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I migliori film di stasera (lun. 7 apr. 2014) sulla tv in chiaro

Creato il 07 aprile 2014 da Luigilocatelli

Moltissimi film belli e e importanti, una grande cineserata.

Shame, La Effe, ore 23,00.

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Secondo film dell’artista-regista Steve McQueen, trionfatore quest’anno agli Oscar con 12 anni schiavo. Shame è il ritratto glaciale e potente di Brandon, newyorkese di successo affetto da sex addiction. Un uomo come tanti, come tanti malato di frigidità morale ed emotiva. Un Michael Fassbender formidabile. Uno dei grandi film degli ultimi anni. (Recensione estesa)

Confessions, Rai 4, ore 23,20.

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Incomincia con un’insegnante che rivela agli alunni sbigottiti come lì, tra loro, si nascondano i due assassini di sua figlia. È solo l’inizio della sua vendetta. Un film made in Japan che infrange molte convenzioni, a partire dall’innocenza infantile, in una rappresentazione quasi cerimoniale e astratta dell’orrore e del sangue. Un thriller con derive horror, assai autoriale. (Recensione estesa)

Wristcutters: una storia d’amore, La Effe, ore 21,20.
Sundance-movie del 2006, ultra-indie e mai pervenuto, a quanto ricordo, nei cinema italiani. Un piccolo cult, e un piccolo caso. Per come tratta, attraverso il surreale, un tema sensibile quale il suicidio. Come si intuisce dal titolo, che vuol dire quelli che si tagliano i polsi. Il film immagina che ci sia un mondo parallelo, un al di là, in cui gli wristcutters si ritrovano e vivono un’altra vita, in cerca di una felicità negata o non trovata nell’al di qua, ma anche ripercorendo paure e angosce del mondo che hanno lasciato. Dove sono adesso, tutto è senza luce, come depotenziato. Il suicida Zia si mette sulle tracce della sua ex Desirée. Incontrerà, in questo viaggio da nuovo Orfeo, altri che si sono ammazzati, come un bizzarro musicista ukraino (e la musica difatti è quella dei Gogol Bordello). Dirige Goran Dukić. Soggetto dell’israeliano Etgar Keret, scrittore, autore di graphic novel. Attenzione: partecipazione eccellente di Tom Waits.

I ragazzi stanno bene, la7d, ore 21,10.
Il film che tre anni (e qualcosa) fa ha sdoganato presso le grandi platee americane la famiglia gay, in questo caso con coppia lesbica a far da genitori più due figli, un ragazzo e una ragazza. Frutto di una gravidanza a testa, paritariamente, per le due genitrici, però con lo sperma dello stesso donatore (estraneo). Incassi di decine di milioni di dollari al box office Usa, una pioggia di nomination all’Oscar, con Annette Bening (una delle due madri, l’altra è Julianne Moore) che se l’è visto portare via all’ultimo secondo dalla Meryl Streep di The Iron Lady. Premi dappertutto comunque, anche per la sua regista e co-sceneggiatrice Lisa Cholodenko. Un romanzo familiare assai contemporaneo, e perfettamente costruito con l’ineccepibile mestiere americano, che dà per scontato come le famiglie gay siano possibili e perfettamente adeguate per l’allevamento della prole, senza neanche ideologizzare troppo e lanciare messaggi, ma mostrandoci la vita, le vite nel loro farsi e dispiegarsi. Tutto sembra andare avanti nella più quieta routine infatti, finché la ragazza (Mia Wasikowska) chiede di conoscere il padre, insomma colui che ci ha messo una ventina di anni prima lo sperma, mentre il fratello appare agnostico rispetto alla faccenda, se non contrario (è il Josh Hutcherson che poi ritroveremo in The Hunger Games). Che si fa? Si decide di procedere. Vien rintracciato quello che allora era uno studente che foraggiava le banche del seme per tirar su un po’ di soldi e adesso è un signore sempre molto alternativo con le fattezze piacione di Mark Ruffalo. Niente sarà più come prima. L’incontro dei due ragazzi con il chiamiamolo padre cambierà qualcosa negli equilibri familiari, con risvolti per niente sciontati e finanche sorprendenti. Strano film. Nella sua superficie politicamente correttissimo e allineato agli orientamenti della gender culture, e perfino queer-militante. Eppure. Eppure nel sottosuolo del racconto, nell’inconscio della storia che ci viene detta, ci sono strane incongruenze. Se la famiglia gay è senza crepe, se appaga e riempie ogni possibile domanda e desiderio dei suoi conponenti, come mai la figlia ha tanta voglia di conoscere il padre? E come mai la coppia sembra cedere, e anzi cede per un po’, al richiamo erotico dell’uomo ripiombato dopo tanto tempo in casa? A riprova che le narrazioni, film, romanzi e quant’altro, possono essere assai ambigue e perfino contraddire nel profondo ciò che proclamano.

