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Il blues di Francesco Guccini

Da Iannozzigiuseppe @iannozzi

di Iannozzi Giuseppe

Non ho mai negato di essere sfegatato ammiratore di Francesco Guccini, poeta assoluto, scrittore superbo. Certe volte mi fa rabbia, rabbia perché non so scrivere come sa lui, con modestia e pregnanza omerica. Ma questo è un altro discorso, mentre ciò che mi preme in questa sede è di parlare dell’ultimo romanzo del Cantastorie, “Cittanòva Blues” uscito per Mondadori nella collana Scrittori Italiani e Stranieri (SIS).

Il blues di Francesco Guccini
Prima di affrontare “Cittanòva Blues” è d’obbligo fare un passo indietro, quando Guccini diede alle stampe un romanzo superbo, “Cròniche Epafàniche”: ebbe a dire Pier Vittorio Tondelli a proposito di questo primo lavoro di Francesco Guccini: “…con Cròniche Epafàniche (1989), la cui fruizione non sarà molto agevole, né massimamente comprensibile, a chi non ha esperienza del dialetto emiliano o, per essere più precisi, delle parlate tosco-modenesi che costituiscono la lingua di queste sue nuove narrazioni. Ma sarà una lettura anche divertente e interessante per chi coglierà, fin dalle prime righe, la voce profonda e arrotondata del nostro sommo cantastorie, vedrà la sua immagine, coglierà la sua ironia. Le battute, la sentimentalità vera di tutto un percorso e un lavoro artistico. Leggendo ripenso a Radici, a certi concerti in cui Guccini raccontava di Pavana e dell’Appennino, e già imbastiva, davanti al pubblico, i ricordi e gli aneddoti di un modo di vita, di un’infanzia che nel romanzo, oggi, sembra un po’ quella selvaggia di Tom Sawyer. La campagna, il fiume, il mulino, la descrizione degli ambienti della casa, le piccole leggende di paese, gli animali, gli oggetti di uso quotidiano, la bottiglia per macinare il sale, la marmellata nelle “tinozzine di legno chiaro”, l’uccisione del maiale, l’emigrazione, le cassette di mele e pere che profumavano i solai e le cantine per tutto l’inverno, le uova conservate nella calce… tutto questo non viene riportato alla ribalta del racconto con demagogia o perbenismo o la becera filosofia del “quando eravamo povera gente”. La miseria è miseria. La fatica, la povertà, anche la promiscuità di intere famiglie costrette a vivere nelle stesse stanze non hanno niente di poetico, né di aulico, e nessuno le rimpiange. Guccini preferisce fare di tutti questi ricordi una materia linguistica viva e narrata. Riesce con la sua capacità di cantastorie e cantautore a dare musicalità ai ricordi, ai modi di dire, ai personaggi. E così agisce sulla nostra memoria. Perché queste Cròniche sono potentemente reinventate sulla pagina e, nonostante l’accuratezza filologica, la scrittura è condotta su modelli letterari ben rintracciabili: cronache popolari, certo, ma anche il parlato selvaggio di certi narratori americani, lo slang degli anni sessanta e, perché no, anche la lingua immaginaria e carnale di un Rabelais.” E l’autore, Francesco Guccini, spiegò così il suo primo romanzo: “Sono storie di Pavana il mio paese, che si dipanano sul filo della memoria. Il racconto parte dalla vecchia casa dove abitavo, un mulino ad acqua. Come genere letterario potrei definirlo un falso minimalismo”. L’ideale seguito di Cròniche Epafaniche è “Vacca d’un Cane” pubblicato per i tipi Feltrinelli.

Oggi, a distanza di tanti anni, la trilogia nata sull’Appennino, attraversando in lungo e in largo i colli modenesi, si conclude con “Cittanòva Blues”.
“Cittanòva Blues”, come indica il titolo, è un lungo blues poetico che accoglie dialetto, gergo, modi di dire, giochi di parole: è un blues che non si piange addosso e che ritrae con estrema sapienza poetica gli anni Sessanta, i sogni di quegli anni, le illusioni, le vittorie e le tante sconfitte sociali e politiche, e la musica anche: “… e fabulando del più e del meno gli avevi fatto la proposta, verresti a suonare con noi? Abbiamo un complesso così e così (allora si chiamavano complessi, ed erano di là da venire i tempi dei gruppi, e poi quello delle band, coma la band d’Affori). E lui, a piedi con altri sgobbi, scioltisi oramai i favolosi Golden Rock Boys (pensa tè) aveva accettato, con signorile superiorità.” (da Cittanòva Blues)
Francesco Guccini è un narratore nato, e con “Cittanòva Blues” ha dimostrato per l’ennesima volta di non essere secondo a nessun scrittore italiano che alza la voce per dichiararsi tale. Guccini è anche uno scrittore, però non ce lo fa pesare, canta e scrive quando ne ha voglia. E tanto fa. “Ma io a comporre canzoni non ci pensavo proprio… sono sempre stati gli altri a venirmi a cercare, cominciando dall’Equipe 84 e dai Nomadi. Da ragazzo sognavo di fare il giornalista, al limite lo scrittore”, dichiara il cantautore quasi imbarazzato con assoluta modestia. Ed ecco “Cittanòva Blues” che racconta tragicomiche vicende di sesso più sognato che vissuto, ma anche le sventure del servizio militare, la ripresa degli studi universitari dopo la leva, i tentativi con la musica e i libri: «Altroché la mia prof delle magistrali coi suoi “notate l’eleganza del panneggio”! L’italianista Ezio Raimondi parlava come se niente fosse di Bildungsroman, pronunciava oscuri termini francesi come langue e parole. Ero piovuto in un altro mondo».

