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Idelfonso Nieri, La parlata lucchese

Da Paolorossi

Intitolo questo libretto Racconti Popolari Lucchesi, perchè la materia è presa pari pari di mezzo al mio popolo ed io non ho inventato niente; ma la dicitura l'ho rifatta di mio, conformandomi pienamente all'indole e al parlare del mio popolo, in cui son nato e ho passato tutta la prima parte della vita, studiandolo continuamente in tutte le manifestazioni del pensiero, cogliendo dalla sua bocca tutto il giro delle sue Tradizioni, compilandone il Vocabolario; onde ho la presunzione d'aver fatto mia non solamente la sua parlata, ma, quello che più monta, la sua maniera di sentire e di manifestare gli affetti.

Qui non c'è parola, non forma, non frase, non costruzione, non modo proverbiale nè proverbio, che non sia usato dal mio popolo, popolo, dico, vero popolo: servitori, manovali, braccianti, fabbri, muratori, legnaiuoli, calzolai, donniciattole, sarte, vecchiette e vecchietti campagnuoli, contadini; e contadini specialmente, che ormai sono tra i pochi rimasti a parlare un briciolo d'italiano che garbo abbia.
[...]

Veramente molti credono che per imitare il parlar del nostro popolo basti troncare gl'infiniti dicendo: portà, vedé, sentí, lègge; scambiare l'elle coll'erre dicendo: quarcosa per qualcosa, carcagno per calcagno; storpiando sconciamente o ridicolosamente certe parole, come: refúbbria, bafore, omo di fibbia forte per repubblica, vapore, uomo di fibra forte, e specialmente fognando affatto il c duro e dicendo la 'osa, la 'asa, una mi' amia.
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Ma il fatto è ben altro da quello che credono, perchè l'essenza del linguaggio veramente popolare sta nella forma della mente, nella costruzione della frase, nella imbastitura del periodo, nella proprietà delle voci, nella ricchezza dei modi, nella vivacità delle metafore e in generale nell'italianità del vocabolario, ci sia poi non ci sia spesso la precisione della così detta grammatica, l'ortografia e la retta pronunzia.
[...]

Certo si è che non v'è parte della grammatica del vocabolario o della pronunzia la quale non abbia popolarmente due o tre maniere per lo meno e quasi sempre è in uso, nell'uso vivo, anche la forma pulita, cioè grammaticale o una a quella vicinissima.

Così per es. dicesi realmente: Andorno, Andonno, Andón, Anderono, Anderno, Andenno, Andéttino e in altre guise ancora, e dicesi pure Andarono; si dice Bigna, Gna e Mia, e si dice pure Bisogna da tutti comunemente; si dice Il can, el can, er can, er cane e si dice pure Il cane, e così un numero sterminato di forme che non basterebbe un tino d'inchiostro a tutte riportarle, chi volesse esaminare tutte le categorie grammaticali: articoli, pronomi, coniugazione, formazione di plurali, comparazione, nomi alterati e via dicendo.
[...]

Io dunque mi sono giovato di quella forma mezzana propria del popolo e del parlare pulito, come usa qui da noi, sempre quando ci era, accostandomi alla grammatica, quale oggi si vuole; ho conservato però la maniera popolare ogni qualvolta quella letteraria mi avrebbe falsato il tuono alla casalinga del racconto e ridotti i miei campagnuoli a cruscheofoiare come tanti accademici.

Perciò non ti maravigliare se troverai: lui e lei in caso retto; gli dat. sing. e plur. maschile e femminile; suo sua suoi e sue invece di loro; con seco invece di con lui o con lei; A me mi pare, a te ti ci vorrebbe un bel frustone; l'e parimente pleonastico in varie forme di proposizioni comparative, ipotetiche e temporali in senso di anche, allora; il più premesso ad una parola già comparativa come: più meglio, più inferiore; la concordanza del verbo singolare con un soggetto plurale, sempre per altro quando esso soggetto è posposto, come in quel luogo di Dante: "Di quella scheggia usciva insieme - Parole e sangue". Inf. XIII, 43-44.

L'uso della forma maschile ne' tempi composti del verbo col soggetto femminile, come in questi esempi del Macchiavelli: "Non s'è mai trovato repubblica; Non è prestato loro fede"; quella forma di periodo anacolutico che i grammatici chiamano di Nominativo assoluto, com'è questo del Boccaccio: "Il Zima vedendo ciò gli piacque" e l' "Io... mi pare" famigerato di G. Villani; quell'altra bella figura, per cui si deve ricavare il soggetto da un verbo o altra cosa precedente, com'è quel luogo di Dante Inf. XXV, 136: "Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto"; l'oratio historica che tutto a un tratto, senza che paia, diventa drammatica; e specialmente poi l'uso del pronome relativo popolare formato ne' casi obliqui coll'aiuto del dimostrativo o del pronome possessivo, o cogli avverbi dove e ci ed in altri modi ancora; ché veramente questa parte è quella dove più ha patito avarie la lingua odierna in confronto di quella del Trecento; e tante altre cosette più o meno diverse dal filo della pura grammatica.
[...]

Questo genere popolare toscano ha molti fautori in Italia, ma non manca di avversari, anzi, diciamo pure di nemici e ne ha sempre avuti; onde le troppo note contese in altri tempi, alle quali pare abbia imposto silenzio Alessandro Manzoni. Gli sono avversari in modo speciale quelli che chiamano il Toscano un dialetto come tutti gli altri e come dialetto vorrebbero che fosse trattato, cioè fuggirne tutte le peculiarità, usando solamente ciò che può essere inteso da tutti gli altri Italiani. A me naturalmente pare che non dicano bene; ma, essendo qui ora io giudice e parte, non sentenzio; chiedo solo che mi scusino, se cerco di piacere a quegli altri.

Gli sono avversi anche i grammatici puri, che spiritano ad un terminònno per terminarono, benché dantesco; a un fussin per fossero, benché del Petrarca; a un arò per avrò, benché del Machiavelli; a un volse per volle, benché di tutti questi, non che del Tasso; e non consentirebbero mai che una pagina dello sgrammaticato Cellini valga per lo meno nove decimi della letteratura grammaticale di quest'ultimo mezzo secolo, persuasi come sono che grammatice loqui e latine loqui sia tutt'uno.

Questi però, pensino che il pane non si giudica coll'occhio dalla forma in cui si presenta o di pagnotta o di ciambella o di piccia o di filoncino, ma col dente e col palato, dalla qualità della farina ond'è fatto.
[...]

( Idelfonso Nieri, dalla Prefazione al proprio libro "Cento racconti popolari lucchesi", 1908 )

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