Il diavolo è femmina, Rete Capri, ore 21,00.
Titolo italiano dell’originale e più famoso Sylvia Scarlett. Anno 1935, dirige George Cukor, interpreti Katharine Hepburn e Cary Grant. Sophisticated comedy come poche altre, anzi il paradigma del genere. Anche gran commedia degli equivoci sul travestimento e i ruoli sessuali. Sylvia Scarlett, una giovanissima Hepburn, è una ladra che per sfuggire ai suoi inseguitori si traveste da ragazzo (è l’iconica Katharine Hepburn in abiti maschili che abbiamo visto migliaia di volte). Incontrerà Cary Grant e si innamorerà di lui, con tutti i misunderstanding del caso. L’ambiguità sessuale nella Golden Era di Hollywood, trattata con la grazia e la leggerezza di cui erano capaci gli sceneggiatori di allora.

Uomo bianco va’ col tuo Dio, Rai Movie, ore 21,15.
Uno di quei film americani tra anni Sessanta e Settanta che tentavano, pur in vario modo e secondo progetti narrativi diversi, di revisionare il genere western, già parecchio acciaccato e messo in crisi dall’offensiva di Sergio Leone. In Uomo bianco va’ col tuo Dio si tenta da una parte di giocare la carta egologista (protagonisti e azione annegati nell’immensità degli spazi naturali), dall’altra si contamina il western con un altro genere glorioso, quel del revenge movie. Si incazza difatti, e decide di vendicarsi, il cacciatore di pelli Zachary Bass allorchè, durante un’escursione in territori selvaggi, viene abbandonato dai compagni dopo essere stato aggredito da un orso. Sopravviverà, e il suo obiettivo diventerà quello di rintracciare i fedifraghi e fargliela pagare cara, carissima. Siamo nel Canada di inizio Ottocento, e la macchina da presa usa i panorami come una enorme prigione all’aperto immettendo nel racconto un senso di calustrofobia, di intrappolamento. Richard Harris teso e convincente, nel suo western più famoso e riuscito: insieme, ovvio, a Un uomo chiamato cavallo girato solo un anno prima. Richard Sarafian, il regista, era reduce da un cultissimo come Punto Zero, road movie ribellistico che parve ai ragazzi sessantottardi un inno anarcoide contro il sistema e che dunque fu subito adottato e arruolato tra gli imperdibili generazionali. Insensato titolo italiano: in origine Uomo bianco va’ col tuo Dio faceva Man in the Wilderness.