Si aspettava questo libro da più di dieci anni. L’ansia è stata grande per molti, e nell’attesa ci siamo trastullati e ampiamente divertiti con le magistrali avventure del maresciallo Santovito scritte a quattro mani con Loriano Macchiavelli; recentemente il cantautore ha dichiarato che “non credo che continueremo. Il nostro maresciallo Santovito, che abbiamo portato a spasso dagli anni Quaranta ai Settanta attraverso l’Italia in trasformazione, è ormai troppo vecchio per misurarsi con l’attualità”.
Immaginiamo Bologna immersa negli anni Cinquanta, la Bologna che prometteva tutto e niente, quella che è poi diventata “una vecchia signora dai fianchi un po’ molli/ col seno sul piano padano ed il culo sui colli,/ Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale,/ Bologna la grassa e l’ umana già un poco Romagna e in odor di Toscana… / Bologna per me provinciale Parigi minore:/ mercati all’aperto, bistrots, della “rive gauche” l’ odore/ con Sartre che pontificava, Baudelaire fra l’assenzio cantava / ed io, modenese volgare, a sudarmi un amore, fosse pure ancillare”; ed immaginiamo gli anni Settanta sempre a Bologna, immaginiamo i musici degli anni Sessanta, una Bologna di lirici e comici picareschi… immaginiamo ancora la prima Cinquecento (il ‘Centoscudi’), la garconnière (il ‘tràppolo’), la naia, le osterie di fuori porta; ed immaginiamo ancora e d ancora i sogni, i miti di allora, gli ‘andati’ e gli ‘arrivati’, chi si è perso per strada, chi invece si è dato via (s)venduto al business. Tutto questo è “Cittanòva blues”, un blues poetico con qualche rimpianto ironico ma sempre trattato con divertita ricostruzione affabulatoria. Siamo di fronte a un romanzo che è ‘grande’ Letteratura come non se ne vedeva da almeno un decennio a questa parte.

Francesco Guccini canta, attraverso la prosa in poesia, la sua biografia, che non è immersione in una identità solipsista: è invece respiro felice, un canto che avvolge tutti, perché la storia narrata è quella che ognuno di noi avrebbe potuto vivere se solo avesse prestato attenzione agli accadimenti del suo proprio tempo storico. Guccini racconta fatti che sembrano banali, quotidiani, e di fatto lo sono; ma Guccini è affabulatore geniale e traduce le semplici storie vissute sulla pelle in ‘storie narrate’ che vivono “di” e “con” sé stesse, attraverso lo spirito omerico che l’autore ha loro insufflato. Se un altro scrittore, o sedicente tale, avesse provato a raccontare la sua biografia, con tutta probabilità, avrebbe messo nero su bianco timide parole ridicole e forse tendenti alla paranoia. Tuttavia lo stile del Cantautore non è quello dei ‘tre semplici accordi’, o meglio, è anche questo, ma è soprattutto la capacità, non comune, di saper gestire magnificamente un pantheon di emozioni eventi ricordi, in una soluzione espositiva poetica, profondamente umana ed ironica.
Non si deve pensare a “Cittanòva blues” come a un canto disperato, è semmai vero il contrario: è prosa che riecheggia nelle passioni antropologiche di Guccini indagatore della natura, è poesia che mastica la lingua e il gergo per travolgere il lettore in un mondo storico-sociale che ‘è stato’ e che però non è stato dimenticato, ed il risultato è una sorta di dagherrotipia colorata a mano. E la mano che l’ha colorata è sapiente, estremamente. La semplicità dei tre accordi c’è e c’è pure la potenza evocativa dell’affabulatore che è (anche) poeta per natura.
Con “Cittanòva Blues”, Francesco Guccini è riuscito a dar vita ad un tempo passato senza arroccarsi in inutili e melensi rimpianti. E il Cantautore così scruta nelle goffaggini, nelle durezze, nell’inerme euforia della giovinezza dipingendo dagherrotipia di una provincia nella quale è impossibile non riconoscere sé stessi, l’attualità sociale che fu; ed anche e soprattutto gran parte della provincia italiana degli anni Sessanta, di una intera generazione vittima e carnefice dei suoi pregi e difetti.
Dagherrotipia nulla affatto in posa di una intera generazione, che ha influenzato – forse in maniera determinante – le successive, che ha lottato, che ha sognato sogni impossibili e che ha anche prodotto tanti errori, in questo romanzo omerico si ritroverà perfettamente ritratta, senza ceroni né lifting né parrucche. Guccini non produce facili esaltazioni né ritrattazioni, né invocazioni nostalgiche né bilanci amari dettati dalla nostalgia, ma molto più semplicemente le dissonanze degli anni Sessanta.
Francesco Guccini si consegna alla storia della grande Letteratura Italiana e non, con modestia assoluta.
“Cittanòva Blues”, un romanzo da avere, leggere, meditare, da assaporare parola dopo parola, pensiero dopo pensiero, episodio dopo episodio.

Cittanòva blues – Francesco Guccini – Mondadori – Oscar bestsellers n. 1485 – Pagine 224 – Prezzo € 9,00 – ISBN 8804536578


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