Sandy Ecker
Dopo aver narrato, con una crudezza e una precisione magistrali, le esperienze della comunità americana residente a Cuba durante la rivoluzione di Fidel Castro, Rachel Kushner ci trascina nella New York degli anni ’70 con il suo secondo romanzo, intitolato I lanciafiamme ed edito in Italia da Ponte alle Grazie (la traduzione è di Stefano Valenti). La protagonista del libro è una giovane ventunenne proveniente dalla cittadina di Reno, nel Nevada, appassionata di alta velocità e di arte. Due sono le attività che le permettono di conciliare i suoi interessi unendoli in un connubio perfetto: lo sci, grazie al quale le è possibile disegnare sulla neve utilizzando i propri pattini come fossero pennelli e matite, e il motociclismo, che le consente di sfrecciare a 496 kilometri orari immortalando indelebilmente le tracce del proprio passaggio con la fidata macchina fotografica. Reno, così viene chiamata da tutti la ragazza della quale non verrà mai rivelato il nome, fa la conoscenza di personaggi bizzarri che, con le loro confidenze e i modi di fare eccentrici, catapultano il lettore nei salotti artistici di NY prima, e nella disastrata Italia degli anni di piombo poi. Un paradossale e impietoso gioco di specchi in cui a risaltare con straordinaria intensità nei fedeli riflessi sono difetti e debolezze tipiche dell’essere umano. Tra i personaggi che entreranno a far parte della cerchia delle nuove amicizie newyorkesi della giovane, ricoprono un’indubbia importanza Sandro Valera e Giddle, figlio di un ricco industriale l’uno e attrice senza pubblico l’altra. Sandro, proprietario insieme al fratello Roberto dell’azienda Valera, leader nella produzione di pneumatici e motociclette (una sorta di unione tra Pirelli e Guzzi), preferisce allontanarsi dalla vita sfarzosa che la sua famiglia conduce a Villa Valera e dedicarsi all’arte, suo reale interesse. Attraverso il minimalismo dei suoi cubi in alluminio esposti in un’importante galleria della città e rappresentati nella loro essenza più pura, Sandro sembra gridare al mondo intero di voler prendere le distanze dal suo pedigree, dalle sue radici italiane, per venir giudicato unicamente per ciò che è e per quello che è riuscito a realizzare con le proprie mani.
Giddle lavora come cameriera al Rudy’s bar di SoHo ed è consapevole che quello che avrebbe dovuto essere un progetto iniziato per curiosità e spirito d’avventura – cimentarsi nella performance ben riuscita di un’addetta ai tavoli – ha finito con l’inglobare la sua intera esistenza, permeando la sua anima e intaccandola con il proprio cinismo. Come attori di un eterno show, questi due personaggi recitano i rispettivi ruoli in maniera talmente credibile da apparire veri, autentici agli occhi di chi entra in contatto con loro.
«Gradualmente. La mia performance mise radici. Ero isolata e il lavoro era degradante e duro. Non appena terminavo il turno non vedevo l’ora di ubriacarmi, e così ero perennemente sotto l’effetto dell’alcol e faticavo ad arrivare a sera».
Così come Giddle desidera passare da una performance all’altra, Sandro Valera gioca con l’ecletticità della propria personalità. Lo vediamo vestire i panni del perfetto fidanzato di Reno, l’uomo che la avvolge nel proprio cappotto dopo averla masturbata in un cinema al loro primo appuntamento e che la ricopre di attenzioni galanti durante la visita presso la villa di famiglia, ma che la tradisce ripetutamente con tutte le donne che gli gravitano attorno, compresa la cugina Talia. In quelli del ribelle bohémien che rifiuta di occuparsi dell’azienda assieme al fratello Roberto per vivere a NY, lontano dalle minacce della classe operaia e dagli oneri di cui un ruolo di prestigio come quello di Presidente della Valera è carico, ma che allo stesso tempo non rinuncia all’eredità e ricorre al patrimonio di famiglia ogni qualvolta ne avverte la necessità. Rachel Kushner utilizza sapientemente il black-out che ha messo in ginocchio la grande mela nel 1977 come espediente per scavare a fondo nelle anime di Henri-Jean e Burdmoore Model, due personaggi chiave malgrado la loro apparente irrilevanza, mostrandocene la reale natura scevra da maschere e inibizioni. Così come i ragazzini de Il signore delle mosche, privati dell’indispensabile guida degli adulti, assumono comportamenti talmente violenti e distruttivi da uccidersi a vicenda, mettendo a nudo gli aspetti più selvaggi della natura umana, allo stesso modo gli abitanti di NY, senza i semafori a indicare la direzione da seguire, i televisori a ipnotizzarli sciorinando consigli per gli acquisti e film in replica, i cinema e le radio a intrattenerli con la loro irresistibile magia, riducendoli a mansueti e quindi innocui agnellini da addomesticare, si liberano del proprio ruolo di pedine manovrate dai potenti per rovesciare un sistema angusto da cui si sentono oppressi. L’imprevedibilità della situazione e l’anarchia che ne deriva danno la possibilità a Henri-Jean e Burdmoore di spogliarsi della maschera perbenista fino ad allora indossata e rivelare il loro vero io: ritroviamo così il primo intento a dirigere il traffico oramai impazzito servendosi del proprio bastone come fosse un semaforo, sorridente e soddisfatto della propria ritrovata utilità, e il secondo impegnato a gestire un gruppetto di ragazzini ordinando loro di dar fuoco ad una scuola.