The Hurt Locker, Rai Storia, ore 21,04.
Dopo aver visto il suo formidabile Zero Dark Thirty, questo The Hurt Locker appare sempre più il vero film-svolta e film-matrice della nuova Kathryn Bigelow, quello che l’ha portato dall’action muscolare alla narrazione di pezzi importanti e tosti della storia americana contemporanea. Non per niente lo sceneggiatore è lo stesso, l’ex giornalista, e ora anche fidanzato della Bigelow (lei anni 62, lui 40) Mark Boal. The Hurt Locker si è portato via nel 2010 qualcosa come sei Oscar, compreso il più importante, quello del miglior film. Però val la pena ricordare che quando fu presentato in prima mondiale a Venezia 2008 non se lo filò nessuno (e non ebbe nessun premio), anzi l’accoglienza fu glaciale, soprattutto da parte della critica italiana, forse perché non era quel manifesto contro la guerra in Iraq che molti si aspettavano. Kathryn Bigelow, la più virile delle donne registe e non solo delle donne, non giudica, non stigmatizza, non emette proclami. Si limita a fare benissimo il suo mestiere e a raccontare le avventure di un pugno di uomini duri, gli artificieri americani incaricati nella sporca guerra intorno a Baghdad di disinnescare gli ordigni sospetti degli attentatori. Un film che non dà tregua, uno dei migliori bellici delle ultime decadi, te lo guardi col cuore in gola senza mai dare un’occhiata all’orologio. Ma che, nonostante (o forse proprio per) l’alto tasso di spettacolarità, fa capire benissimo cosa sia la guerra asimmetrica e combattere contro un nemico che si può nascondere ovunque e in chiunque. Almeno una scena non si dimentica, ed è quella del povero kamikaze. Jeremy Renner è il tostissimo protagonista. Lanciato da questo film, è oggi uno dei miglior attori della generazione dei trentenni (vederlo in The Town di Ben Affleck per credere, ed è bravo pure in Mission: Impossible – Il protocollo fantasma, The Bourne Legacy e in American Hustle – L’apparenza inganna.

Breakfast Club, Class Tv, ore 20,40.
Da noi non lo andò a vedere quasi nessuno, ma in America fu un successo immenso, qualcosa che trasformò questo Breakfast Club in film epocale, simbolo e ritratto di un mondo, di un tempo, di un passaggio. Si era a metà anni Ottanta e il regista John Hughes ebbe l’idea di raccontare cinque teenager chiusi in una stanza, di metterli a confronto-scontro, di cavarne la geografia dei sogni, desideri, illusioni, paure, voglie di una generazione allora nuova. Costretti un sabato a starsene per punizione nella biblioteca della scuola, i cinque protagonisti – due ragazze e tre ragazzi – si vedono assegnare dal preside il tema “Chi sono io?”. Sarà l’innesco di qualcosa che potremmo anche chiamare autocoscienza (anche se il termine più si adatta agli anni Settanta, di cui è figlio). L’America sotto i vent’anni si precipitò al cinema in una identificazione collettiva che sorprese gli stessi produttori e regista. Gli attori – Emilio Estevez, Judd Nelson, Ally Sheedy, Anthony Michael Hall, Molly Ringwald – divennero idoli di massa, Molly Ringwald addirittura un’icona, anche se poi nessuno avrebbe avuto una carriera all’altezza di quella bruciante partenza. Film fondativo e archetipico al pari del di poco precedente Saranno famosi che verrà segretamente ripreso e citato e rifatto da infiniti successivi teen-movie e soprattutto serie tv, da Dawson Creek fino a Glee e Gossip Girl. Yann Gonzalez, regista di uno dei film sorpresa del 2013, Les rencontres d’après minuit (vincitore del Milano Film Festival, lanciato alla Semaine de la critique di Cannes), lo cita quale suo film di culto e riferimento. Ragione in più per (ri)vederlo.

