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I rebus del voto in Regno Unito

Creato il 06 maggio 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Davide Vittori

A poche ore dalle aperture delle urne nel Regno Unito, l’esito della tornata elettorale, stando almeno ai principali sondaggi, è ancora incerto e lo scenario di una nuova alleanza tra due – o più – partiti per ottenere la maggioranza assoluta dei seggi, come già accaduto nel 2010 tra Conservatori e Liberaldemocratici, e prima ancora nel 1977 tra questi ultimi e Laburisti, appare tutt’altro che remoto. Un fatto inconsueto, soprattutto per il maggioritario del tipo plurality, del Regno Unito, dove nei collegi uninominali il seggio è attribuito a turno unico a chi ha la maggioranza relativa dei voti. Questo tipo di legge elettorale tende a ridurre il numero dei partiti e a favorire la conservazione dei “seggi sicuri”, dove la contesa con gli oppositori è minima. La conseguenza è che la maggioranza assoluta dei 650 seggi del Parlamento sovente finisce ad appannaggio di un solo partito. Lo scorso appuntamento elettorale, al pari di questo, tuttavia, dimostra come le leggi elettorali possano, sì, indirizzare la competizione elettorale, ma è il contesto politico a determinarne l’esito.

Scenario Politico: la ribalta dei “piccoli”?

A tenere banco è infatti la questione delle alleanze tra i vari partiti, oggetto di diverse domande nel corso del dibattito del 16 aprile tra i candidati Premier. Domande “insolite” nello scenario politico inglese, prototipo del bipartitismo, ma che sono divenute sempre di più insistenti con le proiezioni dei sondaggi di YouGov e Lord Ashcroft, i quali, pur indicando nella maggioranza dei casi i Conservatori quale primo partito, sono concordi nell’affermare che né il Labour né il partito di Cameron potrà ottenere una maggioranza assoluta nella House of Commons [1]. Per la terza volta dal dopoguerra ad oggi si verrebbe a creare il cosiddetto hung parliament.

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Possibili formazioni di governo – Fonte: The Independent

Per questo motivo potrebbero entrare in gioco forze “minori”, dislocate in Galles, Scozia e Irlanda del Nord. In quest’ultimo caso i due principali partiti “unionisti”, il Democratic Unionist Party (DUP) e l’Ulster Unionist Party (UUP) hanno formato una insolita alleanza in quattro circoscrizioni in Nord Irlanda. In due di queste, il seggio è occupato attualmente dallo Sinn Féin, il partito indipendentista di sinistra radicale. Con una proiezione di circa 8-10 parlamentari l’appoggio del DUP e degli alleati dell’UUP potrebbe risultare decisivo in un multi-party government: Peter Robinson, leader del DUP, non ha scartato la possibilità di entrare in una coalizione sia con i Tories sia con il Labour, nonostante l’accordo con entrambi i partiti comporterebbe un costo molto alto in termini di trasferimenti a Belfast e il rischio di trovare come alleato un partner scomodo sul tema dei diritti civili. Per il Labour un alleato potrebbe risultare il nordirlandese Social Democratic and Labour Party (SDLP) di Alasdair McDonnell, che però avrà un peso minore all’interno del Parlamento, al pari di Playd Cymru, il partito nazionalista gallese di posizioni moderatamente progressiste. In Inghilterra, invece, è la questione dello United Kingdom Independence Party (UKIP) a tenere banco. I sondaggi indicano il partito di Nigel Farage al terzo posto con una forbice del 12-15%, ma il sistema first-past-the-post – all’interno dei plurality voting system – scoraggia la presenza di partiti senza particolare radicamento nei collegi uninominali (come l’UKIP), in quanto la vittoria (e quindi il seggio) viene assegnato a turno unico al partito di maggioranza relativa. Per l’UKIP sarà dura ottenere un numero consistente di seggi e proprio Election Forecast accredita il primo partito inglese alle elezioni europee (27,5%) di un solo seggio alle politiche. Farage, candidato nel South Thanet, rischierebbe di non uscire vincitore dalla contesa nel suo collegio, promettendo le dimissioni da leader del partito in caso di non elezione. Lo UKIP, escluso da Westminster nel 2010, aveva ottenuto due seggi durante la legislatura a causa delle defezioni di due deputati conservatori, Marck Reckless e Douglas Carswell, entrati nelle fila del partito di Farage e capaci di riconquistare il seggio, subito dopo le loro dimissioni dal Partito Conservatore, rispettivamente a Rochester and Strood e Clacton. L’UKIP, quindi, sembra destinato all’irrilevanza politica stando ai più recenti sondaggi a meno di un accordo, improbabile, con una coalizione tra i Tories ed i Liberaldemocratici.

