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I giorni che abbiamo vissuto insieme

Da Elys

I giorni che abbiamo vissuto insiemeMe ne sto immobile incapace di parlare. Le parole scalpitano e muoiono dentro di me.  Stringo le mani a pugno. Mi manca la forza. Roberto tira una boccata di fumo e mi osserva. «Eleonora hai deciso?»«Non ce la faccio.»È tutto quello che riesco a dire.Abbasso lo sguardo a terra. Non la posso mantenere la promessa, fa ancora male  e probabilmente me ne farà per sempre. Sono una debole e l’unica cosa che mi preme è nascondere la testa sotto la sabbia. Trattenere il respiro. Cancellare il mondo. Questa è l’unica cosa che voglio. «Sei sicura?»La voce di lui mi arriva attutita alle orecchie. Un suono indistinto, ovattato dall’angoscia.«Sì. Non posso scriverlo. Credevo di poterlo fare, davvero, c’ho creduto per tutto il tragitto dal supermercato fino a qui. Ma poi … »Poi tutto si è incastrato nella gola, nel petto, nella testa. Un peso. Una frattura dell’anima. Non sono capace a ricomporre i pezzi. Non sono pronta. Non voglio.Ho paura.«Scusami, sul serio. Ti ho fatto solo perdere tempo.»Aggiungo e mi stringo nelle spalle. «Come vuoi. Ma è un peccato. Hai un talento raro.»Sospira e spegne la cicca nel posacenere accanto. È una sconfitta per lui, editore, la resa di una potenziale scrittrice. L’odore acre della cenere si mescola al fresco dell’aria condizionata. Fa caldo oggi, anche se siamo appena alla fine di maggio. Tocco le maniche della camicia. Ha ragione Michela. Ho perso il senso dei giorni. Il sudore mi scivola sulla fronte e si sgretola sul collo.“Grazie di tutto, Roberto.”Bisbiglio e lascio l’ufficio in fretta. Neanche aspetto la sua risposta, il suo commiato. Desidero soltanto correre a casa e serrare porte e finestre. Annullare i rumori della città. Dimenticare il mio respiro.
È un’estate di sole quella che sta arrivando. Di caldo, di feste e bancarelle. Ho sempre amato questa stagione. Mi fa pensare al mio paese. Ai campi di granoturco incendiati dal sole. Al giallo dei girasoli. Alle dita di papà affondate nella terra secca mentre i braccianti intonano canzoni nella loro  lingua madre. Mamma sta seduta sotto il portico. Si sventola con un giornale e segue con lo sguardo i lavoranti. Dentro casa l’acqua bolle piano sul fuoco e rompe il silenzio della campagna. Io me ne sto seduto sulle scale. Mangio una caramella alla menta. Vorrei aiutare ma dicono che sono ancora troppo piccolo. Stefano statte buono che se te fai male so’ guai grossi. Non c’hai manco diec’anni, mettete a gioca’ che pe’ lavora’ ce sta tempo. Mi ripetevano sempre questa cosa. Una cantilena che mi è rimasta impressa sul cuore.
Il rumore del ventilatore acceso disturba il mio raccoglimento. Sono rientrata da poco nell’appartamento. Non avrei voluto cadere di nuovo nella tentazione. In fondo ho scelto di rinunciare. Abbasso lo sguardo sul quaderno di fronte a me. La calligrafia storta e a tratti incerta di Stefano riempie quelle pagine bianche. A lato ci sono i suoi appunti. Le indicazioni. Le correzioni da fare.Stava raccontando la storia della sua vita. Di quel paese dov’era cresciuto. Dei giochi fatti vicino al fiume mentre il sole tramontava e la voce della madre lo richiamava all’ordine. Per noi.Mi copro il volto con le mani. Ho ancora bisogno di piangere. Credevo di averle finite tutte le lacrime e invece rinascono sempre. Si aggrappano sugli zigomi e scivolano sulle guance. Non esiste più nulla per me. Voglio annientare il passato e strapparmi di dosso ogni cosa, persino la pelle che sa ancora di lui. Afferro il diario. Lo stringo al petto.Lo vedo ancora. È seduto sul divano, rivolto al balcone. Gli occhi verdi socchiusi. I capelli bruni gli cadono sulla fronte. Li mette in ordine dietro l’orecchio in un gesto abituale.  Scrive. Una gamba è piegata sul cuscino. Allungo un braccio. Vorrei toccarlo. Sentirlo almeno per un’altra volta. L’ultima. Dirgli tutte quelle parole che mi sono rimaste nei polmoni. Riconoscere la mia fragilità e chiedergli perdono.
Ginevra mi ha chiesto d’incontrarci al fiume. È il nostro posto preferito, quello speciale. Là non ci viene mai nessuno perché dicono che a riva c’è il fango e i rovi e i vestiti si strappano. Per noi è meglio. Abbiamo tranquillità. Possiamo sederci nel silenzio e ascoltare il rumore dell’acqua che scorre. Ci conosciamo fin da bambini. Siamo cresciuti praticamente insieme ma non siamo mai stati fratello e sorella. L’ho spiata spesso mentre faceva il bagno nuda e oggi quando l’ho vista senza vestiti, avvicinarsi a me e dirmi che era pronta, ho spalancato la bocca come si fa davanti a una vetrina di giocattoli da ragazzini. C’è stata solo lei prima di te, Ele. Non sono mai stato uno a cui piaceva vivere avventure. Quando stai bene con qualcuno non hai bisogno d’altro.
