Dall’archivio del Bar Frankie, pubblicazione originale del Novembre 2012.
Quando Nils Liedholm sostituì Carlos Bianchi, sulla panchina della Roma, pensai che, almeno per la conclusione del campionato, si poteva tirare un sospiro di sollievo. E fui decisamente ingenuo, non c’è che dire. Perché anche messa nelle solide mani del Barone, la Roma che fino ad allora era stata guidata dall’ex allenatore del Vélez, non poteva certo aspettarsi una pur piccola rivincita su un campionato che, fino ad allora, era stato disastroso. Liedholm la salvò dalla Serie B alla quartultima giornata, ed era già tanto. Di più, si può dire che era tutto.Tutto quello che poteva fare. Fu lui stesso, qualche anno dopo, a parlare, sulla rivista ufficiale dell’A.S. Roma, di quell’esperienza, dicendo che in effetti si era ritrovato per le mani una squadra dove semplicemente non avrebbe avuto senso parlare di gioco a zona o di strategie di fondo, ma era necessario ricompattare lo spogliatoio e salvare il salvabile.
In questo senso, Liedholm era l’opposto di Zeman. Tanto è l’idealismo – e, per certi aspetti, l’utopismo – di quest’ultimo, tanto era il sano pragmatismo del Barone. Cogliere la situazione ed agire nella maniera più opportuna possibile: questo era il suo atteggiamento. D’altro canto, però, pragmatismo e disponibilità a ragionare secondo le opportunità offerte dalle situazioni non hanno mai reso Liedholm un semplice opportunista, ed anzi sarebbe davvero un’ingiustizia immaginarcelo come un predecessore di Fabio Capello. Al contrario, da allenatore della Roma (non la Rometta di Carlos Bianchi, ma la Roma di Falcao, Conti e Di Bartolomei costruita da Dino Viola) ricevette l’offerta di passare alla Juventus, e rifiutò replicando, nel suo italiano sempre influenzato dai suoni gutturali tipici della natia Svezia, che lì vincere sarebbe stato “troppo fascile”. Ed anche quando, da tecnico del Milan – al quale consegnò lo scudetto “della stella” -, iniziò le sue, per così dire, “sperimentazioni” sul gioco a zona, lo fece sapendo di dover superare le ataviche diffidenze di un calcio storicamente catenacciaro come quello italiano.
E forse l’immagine più adeguata per comprendere la figura di Liedholm ci viene suggerita proprio dalla parola “sperimentazioni”, mutuata dal lessico scientifico. Perché se Zeman è un sognatore e Capello un manager, il grande Nils è stato uno scienziato del calcio. Ciò che sarebbe accaduto in campo, per lui, era come la verifica di un’ipotesi di lavoro alla quale aveva lavorato con passione, ma che agevolmente avrebbe messo da parte per sostituirla con un’altra qualora l’esito fosse stato negativo o che, con altrettanta naturalezza, avrebbe cercato di perfezionare in caso di riscontro positivo.
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Il risultato più notevole di queste sue sperimentazioni fu quella che egli definì la “zona lenta”. Perché per giocare come i brasiliani di Pelé e gli olandesi di Cruyff occorrevano Pelé e Cruyff, ed anche perché non in ogni campionato la loro “zona totale” avrebbe potuto funzionare. Occorreva “rallentarla”, ovvero renderla adatta al campionato italiano. Scelta, questa, che suscitò le perplessità di un Gianni Brera, per il quale veloce o lenta, totale o parziale, la zona, in Italia, non avrebbe mai preso seriamente piede. Ma, a distanza di trent’anni, possiamo dire che fu Liedholm ad aver ragione e ad aver individuato una pista che in seguito avrebbe consentito alla nostra massima serie di guadagnare in spettacolarità e piacevolezza.
Perché per il Barone non era tanto il giocatore, ma la palla a dover correre. E cioè: non era sul fiato, ma sulla mente e la coordinazione dei calciatori che occorreva impostare la propria strategia di gioco. In questo modo Agostino Di Bartolomei – che aveva tutte le qualità possibili, ma non certo la velocità – si trasformava, da discreto centrocampista dal tiro potente, in elemento decisivo di una Roma capace di vincere lo scudetto ed arrivare fino in finale in Coppa dei Campioni. E Paulo Roberto Falcao, che era un campione pur non essendo assolutamente un fromboliere, diventava la mente pulsante della squadra, svolgendo la funzione di coordinatore in campo (quasi un secondo allenatore) di un gruppo che doveva ragionare come se fosse una cosa sola.
Dopo Liedholm fu la volta degli Eriksson e dei Sacchi, che integrarono le sue innovazioni con l’introduzione di un pressing altissimo e di uno stile di gioco decisamente più aggressivo. Segno dei tempi, e cioè segno delle trasformazioni in atto in uno sport che, col passare dei decenni, si sarebbe caratterizzato sempre più in senso offensivo. Ma, oltre che segno dei tempi, queste innovazioni sono anche la trasformazione di una novità che solo lo spirito pragmaticamente spregiudicato di Nils Liedholm era riuscito ad immettere in un calcio che aveva, tra i suoi “numi tutelari”, maestri dell’arroccamento difensivo come Nereo Rocco ed Helenio Herrera.