Proprio questi ultimi, guidati da Nick Clegg, sembrano destinati ad essere ancora l’ago della bilancia, pur andando incontro ad un netto calo di consensi rispetto ai 57 seggi conquistati in occasione delle elezioni del 2010 quando ottennero il 23% dei voti. Il calo in termini di consenso dei Liberaldemocratici, tendenzialmente il partito più filo-europeo [2] nel Regno Unito, è coinciso con l’ascesa dell’UKIP nell’ultimo quinquennio: una dimostrazione del fatto che il collegamento tra euroscetticismo e voto all’“estrema destra” [3] è solido tanto oltre Manica, quanto nell’Europa continentale [4]. Il supporto dell’opinione pubblica alla membership del Paese all’Unione Europea, dal 1992, è andato in calo, stando ai dati dell’Eurobarometro (figura 2), ma è tornato a crescere negli anni in cui i liberali hanno costruito il loro radicamento, in particolare dal 2003 al 2008/2009, per tornare a scendere con l’inizio della crisi economica e con effetti negativi sullo stesso appeal liberaldemocratico: nel 2010, il partito ha perso 5 seggi rispetto alla tornata precedente, non riuscendo a capitalizzare la crisi del Labour e del Governo di Gordon Brown [5].

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Negli ultimi cinque anni i liberali, a causa delle difficoltà incontrate all’interno del Governo Cameron e dei disaccordi tra il Primo Ministro e il suo vice Clegg, hanno anche continuato a perdere consenso in relazione alla sfiducia crescente dell’elettorato nelle istituzioni europee e sul ruolo di un’unione economica e monetaria in Europa [6]. Ciò non significa, in ogni caso, un rigetto tout court dell’appartenenza all’Unione Europea: la maggioranza degli elettori, difatti, si esprime ancora in favore della permanenza nell’UE, con quasi 20 punti di distacco rispetto a chi opterebbe per il withdrawal (figura 3).

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Il vero nodo per il futuro dei liberali sarà vedere se saranno in grado di garantire la maggioranza assoluta ai laburisti o ai conservatori; nel qual caso, il loro peso specifico potrebbe aumentare all’interno della coalizione di governo, anche se una riconferma della precedente formula di governo implicherebbe uno scontro sul referendum sull’appartenenza all’Unione Europea, che David Cameron ha promesso per il 2017.

Il nodo dell’SNP

La legislatura 2010-2015 è stata attraversata da un evento politico di enorme portata per tutto il Paese, il referendum sulla permanenza della Scozia nel Regno Unito. Al di là delle implicazioni del voto all’estero, la vittoria del NO al referendum, pur avendo decretato la sconfitta del leader del SNP, Alex Salmond, costretto a lasciare la leadership del partito all’indomani del voto, non ha affatto smobilitato il voto “indipendentista”: il partito scozzese si accrediterebbe in Scozia con il 54% dei voti e 55 seggi sui 59 disponibili, anche se l’istituto di sondaggi IPSOS/Mori non scarta l’ipotesi (mai riscontrata sino ad ora) del clean sweep, ossia la possibilità per lo SNP di vincere tutti e 59 i seggi. Sia nelle previsioni più rosee che in quelle meno favorevoli, l’SNP giocherà un ruolo di primo piano nel day-after delle elezioni, specialmente se sarà il Labour a prevalere sui Conservatori in termini assoluti. Miliband, dal canto suo, ha scartato l’opzione di un accordo con l’SNP, a causa delle radicali differenze sulla questione indipendentista, dove il Labour si era espresso assieme ai Conservatori per la permanenza della Scozia nel Regno Unito.

