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Il bagatto

Da Francibb @francibb

Tamara P., in arte Selene, entrò nella stanza semibuia. Accese la luce.
Le chiavi le caddero di mano.
Le raccolse guardando la pendola. Si rialzò sbilanciandosi e si proiettò in un trotto sincopato verso la grande scrivania. Il corallo sintetico delle sue unghie convulse s’avventò sull’agenda.

Tre e mezzo, appena in tempo – artigliò la pagina che patì, stridendo.

Si sedette. Lo scatto del pignone fece vibrare il meccanismo delle campane tubolari zittite dai feltri. Erano solo le due.

Respirò a fondo, a lungo, poi si rialzò lisciando la gonna, tirandola un po’ di lato per nascondere una piega. La sua cliente sarebbe arrivata e l’avrebbe trovata così, odorosa di lenzuola e di mani, di carne che l’aveva avvolta, di labbra che l’avevano legata, riempita. E confusa.
Eppure mai come allora aveva sentito labbra pronunciare parole che la facessero sentire così sicura e riconosciuta.
Si guardò attorno e nel suo impudico compiacimento, sorrise.
Aprì la borsa, scartò due gomme da masticare passandosele sui denti, rovistò e trasse un sacchetto di raso rosso che posò sulla scrivania. Accese le candele.
Mai avrebbe rinunciato al rituale di purificazione delle sue lamine, anche avesse dovuto far aspettare i suoi consultanti.
Roteò il mazzo sopra il benzoino con ampi gesti, offrendo i Tarocchi alle danze della resina.
Il fumo acre e piccante ordì lusinghe fra i suoi riccioli e le accarezzò la nuca. Iniziò quindi a ordinare il mazzo.
Posò sul panno blu il re di danari e compose a ritroso tutto il seme e così, per tutte le altri arcani minori.
Quando posò anche l’asso di bastoni, aprì a ventaglio le carte che rimanevano e cominciò a sfilare a una a una le lamine degli arcani maggiori.

Mondo, Giudizio, non me ne preoccupo, Sole, usciremo allo scoperto, Luna, gli inganni sono finiti, Stelle, ufficializzeremo, Torre, romperemo tutti gli schemi, andremo addosso a tutti i pregiudizi, Diavolo, siamo legati, Temperanza, ci compenetriamo, Morte, tutto il vecchio morirà, è l’inizio di una nuova era, Appeso, il sacrificio è valso, Forza, Fortuna, io me lo merito, Eremita, Giustizia, Carro, Amanti, Papa, siamo noi l’ Imperatore e l’Imperatrice, io sola la Papessa.

E rimase così, con una sola lamina in mano.
La lamina del Matto che, con il suo sorriso sbrecciato, la guardava da dietro la spalla mentre il randagio rognoso gli addentava i calcagni. L’incosciente, che non si curava di dove stesse andando, trasalì all’urlo che rimbalzò per la stanza e se ne precipitò, con tutti i suoi stracci, giù dalla mano di Tamara.
La cartomante sparpagliò il mazzo dei Tarocchi con le mani che tremavano. Dov’era l’inizio dell’opera? Il principe dell’arte divinatoria? L’aveva confuso forse con una delle carte di corte?
I bracciali tintinnavano isterici.

Dov’era?

Dov’era finito lui e il tavolo a tre gambe, i suoi giochi di prestigio e la sua fiera bacchetta che, sfrontato e sicuro, esibiva alta?

Conosci l’UNO e conoscerai il tutto.
Ma dov’è il Bagatto?

Rovistò dentro la borsetta. Poi ghermì nuovamente l’agenda.
Tre e mezzo. No, non c’è più tempo.

Le tre e mezzo strisciarono e con calma risalirono ad ogni ticchettio, i tacchi, i talloni, i polpacci di Tamara, immobile statua in centro allo studio.  Lambirono il suo ventre e infine esplosero nel petto facendola sussultare, quando bussarono alla porta. La cliente era in ritardo.

Il consulto fu frammentato, sintetico e alla preoccupazione aggiunse malumore.
La ragazza che arrivò per la lettura delle carte non aveva voluto dirle nulla: né il suo segno zodiacale, né il suo nome.

Mi chiami Artemide – disse.

Non aveva abbandonato il suo vezzo nemmeno quando Tamara le aveva chiesto se nella ricevuta avrebbe dovuto mettere come indirizzo l’Olimpo. Forse non aveva capito, meglio: non gliel’avrebbe fatta.