L’Agnese va a morire, Tv 2000, ore 21,20.
Ho sempre molto amato Giuliano Montaldo, un gran regista all’americana, vigoroso, senza frilli e fronzoli, asciutto, focalizzato sulla storia e sul miglior modo di raccontarla e restituirla allo spettatore. Mica per niente si deve a lui uno dei nostri noir più riusciti di sempre e, per l’appunto, più americani, Gli intoccabili (no, da non confondere con quello di Brian DePalma). Ma Montaldo è stato anche un artefice tra i massimi del nostro cinema cosiddetto civile tra anni Sessanta e Settanta, fino a sfiorare la militanza. Questo L’Agnese va a morire (un titolo oggi che nessuno avrebbe il coraggio di scegliere) appartiene a quel filone resistenziale che negli anni post-68 ritrovò slancio, con film come Corbari, I sette fratelli Cervi e, appunto, questo di Montaldo. Siamo nelle valli di Comacchio, repubblica di Salò. Agnese è una proletaria che di politica non si è mai occupata, ma quando la guerra si porta via il marito dcide di passare dalla parte dei partigiani, e diventa una staffetta. Con, incredibilmente, la svedese Ingrid Thulin quale popolana del delta del Po. Grandissimo cast d’epoca: Michele Placido, Stefano Satta Flores, Aurore Clément, Ninetto Davoli, Flavio Bucci e Rosalino Cellamare!

The Berlin File, Rai 4, ore 21,11.
Film coreano dell’anno scorso, grandissimo successo in patria. Guardatelo, se potete, perché il cinema di Seul è non solo tra i migliori del’Asia, ma uno dei più vitali oggi al mondo. Questo, del regista Ryoo Seung-wan, è un film di genere scatenatissimo e di strabordante energia e vitalità. Una spy-story che, citando i classici occidentali della guerra fredda, si svolge a Berlino, città in cui si incociano trame di ogni genere. Ci sono di mezzo agenti segreti nord e sud coreani, ma entrano nel gioco – complicatissimo -anche il Mossad, la Cia e rappresentanti della lega Araba. Uno spettacolo grande, ma anche, più sottilmente, un omaggio al cinema americano ed europeo.

Body of Evidence, Rai Movie, ore 23,15.
Uno dei non molti film della carriera cinematografica di Madonna. Che qui è nella parte di presunta dark lady, accusata di aver mandato all’altro mondo attraverso i suoi giochi erotici sado & maso un ricchissimo businessman. Processo a suo carico, anche perché è lei l’erede della vittima e dunque fortissimamente sospetta. Colpevole o innocente? L’avvocato che la difende diventerà intanto la nuova preda della donna-mantide. Da rivalutare. Del 1991, ha alla regia il tedesco Uli Edel, ebbene sì, quello dello scandaloso-scandalistico Christiane F. Grandissimo cast. Oltre a Madonna, in un personaggio un po’ alla Marlene Dietrich, ci sono Willem Dafoe, Julianne Moore e Joe Mantegna.

The Kingdom, Iris, ore 21,04.
Del 2007, un film che rispecchia assai bene la lotta su scala mondiale innescata dall’America del dopo 11 settembre al terrorismo. A Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita, un attentato fa saltare un complesso residenziale per occidentali. Un gruppo di specialisti capitanato da un agente dell’Fbi cerca di beccare il colpevole, ma si renderà conto di muoversi in un ambiente omertoso se non ostile, scontrandosi con muri invisibili e ostacoli e pericoli continui. Con Jamie Foxx e Jennifer Garner. Regia di Peter Berg.

Spy Game, Iris, ore 23,10.
Film del 2001 della serie quanto son maledetti i maledetti servizi segreti. Dirige, nei suoi modi eccessivi e adrenalinici e tonanti, Tony Scott. Protanisti: Muir, un agente Cia ai bordi della pensione (Robert Redford) e il suo giovane delfino Bishop (Brad Pitt), incastrato in una prigione cinese. Quando Muir si rende conto che gli Stati Uniti han deciso di mollarlo al suo destino per non compromettere le relazioni con il gigante asiatico, cercherà con un’operazione in proprio di salvarlo. Con parecchi echi, e non solo per la presenza di Redford, di I tre giorni del condor, spy-story anni Settanta che non ha mai smesso di influenzare cineasti e attori (anche il Ben Affleck di Argo se ne è dichiarato debitore).