Ciò che è certo è che nel caso di un hung parliament nel quale i Liberali non hanno i numeri per risultare l’ago della bilancia decisivo per la formazione del Governo, l’SNP risulterà decisivo in tutti gli scenari possibili: come partner di coalizione, in caso di governo di minoranza di Laburisti o Conservatori o in caso di accordo con il Labour. E questo peso inciderà sia per ciò che concerne la devoluzione di poteri al Parlamento scozzese sia per la annosa questione, emersa durante la campagna elettorale con insistenza, del sistema missilistico nucleare Trident, che ha la sede operativa nella Base navale di Sua Maestà del Clyde (HMNB Clyde), in Scozia.

La premiership di Cameron nel Conservative – Liberal Democrat Coalition Agreement

Oltre che sul ruolo dei partiti “minori”, la competizione elettorale si giocherà anche su una complessiva valutazione dei cinque anni di governo passati che, come detto, hanno visto i conservatori allearsi con i liberali di Nick Clegg. Uno dei nodi centrali di questa alleanza è certamente il tema delle relazioni con l’Unione Europea.

L’attuale esecutivo britannico, nonostante l’impronta europeista offerta dai liberali, è stato sin da subito contrassegnato da una netta presa di distanza dalle modalità di approvazione del Trattato di Lisbona (2009). Gordon Brown, con lo European Union (Amendment) Act del 2008, aveva de facto approvato il nuovo Trattato con la semplice ratifica da parte del Parlamento, senza passare per un referendum. Lo stesso Brown, assente il giorno del voto, aveva lasciato la difesa della Legge nelle mani del futuro leader Ed Miliband. Lo European Union Act del 2011, al contrario, prevede che ogni cambiamento del Trattato sull’Unione Europea (TUE) e del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) sia soggetto allo scrutinio dell’elettorato. Anche le cosiddette “clausole passerella”, che consentono di discostarsi dalla procedura legislativa ordinaria senza un cambio formale dei trattati, dovranno essere soggette al voto del Parlamento. Da cornice a questa legge ha fatto l’accordo di coalizione sottoscritto dai due partiti, che si impegnavano, durante la legislatura in corso, a non cedere ulteriore sovranità a Bruxelles [7]. D’altronde nel discorso di David Cameron sull’Unione Europea del 2013 l’atteggiamento del Regno Unito nei confronti delle istituzioni sovranazionali si è confermato pragmatico, oltre ogni “sentimentalismo”, dovuto alla condivisione di un’identità europea:

I know that the United Kingdom is sometimes seen as an argumentative and rather strong-minded member of the family of European nations. And it’s true that our geography has shaped our psychology. We have the character of an island nation: independent, forthright, passionate in defence of our sovereignty. We can no more change this British sensibility than we can drain the English Channel. And because of this sensibility, we come to the European Union with a frame of mind that is more practical than emotional. For us, the European Union is a means to an end – prosperity, stability, the anchor of freedom and democracy both within Europe and beyond her shores – not an end in itself [corsivo aggiunto].