Uno dei temi ricorrenti nel romanzo è quello del tempo: spietato giudice che scandisce le nostre giornate, elemento onnipresente cui siamo costretti a rendere conto. Reno è combattuta tra il desiderio di lasciare un’impronta di sé, un segno tangibile del suo breve passaggio sulla terra, una traccia della propria esistenza da esibire ai posteri e immortalare sotto forma di arte, e quello di preservare l’integrità e la bellezza della natura, assistendo al suo spettacolo quotidiano e percorrendola in punta di piedi, per non contaminarla:
«Cinque minuti, mi ripromisi. Cinque minuti. Come se, rimanendo più a lungo, potessi intaccare quel luogo indicato dalla mappa».
Il tempo si tramuta in attesa quando viene cristallizzato, spogliato della sua cangiante mobilità per essere ridotto a uno sterile e quieto fluire. Gli spettatori della gara di velocità a cui la giovane prende parte restano in attesa della morte, gli autisti di Little Italy attendono i loro padroni in piedi di fronte alle rispettive limousine nere, «lavoravano, pagati per non badare al valore del tempo e restare sotto il sole, come facevano, tutto il giorno». Reno rappresenta l’assolutizzazione del concetto dell’attesa, l’incarnazione della donna che, per inesperienza o temperamento, preferisce attendere passivamente che i cambiamenti esterni si verifichino da soli, che lo scorrere degli eventi la coinvolga animandola. Subisce il fascino delle personalità carismatiche di Sandro, Ronnie, artista egocentrico di cui Reno s’invaghisce, e Gianni, giovane romano che la trascinerà nel cuore degli scontri di piazza durante il suo soggiorno in Italia. Si lascia ammaliare dalla loro sicurezza, dalla capacità di combattere per seguire le proprie ambizioni, dalla consapevolezza con cui tracciano i contorni del loro destino. È la finestra di cui il lettore si serve per dare uno sguardo al panorama artistico della New York anni ’70 e a quello italiano durante uno dei periodi più difficili mai vissuti dal nostro paese. Attraverso i suoi occhi veniamo catapultati all’interno di Villa Valera, entriamo in contatto con la frivolezza, l’egoismo e il narcisismo dei suoi residenti, e ci avventuriamo tra le vie di una Roma in preda a lotte a mano armata e guerriglie urbane. Facciamo la conoscenza di Lidia, Claudia, Durutti e soprattutto, di Gianni e Bene, giovane coppia impegnata politicamente contro l’oppressione dei potenti.
Rachel Kushner ha fornito un’analisi estremamente dettagliata e precisa degli avvenimenti, dimostrando di aver studiato a fondo il periodo storico degli anni di piombo fino a comprenderne le motivazioni: Reno si trova infatti a condividere l’appartamento con un gruppo di giovani rivoluzionari, assiste a una manifestazione di piazza che le apre gli occhi circa la drammatica situazione politica e sociale in cui l’Italia era caduta e da cui non sembrava in grado di risollevarsi, e si rende conto che l’ondata di violenza che si diffonde lungo il bel paese è alimentata in larga parte da operai e studenti, gente appartenente al proletariato che è stanca di subire le vessazioni dei padroni e che ha deciso di agire, come i suoi nuovi amici italiani. La giovane Reno inizia gradualmente a perdere l’abitudine di idealizzare la gente e cucire addosso a ognuno quelle che alla fine si rivelano soltanto sue proiezioni personali, e comincerà a vedere i suoi amici per quello che sono veramente. Smette di ammirare i sontuosi abiti dei manichini Sears, idealizzando la galanteria di Sandro, la profondità e il mistero di Ronnie, l’amicizia di Giddle: li spoglia dell’apparenza, dell’eleganza dei vestiti indossati, e li guarda fisso negli occhi, stabilendo un contatto visivo talmente profondo da permetterle quasi di toccare i recessi della loro anima. E quello che scopre, ciò che vede dietro la porta verde, è un’immagine distorta e deludente rispetto alla realtà che aveva dapprima immaginato. Sotto uno strato superficiale di perbenismo e buoni sentimenti possono nascondersi la dissolutezza, l’egoismo, l’opportunismo, l’ipocrisia; e Reno tocca con mano quella che si rivelerà essere la natura umana nuda e cruda, scevra da artifizi e inibizioni. Privata di punti di riferimento da seguire, di linee guida che possano suggerirle la strada da percorrere, abbandonata nel bel mezzo del nulla rappresentato dalle immense Alpi innevate, Reno si troverà infine a decidere per la prima volta quale percorso imboccare, quale direzione dare alla propria vita, non avendo alcun tipo di contatto umano con cui confrontarsi e su cui fare affidamento, all’infuori di quello con se stessa.