Banlieu 13, Rai 2, ore 23,59.
Quando il cinema francese fa l’americano, e naturalmente anche stavolta c’è di mezzo (come produttore) il solito Luc Besson, cioè l’uomo che da parigi ha osato sfidare il dominio hollywoodiano nei film di genere e ad alta tecnologia. Si pensi solo a Taken, arrivato adesso al secondo episodio con stratosferici incassi in America. Già con questo Banlieu 13 l’impresa gli era riuscita abbastanza bene. Del 2004, è stato un tale successo da indurre la produzione a varare nel 2009 un sequel, B13 Ultimatum. L’idea alla base è di puntare su quello sport estremo ed acrobatico tutto urbano (se non di invenzione, certo di codificazione francese) che si chiama parkour, il correre tra e su muri, tetti, terrazzi, ruderi, abissi e ostacoli del tessuto metropolitano, un’estensione molto energetica e muscolare, e con presa di possesso del territorio, della cultura hip hop. Il dittico non è niente male, e vien da chiedersi come mai il cinema italiano non sia invece in grado di produrne (e pensare che fino agli anni Settanta eravamo egemoni nel campo dei B-movies). Dunque, in una Parigi prossima ventura la periferia, ormai ridotta a serbatoio selvaggio di vite devianti e rischi sociali di ogni sorta, è stata isolata dalla parte cosiddetta sana del tessuto urbano da un muro. Si scatena l’azione, con un figlio del ghetto a fare da buono, un altro a fare da cattivo, e con la polizia che non sa come muoversi. Grandi le scene di parkour. L’idea della parte infetta e maledetta di città recintata e separata viene, per stessa ammissione di Besson, dal capolavoro di John Carpenter 1997: Fuga da New York. Interessante.

Free Zone, Rai 3, ore 1,15.
Uno dei molti film dell’israeliano Amos Gitai, un maestro vero, mai arrivati nelle nostre sale. Lanciato a Cannes 2005 e poi transitato attraverso festival vari, uscendo negli Stati Uniti in un numero limitato di cinema. Stavolta Gitai gioca con i generi, in particolare con il noir, muovendosi verso quella Free Zone tra Giordania, Iraq e Arabia Saudita dove intrecciano affari e traffici di vario tipo. Una terra di frontiera, uno di quei luoghi non-luoghi che il cinema ama da sempre. Certo Gitai il genere lo cita a modo suo, senza rinunciare ai suoi avanguardismo e tardo nouvellevaguismi, e impastandolo con quel cinema di impegno che lo distingue. Una giovane donna ebreo-americana (Natalie Portman) da mesi a Gerusalemme e in rotta con il suo uomo, incontra una tassista israeliana che deve raggiungere il marito, rimasto ferito in un attacco, là nella Free Zone e recuperare i 30mila dolari che lui gli deve. A loro si aggiungerà una palestinese. Andranno insieme verso la Free Zone. Oltre a Natalie Portman, ci sono Hiam Abbas e Carmen Maura. E Hanna Laslo, vincitrice a Cannes come migliore attrice.

Ladyboy: il terzo sesso, Cielo, ore 23,25.
Docu francese, non privo di un certo vioyeurismo, sul fenomeno thailandese delle Katoeys, come lì vengono chiamate le transgender, uomini progressivamente slittati verso il femminile. Alcune di portentosa bellezza, autentiche dive mediatiche. Il regista Stéphane Rodriguez entra con la mdp in questo mondo per niente emarginato e marginale, incontra e filma le donne thai che furono uomini, le Katoeys arrembanti e trionfanti.

Prostitute occasionali, Cielo, ore 0, 20.
Documentariol del 2006 del francese Michel Guetienne su irreprensibili studentese  che si prostituiscono per poter comprare oggetti fashion, concedersi vacanze o per dipendere meno dalla famiglia. Serio, non sensazionalistico.


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