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Il discorso era già stato preceduto dall’ostruzionismo rispetto alla creazione dello European Stability Mechanism (ESM), che rimpiazzava i predecessori European Financial Stability Facility (EFSF) e lo European Financial Stabilisation Mechanism (EFSM), al di fuori delle istituzioni europee e, quindi, quale organizzazione internazionale con sede in Lussemburgo. Non solo, all’interno del Consiglio dei Ministri Cameron si è attivato per il congelamento del budget europeo (2014-2020): l’austerità imposta entro i confini nazionali deve essere tale anche per le istituzioni di Bruxelles, era il ragionamento proposto da Cameron durante le trattative dell’ottobre 2012. Sono stati i backbenchers conservatori ed il Labour ad alzare l’asticella delle richieste del Regno Unito a Bruxelles: in una tesa seduta nella House of Commons la maggioranza, composta dal Labour e da alcuni “ribelli” dei Tories è giunta a richiedere un taglio reale della spesa dell’Unione Europea. Un ragionamento che si è rivelato vincente nelle trattative in seno al Consiglio, all’interno del quale il Premier britannico ha minacciato anche di imporre il veto sulla proposta dell’ex Presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rompuy. Il risultato è un unicum nella storia dell’Unione Europea: tagli per 87,5 milioni di euro su un totale di 960 milioni. La sconfitta di Cameron in Parlamento si è rivelata una vittoria nelle trattative europee che si è ritorta contro i laburisti.  Il Labour, difatti, intendeva mettere pressione in Parlamento, sicuro che Cameron non avrebbe ottenuto un taglio del budget, cosa che invece è accaduta.

Non solo questo, il Premier nell’ottobre del 2014 – incalzato dai suoi backbenchers e anche dalla vittoria dell’UKIP alle elezioni europee di pochi mesi prima – si è rifiutato di versare sin da subito 1,7 miliardi di sterline che l’Unione aveva richiesto dopo la revisione al rialzo del PIL inglese. Infine, il Regno Unito ha contribuito al primo pacchetto di aiuti arrivato alla Grecia nel 2011 solo attraverso il Fondo Monetario Internazionale, limitando gli aiuti europei ai Paesi facenti parte dell’Eurogruppo.

Sul piano degli impegni elettorali, invece, i Conservatori hanno promesso un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, ormai divenuta “troppo burocratica e non democratica” prima della fine del 2017. Pur riconoscendo la portata e i vantaggi del Paese rispetto al mercato unico (e rispetto al TTIP), l’ipotesi di una “even closer union” nei diversi ambiti (dall’economia, alla politica estera e di difesa) viene rigettata in toto.  Proprio il referendum sull’Unione Europea è divenuto un tema di dibattito all’interno del Parlamento, dove per due volte la maggioranza Tory si è in parte ribellata. Nel primo caso, datato 2011, astenendosi su una mozione per la convocazione del referendum e nel secondo caso (2013) sostenendo una mozione che lamentava l’assenza di una menzione su tale referendum, durante il classico Queen’s Speech. Secondo il Telegraph «[t]he vote is believed to be the first time since 1946 that members of a governing party have voted against a Queen’s Speech, and reflects deep Conservative unhappiness over Mr Cameron’s Coalition deal with the Liberal Democrats».

Dove David Cameron ha incontrato l’ostacolo maggiore dei backbenchers è però la politica estera; in particolare la questione siriana. Sintetizzando, il Governo aveva dato la disponibilità di fronte agli alleati storici statunitensi (e con anche il placet francese) per condurre azioni aree contro il regime di Assad in Siria, accusato di aver impiegato armi chimiche contro i ribelli. La mozione presentata dal Governo è stata respinta con un margine di 13 voti, 285 contrari e 272 favorevoli. Una decisione che ha smorzato sul nascere la possibilità di intervento diretto di una forza di coalizione contro Damasco, ma che ha influito anche sulla possibilità che tali azioni potessero venire approvate in futuro, come nel caso ucraino, dove la posizione di Cameron è stata più cauta anche se ferma. Il Regno Unito, che ha sostenuto l’applicazione delle sanzioni nei confronti della Russia, ha approvato una missione di addestramento della Guardia Nazionale, insieme ad aiuti militari non letali. A differenza del caso siriano, difatti, non essendo mai state stabilite da parte degli alleati europei e nordamericani “linee rosse” invalicabili per la Russia e le forze separatiste del Donbass, l’agibilità politica di un intervento contro la Russia si sono ridotte al minimo e l’iniziativa militare britannica è stata piuttosto condotta di concerto nell’ambito della NATO (come le stesse operazioni di addestramento e il supporto alla creazione del Readiness Action Plan al Vertice di Newport testimoniano).

