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I LIBRI DEGLI ALTRI n.39: Antigone e il contesto della giustizia. Giorgio Fontana, “Per legge superiore”

Creato il 13 maggio 2013 da Retroguardia

Giorgio Fontana, Per legge superioreAntigone e il contesto della giustizia. Giorgio Fontana, Per legge superiore, Palermo, Sellerio, 2011

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di Giuseppe Panella

Scritto con buona evidenza sotto la suggestione della rilettura di Porte aperte di Leonardo Sciascia del 1983, questo romanzo è soprattutto una riflessione, aspra e sincera, rilevata e dura, sul rapporto tra legge e giustizia e tra forma giuridica e ricerca della verità. Un romanzo solo apparentemente giudiziario quello di Fontana che suscita, in realtà, echi più profondi di quanto il puro e semplice fait divers che racconta potrebbe suscitare ; non solo, ma l’apparente banalità dell’evento raccontato ne accentua il valore simbolico, lo scatto esistenzialmente carico di umanità e di dolore.

Un giudice, Roberto Doni, sostituto procuratore a Milano, si sente ormai a disagio nel proprio ruolo e nel luogo dove è costretto a lavorare. Dopo aver doppiato il capo di solito tempestoso dei sessanta anni, aspetta con una certa ansietà di essere trasferito in una sede giudiziaria più defilata, più tranquilla, in cui concludere la propria carriera di magistrato. Il Palazzo di Giustizia lo inquieta:

«Era qualcosa che aveva a che fare con l’esilio. Una sensazione difficile da catturare. Dentro quell’edificio Doni si sentiva esiliato dal resto della città, della nazione, del mondo. Tenuto in piedi dalla forza di centinaia di chiodi, sabbia edificata sulla sabbia»[1].

Lo stesso accade a sua moglie Claudia, che attende anch’essa di poter abbandonare una città in cui non si riconosce. Entrambi vivono un rapporto di coppia solido e ben sperimentato ma spento.

Ciò che cruccia maggiormente Doni, però, sono le difficoltà di comunicazione con la figlia Elisa, studiosa di Fisica all’Indiana University di Bloomington, che è in difficoltà con il rinnovo della borsa di studio e non gli telefona da più di dieci mesi. L’uomo crede di aver perso completamente il rapporto con lei e se ne rammarica molto. La sua esistenza è piuttosto grigia, incolore, fatta di gesti quotidiani sempre uguali e sommamente deludenti. Ma un pomeriggio in cui è particolarmente abbattuto riceve una mail inattesa che, al principio, lo stupisce e lo sconcerta..

Una giornalista free-lance, Elena Vicenzi, gli chiede di riesaminare in dettaglio il caso di Khaled Ghezal, un maghrebino già condannato per omicidio e di cui Doni è stato designato a discutere l’appello. Secondo la giovane donna, l’uomo è innocente e della non colpevolezza dell’uomo sostiene di avere prove sufficienti. Il giudice non risponde per niente, limitandosi a cancellare la mail ma la ragazza testardamente va a trovarlo di persona per esporle i fatti. Il giudice dichiara che non può farci niente e che deve rivolgersi all’avvocato difensore dell’accusato ma la giovane donna dichiara che non è possibile perché quest’ultimo non ha capito nulla del caso e, sostanzialmente, è “un idiota” (su questo particolare, il giudice, in cuor suo, concorda). Ma dichiara pure che non può intervenire nel caso perché si tratterebbe di una violazione grave delle procedure usuali:

«Doni si alzò dalla sedia e fece mezzo giro attorno alla scrivania. “Senta”, disse. Aveva cambiato ancora registro. “Apprezzo il suo, diciamo così, senso civico e la sua dedizione verso un caso complicato, ma ci sono delle procedure. E questa conversazione è contro tutte le regole. Non sono disposta a proseguirla”. “Perché?”, domandò la ragazza. “Gliel’ho appena spiegato”. “Ma le sto dicendo la verità”. “Questo non ha importanza”. “Non ha importanza ? E cosa ha importanza, allora?”. Doni sospirò. Non poteva credere di essere arrivato a quel punto. “La giustizia è una macchina complessa”, disse. “Funziona secondo meccanismi precisi, e questi meccanismi non si possono oltrepassare. La verità è naturalmente la sola cosa importante, ma soltanto se può seguire tutti i passaggi previsti  dalla legge: è triste, è brutto, ma è così. Perché l’alternativa è il caos. Ora, la prego…”. “Quindi se un uomo è innocente resterà colpevole soltanto perché qualcuno non ha avuto la forza di rischiare la pelle per lui ? Perché è di questo che stiamo parlando, dottore. Se i miei testimoni vanno in tribunale sono finiti, da una parte o dall’altra. Salta fuori che non hanno il permesso di soggiorno e devono andarsene, oppure il colpevole vero li trova e li uccide. Tanto chi se ne frega, giusto ? Sono dei maghrebini del cazzo !»[2].

Messa in questo modo, l’alternativa sembra troppo radicale ma non è così : sembra soltanto.

Per la ragazza, la procedura penale non è sufficiente ad assicurare che sia fatta giustizia in modo adeguato e, di conseguenza, bisogna passare ad un’istanza superiore che permetta di ripristinare il meccanismo infranto della ricerca della verità. Il discorso di Elena Vicenzi è quello di Antigone e della “legge superiore” che va al di là delle norme che vengono stabilite dagli uomini e alla quale bisogna comunque cercare di obbedire ad ogni costo (sono quelle che Sofocle designa come αγραπτα νομιμα, le leggi di origine divina).

