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I paesi a sviluppo tardivo secondo Giorgio Fuà

Creato il 09 settembre 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice
I paesi a sviluppo tardivo secondo Giorgio Fuà

“Sviluppo economico e benessere – Saggi in ricordo di Giorgio Fuà” a cura di Canullo Giuseppe e Pettenati Paolo

di Cosimo Perrotta

C’è un libro recente di grande interesse, Sviluppo economico e benessere. Saggi in ricordo di Giorgio Fuà, a cura di Giuseppe Canullo e Paolo Pettenati, ESI. I contributi sono di autori affermati e non di rado prestigiosi (ricordo Mario Draghi, Giorgio Ruffolo, Quadrio Curzio, Cipolletta, Massimo Paci, Arnaldo Bagnasco, Vaciago, Crivellini, ecc.).  Il libro illustra gli aspetti fondamentali dello sviluppo tardivo e della crisi attuale di un gruppo di paesi (i GIPSI): Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia; e il ruolo che in questo ritardo hanno avuto la qualità delle imprese, il capitale umano e il capitale sociale e organizzativo.

Nell’Introduzione, Canullo e Pettenati ci restituiscono innanzitutto l’idea genuina dell’economia, come scienza della produzione e del consumo, dell’aumento e della diffusione del benessere. Non quindi una disciplina, com’è in gran parte oggi, smarrita fra gli alambicchi metodologici, epistemologici, psicologici o matematici.  “Giorgio Fuà – scrivono – riteneva, nella migliore tradizione classica, che compito dell’economia politica fosse di contribuire allo sviluppo economico e civile della società fornendo analisi empiriche accurate ed aperte ai contributi interdisciplinari, interpretazioni teoriche ancorate alla prospettiva storica e suggerimenti conseguenti di politica economica” (p. 19).

Canullo e Pettenati inoltre rielaborano l’analisi dei paesi GIPSI utilizzando i contributi degli altri autori. Fu proprio Fuà nel 1980 a individuare questo gruppo di paesi “ritardatari”, a cui aggiungeva la Turchia. Questi paesi hanno pochissime grandi imprese e un numero eccessivo di microimprese (fino a 10 addetti). Queste ultime, non solo non hanno le economie di scala proprie delle grandi dimensioni, ma innovano ed esportano con grande difficoltà. Inoltre la percentuale di lavoratori produttivi è troppo bassa; come basse sono la qualificazione del capitale umano, e la diffusione del capitale sociale (organizzazioni civili, senso civico, occasioni di partecipazione).

Infine “le piccolissime imprese sono quelle che negli ultimi 15-20 anni hanno subito di più le pressioni derivanti dalla globalizzazione. Esse sono state le più colpite sui mercati finali dalla concorrenza dei paesi emergenti e sono state spiazzate dai processi di delocalizzazione delle imprese più grandi di cui erano le tradizionali fornitrici di beni intermedi” (p. 29).

L’insieme di questi fattori costituisce un deficit di produttività, al cui confronto la domanda interna risulta eccessiva. Quest’ultima è stata alimentata dalla speculazione edilizia, in Irlanda e Spagna, o dalla spesa pubblica poco produttiva, in Grecia, Portogallo e Italia. Il deficit di produttività si è aggravato sempre più con l’ingresso nell’euro, il quale ha impedito di compensarlo con la tradizionale svalutazione della propria moneta.

Di conseguenza si è indebolita anche la cosiddetta social capability, cioè “il quadro politico e giuridico, il sistema di valori, la mobilità sociale, l’istruzione, la disponibilità di infrastrutture” (v. nota 4; il concetto di social capability, di Fuà viene richiamato nella Lezione magistrale di Draghi). E ciò ha depresso l’iniziativa imprenditoriale.

Canullo e Pettenati richiamano ad esempio l’«Innovation ecosystem» delle aree più avanzate, che dovrebbe essere il nostro modello organizzativo: “Questi sistemi sono caratterizzati da una stretta rete di collaborazione, in parte formalizzata ed in parte informale, tra i principali protagonisti del processo di innovazione: università, centri di ricerca e di sviluppo aziendali, organi di governo ed enti pubblici locali, studi professionali, associazioni di categoria, banche ed altri intermediari finanziari. Lo scopo di queste reti è promuovere la formazione di capitale umano, la ricerca, l’innovazione (di prodotto, di processo, organizzativa, di mercato), il trasferimento della tecnologia, la creazione di infrastrutture fisiche e digitali, la fornitura di servizi professionali alle imprese, il finanziamento sia di start-up di imprese innovative sia di spin-off aziendali e universitari” (p. 32).

Naturalmente è importante proporre questi modelli. Ma, per evitare pericolose illusioni, va ricordato che l’Italia in particolare è lontanissima da quel livello di organizzazione sociale. L’atavica sfiducia verso lo stato e le istituzioni, gli interessi privati che spesso dominano nelle istituzioni e nella politica, il conseguente individualismo e la ricerca sistematica di posizioni di rendita, rendono molto difficile creare quelle che potremmo chiamare le “infrastrutture sociali” necessarie allo sviluppo.

Un altro concetto importante di Fuà, che Canullo e Pettenati riprendono, è questo: “nei paesi ricchi, scrivono, è importante preoccuparsi non soltanto della produttività del lavoro e del salario, ma anche, se non di più, del senso di «alienazione, frustrazione, pena o – al contrario – soddisfazione» [parole di Fuà] che si ottiene dal lavoro” (p. 34). I due curatori legano questo concetto alla necessaria razionalizzazione dell’assistenza del welfare state analizzata da Paci. In effetti l’Italia è ancora un paese ricco, almeno per ora, e la sua produttività del lavoro dipende non soltanto dall’efficienza tecnica, ma anche dalla gratificazione che il lavoro assicura. 


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