Sul fronte dell’economia e del welfare David Cameron si giocherà la rielezione e non è un caso che gran parte del manifesto delle elezioni di quest’anno sia dedicato a questi temi. Cameron può vantare, in questi ultimi mesi di campagna elettorale, un’economia che è tornata a crescere, con delle performance tra le migliori in Europa, anche se in calo rispetto all’ultimo quadrimestre 2014. In particolare, nel 2013 la crescita si è attestata ad un +1,7%, mentre lo scorso anno a +2,7%. Una crescita che i Conservatori, al pari dei Laburisti (che però giudicano tali tassi inferiori alle aspettative), vorrebbero favorire nel futuro mantenendo i conti sotto controllo, ossia evitando di spendere in deficit [8].

Uno dei provvedimenti più discussi del quinquennio Cameron-Clegg è stato il Welfare Reform Act del 2012. Una riforma che ha visto l’introduzione della “under-occupancy penalty”, ossia una multa per coloro che, beneficiando di un sussidio per la casa e avendo troppo spazio libero all’interno della stessa, non si premurano di occuparlo, dandolo in affitto. I laburisti, sostenuti anche dalle autorità ecclesiastiche, hanno ferocemente criticato il provvedimento, ribattezzandolo “bedrooom tax”, la tassa sul letto. Inoltre, oltre a trasferire molte competenze di controllo e di riscossione a livello locale, la riforma del welfare pone un tetto di 350 sterline di sussidio a settimana per il singolo e a 500 per la famiglia (anche se alcuni tipi di crediti sono esclusi dal conteggio totale, quale ad esempio le esenzioni per la mensa scolastica).

Una difficile rinascita: il Labour di Miliband

Ed Miliband è il principale competitor elettorale di David Cameorn. Eletto leader del Labour con un margine di circa 30.000 voti sul fratello David [9], ha raccolto la pesante eredità della parentesi al Governo di Gordon Brown.

I Laburisti, dopo la sconfitta alle elezioni del 2010, hanno iniziato un lungo cammino di ripresa del consenso elettorale, nonostante la batosta delle elezioni europee, che ha visto il partito giungere al terzo posto dietro l’UKIP ed i Conservatori. Già nel 2011, nelle elezioni locali, il Labour cresceva nei consensi: un successo si è poi consolidato nel 2012. Attualmente, la forbice che viene attribuita al Labour da electionforecast.co.uk oscilla tra il 29.0% e il 35,9%. Il 29% è la percentuale ottenuta da Gordon Brown alle precedenti elezioni, anche se rispetto alla vittoria di Tony Blair, il Labour aveva perso 91 seggi.

L’intento del Labour è chiaro: riprendere i voti della classe media, cercando di arginare al massimo l’emorragia di consensi che, come detto, sembra prospettarsi sul fronte scozzese, dove l’SNP viene dato per favorito in quasi tutti i 59 collegi. Il partito laburista, dopo essersi schierato a fianco degli unionisti (tra cui il partito conservatore) nel referendum per l’indipendenza della Scozia, ha perso importanti posizioni in una delle sue roccaforti ed è per questo che programmaticamente il partito si schiera a favore di una maggior devoluzione di poteri agli Stati del Regno Unito, non solo Scozia e Galles, ma anche Inghilterra e Irlanda del Nord.

Se il nodo del scozzese rimane un rebus insolubile per il Labour, per lo meno stando a quanto sostengono i sondaggi, il focus di Miliband è sull’economia, in particolare sui salari e sull’incremento delle diseguaglianze in tutto il Regno Unito, con i salari che “hanno subito il più grande calo in una legislatura dal 1874”. È per questo motivo e per ristabilire i servizi tolti dalla riforma del welfare che i laburisti propongono una tassa da 2 miliardi sulla proprietà, promettendo un impegno sull’evasione fiscale e l’accountability dei Paesi appartenenti ai British Overseas Territories e ai Crown Dependencies classificabili come paradisi fiscali. Una posizione, questa, che sembrerebbe spostare il Labour di Miliband più a sinistra, sulle posizioni di quello che è stato definito Blue Labour, un riferimento ideologico sempre più influente nelle sfere del partito e che si incentra su un maggiore controllo dello Stato sulla finanza, ma che si distanzia dalle posizioni sul welfare “continentali”, poggiandosi maggiormente sulle comunità di base quali fornitrici di servizi fondamentali alla persona. Quanto queste idee e proposte saranno apprezzate dagli elettori del Regno Unito lo stabiliranno le urne.

