamente falso di una storia inventata.

Ad un certo punto, si ha la sensazione di vagare un po’, nel libro; eppure, poi Kehlmann sa riportarti esattamente sulla strada giusta, richiamando a sé le fila della narrazione, incorniciando la(e) storia(e). Ivan fa il pittore, ma in un senso che soltanto un fine  artista potrebbe intendere; prima di raggiungere la fama – anzi la stabilità economica, perché la fama vera non la raggiungerà mai – si domanda qual è l’altezza del suo genio, chiedendosi, con una certa angoscia

Cosa significa essere mediocri – d’improvviso la questione non mi diede più pace. Come ci si convive, come si va avanti? Che gente è quella che punta tutto su una carta, dedica la propria vita alla creatività, corre il rischio della grande scommessa e poi, anno dopo anno, non realizza niente di significativo?

L’ossessione di essere qualcuno, di affermarsi, economicamente e a livello sociale, sono una caratteristica problematica della famiglia Friedland, uno dei motivi per cui forse il padre abbandonerà i ragazzi e per cui Martin si farà prete, pur non credendoci davvero. Prendersi sul serio oppure no; essere se stessi oppure non essere nessuno, scomparire, fino a perdere le proprie tracce e quelle della propria famiglia; o magari, ritornare, sotto forma di fantasmi e di allucinazioni, per allertare i vivi – se vivi sono. L’essere e il non essere sono scandagliati in tutte le loro forme dalla penna di Kehlmann, che racconta una storia fresca, attualissima, e universale, antica, al tempo stesso.
Perché da sempre, e forse per sempre, il mistero più fosco dell’essere umano sarà sempre quello di sapere chi realmente si è, quanto si è stati liberi nel diventarlo e quanto invece c’entri il Fato.

*Se avete chiuso gli occhi per saltare queste due righe di citazione era inutile, perché non è un vero spoiler, se non il fatto che a parlare è Arthur personaggio chiave assente nel romanzo che qui parla in prima persona nell’ultimo capitolo del libro, senza rivelare un bel niente né di se né della sua vita. se avete letto, state tranquilli doppiamente, che non s’è svelato nulla – del fato, men che meno del romanzo

Daniel Kehlmann, I fratelli Friedland, Feltrinelli, 17 euro, 2015


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