La reticente Artemide, in compenso, la aveva ubriacata di domande, con quella la sua boccuccia inghirlandata di uno sfatto rossetto arancio. Toccava le carte, voleva sapere il significato di ognuna, la obiettava con dei “ma però” e la disorientava.

La ragazzetta era innamorata di un buzzurro come lei, e voleva sapere come sarebbe andata a finire.

Male andrà a finire – le avrebbe voluto dire, quando comparve il sedicesimo arcano, ma davanti allo stupito “Sarà un colpo di fulmine?” di lei, sentendosi in colpa per un consulto orfano del Principe Azzurro, le mentì.

Fu la visione dei due sciagurati che precipitano fra lingue di fuoco che si ricordò che poche ore prima, nella frenesia del suo amore di pausa pranzo, la borsetta le si era rovesciata nella camera del solito albergo. Tagliò corto, congedò la dea impiastricciata, e dopo aver calcolato e ricalcolato il tempo che avrebbe impiegato per allontanarsi dallo studio e rientrare per il cliente successivo, tornò in albergo.

Alla reception non c’era nessuno. Odore di soffritto e clangore di stoviglie provenivano dal fondo di un corridoio dalle piastrelle a fiori verdi. La chiave era appesa. La prese.
La stanza era vuota. Tutto era come l’avevano lasciato qualche ora prima. Accese l’abatjour, guardò sotto il letto. Un paio di calzini blu che giacevano scomposti sul nastro di luce tagliato dalla persiana semichiusa, la gelarono. Andò alla poltroncina dove solitamente buttava il soprabito e infilò le mani fra la seduta e lo schienale.
Percorse entrambi i braccioli. Trasse le mani inorridendo per le unghie impolverate e cercò di togliersi qualcosa che le era entrato sotto quella dell’anulare.

Rossa in viso rimosse con forza il cuscino. Lo slancio sollevò la polvere e qualcos’altro, che cadde a terra e rotolò per un po’, facendo risuonare il vuoto del pavimento ricoperto di laminato. Non se ne preoccupò molto: davanti ai suoi occhi c’era il Bagatto.

Piegato in due, ma con la coppa d’argento, la spada d’acciaio e il siclo d’oro, intatti.

Mentre lo stirava e lo torceva per aggiustarlo, notò una piccola scatola blu rimasta adagiata sul fondo della seduta oramai divelta.
L’aprì.
Vi trovò dentro un anello.
Un leggero, delizioso anello, con una pietra incastonata.
Serrò le labbra per non sorridere o per non piangere. Chiuse forte gli occhi e sentì il cuore pulsarle nelle orecchie. Fra i battiti sentì anche un rumore di ghiaia e motore provenire dal cortile.

Ributtò la scatola e rimise il cuscino sulla poltrona. Indietreggiò rompendo qualcosa che scricchiolò come un guscio di un uovo rotto sotto i suoi tacchi. Non si girò. Non aveva più tempo.

Delle misteriose lingue di fuoco arancione inseguirono i suoi passi rapidi e corti. La tallonavano come fuochi fatui facendola correre. Rimasero impresse, grasse e sfacciate nella loro persistenza, nella moquette color cammello del corridoio dell’albergo.

Per settimane la cameriera ai piani maledì il suo nuovo fidanzato d’averle rotto il rossetto preferito e aver sporcato il corridoio. Lui negava, si scherniva e rideva del suo reclamare. Era disordinato, goffo e perennemente in ritardo ma l’amava. Gliel’aveva detto la cartomante.

foto di Christian Kettiger

(per pura, pura scaramanzia)(di cosa so ben io)

:

“Vivian vivachiava a scrocco in corte,
con tutti alzando il fianco a corpo sciolto;
Guicciardo, Alardo mai uscir le porte
di Montalban, che no li fussi tolto;
mastro di spirti e bagatelle a sorte
fu Malagigi, e cangiò forma e volto,
come fean mastro Iaco e mastro Muccio
in Roma trarre’ ognun fino al cappuccio”

 

:

(Canto Primo, 24 - Astolfeida, Opera delettevole da leggere che contiene la Vita e Fatti de tutti li Paladini di Francia e di dove nacque la casa di Maganza e chi fu Gano e di che genti condizione fu la sua Genologia cosa bellissima d’Amore e gran Bataglie di Orlando e di Rinaldo – Pietro Aretino)


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