Doni accetta di riesaminare il caso in sua compagnia e si lascia piano piano coinvolgere nel discorso della donna. Il 9 ottobre, alle otto e mezza di sera, tre immigrati avevano aggredito un commesso in un negozio di telefonia, Antonio dell’Acqua, e la sua ragazza, Elisabetta Medda. Dell’Acqua è un consumatore abituale di hashish e forse anche un piccolo spacciatore. L’uomo compera due etti di fumo, ma ne paga uno solo, poi si illude di poter sparire. Invece, tre nordafricani lo trovano all’uscita di una pizzeria dove è andato con la ragazza, lo pestano e gli sfilano portafogli e cellulare. Antonio cerca di reagire, c’è un tafferuglio durante il quale partono due colpi di pistola, uno dei quali colpisce Elisabetta Medda che, anche se salvata con un’operazione d’urgenza alla colonna vertebrale, rimarrà paralizzata per tutta la vita. Interrogato, dell’Acqua fa il nome di Khaled Ghezal come uno dei tre e, come tale, viene anche riconosciuto dalla ragazza. Il tunisino nega tutto. Il suo avvocato difensore tenta la carta della difesa politica ma gli va male. Khaled viene condannato per rapina e tentata estorsione: sei anni, poi ridotti a quattro perché ha scelto il rito abbreviato.

Elena si è incuriosita, poi si è informata a fondo sui fatti, dopo che tutti quelli che potevano (la Procura, l’avvocato difensore di Khaled, i genitori di Elisabetta, l’avvocato di parte civile dei due ragazzi) hanno fatto appello suscitando una violenta polemica e sollevando un gran polverone politico sulla giustizia incapace e troppo politicizzata a sinistra.

La sua accorata richiesta al giudice è quella di ascoltare dei testimoni che non sarebbero mai comparsi in tribunale per paura ma che sapevano e avevano visto Khaled in luoghi diversi da quello del delitto. Ma, ovviamente, questi testimoni non sarebbero mai andati a parlare al giudice nel suo ufficio e, quindi, sarebbe dovuto andare lui stesso a cercarli, contattandoli in segreto.

Comincia così la discesa agli Inferi di Roberto Doni, una nekuya fatta di incontri con persone sconosciute, dalla mentalità totalmente diversa dalla sua e con criteri di giudizio e stili di vita lontani anni luce dai suoi. Ma soprattutto Doni si sente obbligato a scendere all’interno di se stesso e si interroga sulla propria vita, sul suo passato, sulla sua “normalità” di uomo e di giudice.

Riprende a scrivere un testo da lui intitolato Testamento tra la confessione, il diario e l’autobiografia e si fa delle domande sulla sua professione, la sua vita, i risultati ottenuti in essa. In compagnia di Elena, scende in profondità in una Milano sconosciuta, abitata dalle “classi pericolose” e soprattutto emarginate della città. Tutti concordano sul fatto che Khaled è un bravo ragazzo, che non può aver commesso il delitto, che non ha nulla a che vedere con la malavita organizzata.

Doni incontra Yasmina, la sorella di Khaled, ma la conversazione con la ragazza non è risolutiva.

A farlo decidere, invece, su che cosa fare sarà l’incontro con Mohamed, un egiziano che conosceva bene Khaled ed era in grado di scagionarlo. Ma, nonostante la segretezza dell’incontro e le condizioni clandestine in cui è avvenuto, anche l’uomo verrà trovato morto.

I conflitti interiori di Doni si acuiscono e da lì a poco giungerà a prendere una posizione decisa:

«A furia di lottare contro il male, rifletté, pensi che tutto il mondo si riduca a questo, a una contrapposizione fra guardie e ladri, un gioco dalle regole semplicissime: finisci a credere che nulla, fuori dal Palazzo, possa esistere: che le migliaia di pagine di una sentenza contro la ‘ndrangheta racchiudano per intero quanto c’è da dire nell’universo, e che la gente non se ne accorga per ignoranza e comodità. E che persino la bellezza – persino la musica, l’arte, l’amore – siano soltanto lampi di luce passeggera, frammenti provvisori, particelle così instabili da morire dopo una frazione di secondo : niente di vero, niente di essenziale, niente che possa resistere all’onda del dolore. Anche per questo era qui, anche per questo»[3].

Con uno stile investigativo serrato e denso di una simbolicità non esibito, il romanzo di fontana si snoda in una serie di situazioni condotte sul filo della testimonianza morale e della presa di coscienza civile. Come in un romanzo di Simenon (a un certo punto, viene citato il suo splendido L’uomo che guardava passare i treni), la vita di un uomo viene mostrata controluce e le sue motivazioni sviluppate in maniera attenta e straziata. Racconto della resa dei conti con se stesso, la vicenda di Doni si rivela, giunti alla fine della storia, come un modello per chi non vuole cedere al puro formalismo della norma e del dovere e cerca, come Antigone, ispirazione in una “legge superiore” che, al di là di quella degli uomini, cerca conforto in una possibilità ulteriore di riscatto, in qualcosa che gli dia per molto tempo la voglia di continuare a vivere.


NOTE

[1] Giorgio Fontana, Per cause superiori, Palermo, Sellerio, 2011, p. 14. L’allusione ai chiodi è riferita a quelli molto grossi e ad espansione che sembrano (apparentemente) reggere a stento il marmo prossimo a staccarsi dall’edificio del Palazzo di Giustizia di Milano

[2] Giorgio Fontana, Per cause superiori cit. , p. 35.

[3] Giorgio Fontana, Per cause superiori cit. , p. 213.

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[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]

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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)

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