Ho la sensazione di ascoltarlo mentre legge in attesa di vedere sul mio volto una reazione. La sua voce vellutata mi rimbomba nelle orecchie in una ninnananna che non mi lascia mai. Mai. Sono pazza. E questa casa è la mia prigione. Sposto l’attenzione alla camera. L’armadio è rimasto aperto e i suoi vestiti stanno ancora appesi lì. Dondolano piano, cullati dal vento estivo. Non ho neanche tolto lo spazzolino dal bagno. I giorni hanno smesso di scorrere.Mi tocco la gola. Il fiato si spezza. La testa gira. Mi alzo e corro in cucina. Apro il frigorifero e prendo una bottiglietta d’acqua fresca. La bevo a piccoli sorsi, con la schiena contro il muro. La stanza smette di ruotare. L’ossigeno torna a circolare nelle vene. Non credevo potesse esistere questa sofferenza.Non me le ponevo mai certe domande. Non mi fermavo mai a pensare. Le risposte mi terrorizzavano. L’incertezza mi dilaniava.
Ginevra se n’è andata via. Ha detto d’aver bisogno di ritrovare se stessa. Io sono diventato un ostacolo per lei. Va bene così. Non si possono costringere le persone a restarti accanto per sempre. Il tempo renderà il suo ricordo sbiadito e il mio cuore libero. La sua valigia rossa l’ha abbandonata qui. Accanto alla porta della sala. Ha deciso di lasciarla all’ultimo momento, insieme a quasi la metà del suo guardaroba. Quando si taglia, si taglia con tutto. Ha confessato osservandomi con quegli occhi topazio. Occhi lontani. Non ho risposto. Sono rimasto zitto a vederla lasciare il nostro monolocale. È rimasto solo il suo profumo aggrappato alle pareti. Profumo di pesca.
Tu invece hai sempre saputo d’arancia. Ti riconoscevo anche al buio. Avvertivo i tuoi passi, il tuo modo di strusciare le scarpe sul pavimento. Dovrei smetterla di pensarti. Di stare qui ad aspettare di morire. In fondo è come se lo fossi già. Io me ne sono andata con te quel giorno d’agosto. Getto a terra la bottiglia. L’acqua si sparge e mi bagna i piedi nudi. Rabbrividisco. Le tazze incrostate nel lavello scricchiolano, logorate dalla sporcizia. Le hai usate per farti la colazione.
Nessuno è mai pronto al dolore, Ele. E se potessi resterei qui con te. Quante volte ce lo siamo detti? Ora che posso ancora scrivere voglio imprimere sulla carta i pochi pensieri che mi rimangono. Il diario è a metà, lo sai. Resta da raccontare la nostra storia. Il modo buffo in cui ci siamo incontrati. Te lo ricordi? Stavi uscendo dal negozio carica di buste e mi sei venuta addosso. È bastato un attimo per capire che ci saremmo scelti. Quando rientrerai a casa e il mondo ti sembrerà un peso eccessivo da portare da sola, fai una cosa. Apri il quaderno e dedicami le tue parole. Intrappola sulle pagine bianche il nostro passato, quello che siamo stati e che avremmo voluto continuare a essere. Poi chiudilo e dallo a Roberto. Fai conoscere la nostra vita agli altri. Potrebbe essere d’aiuto o da esempio a chi non crede nelle coincidenze e nella possibilità di ricominciare da capo.Non permettere alla mia assenza di divorarti. Quello che abbiamo condiviso farà sempre parte di te ma se deve impedirti di vivere, allora, cancellami. Brucia ogni cosa che ti riporti alla memoria i giorni che abbiamo passato insieme.Ti amo.
Non ho seguito nulla delle tue volontà. La malattia s’è mangiata tutto. Te. Me. Il presente. Il futuro. C’ho provato, Stefano. Mi sono messa qui, a scrivere, subito dopo il tuo funerale. Ma le campane, quei rintocchi metallici, il silenzio di tutta quella gente e l’odore dell’incenso sparso dal prete, mi hanno tolto ogni forza. E ce li ho ancora qui, stampati nella testa, decisi a non lasciarmi mai.Hai provato a prepararmi. Hai provato a non andartene.È stato inutile.Sono tornata da Roberto perché credevo dopo un anno di potercela fare a finire il nostro libro. Avrei voluto che qualcun altro ti conoscesse. Che sentisse l’odore di terra bagnata, di fieno accatastato nelle stalle e di grano appena colto del tuo paese. Ho fallito.La ragazza di città s’è spenta.Perdonami, se puoi.
Foto di KaitlynKalonLicenza Creative Commonshttp://www.flickr.com/photos/kaitlynnicolephotography/

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