Conclusione

Mai come in queste elezioni l’incertezza sul risultato finale regna sovrana. Difficile fare pronostici per i sondaggisti, che però danno per assodata la riproposizione dell’hung parliament. Né il Labour né i Conservatori sono accreditati della maggioranza assoluta dei seggi: questo riporta in auge i partiti minori che storicamente sono stati i principali “sconfitti” dal sistema elettorale vigente [10]. L’indisponibilità di Miliband ad accordarsi con l’SNP sembra bloccare una possibile alleanza vincente (con l’eventuale aggiunta di altri partiti minori o, eventualmente, i liberaldemocratici), che peraltro garantirebbe la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea ed escluderebbe il referendum proposto dai conservatori prima della fine del 2017. Con un’economia più salda, tuttavia, David Cameron può puntare a conquistare la maggioranza relativa e garantirsi il first attempt per formare un nuovo governo.

* Davide Vittori è OPI Contributor

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[1] Su 650 Membri della House of Commons, i Conservatori vengono stimati da Electionforecast.co.uk, a 280 seggi, mentre i Laburisti a 270 e l’SNP a 47. I Liberaldemocratici otterrebbero 27 seggi.  La probabilità di un hung parliament viene data al 97%.

[2] La leadership di Nick Clegg non ha mai fatto mistero del suo filo-europeismo: durante la campagna elettorale delle scorse elezioni europee proprio Nick Clegg ha coniato la frase “Pro-Europeans are the real reformers now”, includendo ovviamente se stesso tra tali riformatori.

[3] Si utilizza il termine estrema destra nell’accezione fornita da Piero Ignazi in Ignazi P., (2000), L’estrema destra in Europa, Bologna, Il Mulino.

[4] Per una riflessione sul collegamento tra voto all’estrema destra e euroscetticismo si veda. Werts H., Lubbers M. e Scheepers P., (2013), Euro-scepticism and radical right-wing voting in Europe, 2002–2008: Social cleavages, socio-political attitudes and contextual characteristics determining voting for the radical right, European Union Politics, vol. 14 no. 2: 183-205.

[5] Secondo i sondaggi del Sunday Times, condotti da YouGov, a dicembre del 2009 il 66% degli elettori si dimostrava insoddisfatto per i risultati come Primo Ministro di Gordon Brown. Si veda http://ukpollingreport.co.uk/leaders/brown.

[6] Ad oggi, la maggioranza della popolazione è a favore della permanenza nell’Unione Europea, ma le più recenti rilevazioni dell’Eurobarometro (numero 80, autunno 2013) danno gli elettori del Regno Unito tra i più sfiduciati rispetto al futuro dell’Unione Europea (quint’ultimi in Europa) e rispetto all’unione economica e monetaria (ultimi).

[7] Si veda il programma sottoscritto: The Coalition: our programme for government in https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/78977/coalition_programme_for_government.pdf

[8] Conservatives, The Conservative Party Manifesto 2015, versione pdf, p.7. Si può leggere nel manifesto: “Five years ago, the budget deficit was more than 10 per cent of GDP, the highest in our peacetime history, and the national debt was rising out of control; today, the deficit is half that level and debt as a share of national income will start falling this financial year”.

[9] Nelle leader primarie del partito viene utilizzato il sistema denominato Istant Runoff Voting per cui il conteggio è più complicato della semplice discrepanza tra il primo e il secondo arrivato.

[10] Da notare che nel 2011 si è tenuto un referendum per cambiare lo storico sistema elettorale britannico (majority-plurality) a favore dell’Alternative Vote. Seppure si sia raggiunto il quorum necessario (40%) sia stato raggiunto, hanno prevalso i NO.

Photo credit: www.crowdfunder.co.uk

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