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“Il cappotto di Proust” di Lorenza Foschini

Creato il 10 marzo 2011 da Sulromanzo

Il cappotto di ProustDalla finestra del suo albergo a Balbec, in un’estate abbagliante e piena di sole, il protagonista dell’opera Alla ricerca del tempo perduto (siamo nel secondo volume, All’ombra delle fanciulle in fiore, il più radioso e vibrante di giovinezza), che poi altri non è che Marcel stesso, guarda sfilare nella lontananza assolata un gruppo (la petite bande) di ragazze. Come dirà poi il Narratore, le petites jeunes filles appaiono come la rappresentazione simbolica e concentrata della “fuga delle innumerevoli passanti” che da sempre turbano la sua immaginazione. Proprio da questa visione fugace, che tuttavia si imprimerà significativamente nella memoria del protagonista, scaturisce il tema del desiderio, che serpeggia a volte malinconico, a volte morboso e divorante, nel corso di tutta la Recherche.

E come nasce il desiderio nella fantasia del Narratore della Recherche? Un baluginìo nell’aria, una sagoma luminosa che rincorre azzurre lontananze, il suono di una voce, il suo tono basso e inconfondibile, tanto da essere da subito desiderato e rimpianto come se lo si fosse da sempre conosciuto. E spesso, nelle situazioni proustiane, il desiderio nasce al di là di un ostacolo, che può essere una finestra che separa, ma che nello stesso tempo ingrandisce e focalizza l’immagine, o una lontananza temporale, come negli innumerevoli rimpianti del Narratore verso l’irrequieta Albertine, o ancora al di là di un ostacolo affettivo, che può essere l’Altro che divide, o una infinita gelosia tormentosa.

Trovo bellissimo, e segreto come un filo sotteso, questo tema del desiderio, di cui parla Luciano De Maria nella sua introduzione alla Recherche. Come trovo affascinante il percorso intessuto da Lorenza Foschini nel suo libro, Il cappotto di Proust, che, come recita la didascalia sottostante il titolo, è la storia di un’ossessione letteraria, definizione che gravita nella mia memoria interna, fatta di rinvii più o meno consapevoli, da quando ho iniziato a leggere questo libro.

Storia che si snoda come un romanzo, e prende l’avvio dall’emozione di un ritrovamento. Storia di un oggetto abbandonato a se stesso perché ritenuto vecchio e inutile, ma poi recuperato ed esposto in tutta la sua logora e commovente fragilità: non un cappotto, ma il cappotto di Proust.

A parte il fatto che già il nome mi evoca, sull’onda della memoria letteraria e delle ossessioni che ne conseguono, un altro Cappotto, tutto letterario e narrativo, cioè quello di Gogol. Anche quello, nella trama consunta e logora, nella vecchiaia fisica della stoffa, mostrava le finitezze umane e la vita vissuta dell’impiegato di Gogol, tanto da dover essere prontamente rimpiazzato, pena la perdita dell’impiego. Così come il cappotto di Marcel Proust mostra proprio tutta quella sua debolezza della vita, insieme alla maniacalità che l’ha reso grande nella parola letteraria e nello sviscerare il suo universo, o meglio come lui lo vedeva.

L’autrice stessa fornisce la chiave di lettura iniziale, e a quel punto il viaggio del lettore prosegue come un’inchiesta, un’investigazione, in cui però sono gli oggetti stessi a rincorrersi nella storia, fino a fornire lati inaspettati, punti di vista occultati dal tempo e dalla Storia, dove emergono volti e personaggi, storie di grandezze e di piccinerie, di chi ha dimenticato quegli oggetti, di chi non li ha capiti, o di chi ha poi pensato di trarne una fonte di lucro. In tutto ciò emergono anche le figure di chi li ha amati, come Jacques Guérin, che da profumiere imprenditore diventa anche collezionista, spinto dal desiderio irrazionale di impadronirsi di quei simulacri di realtà e di passato.

“Mi avvicino lentamente a piccoli passi, sorridendo per l’imbarazzo e mi accosto al tavolo. Davanti a me c’è il cappotto, adagiato sul fondo della scatola, posato su di un grande foglio come su di un lenzuolo: irrigidito dall’imbottitura di carta che lo riempie, sembra davvero rivestire un morto. Dalle maniche, anch’esse imbottite, escono ciuffi di velina. Mi sporgo di più, piegandomi sul piano di metallo dove è poggiata la scatola, mi sembra che vi sia al suo interno un fantoccio senza testa e senza mani. Pieno, corpulento, con un ventre sporgente.”

Così, in queste righe, leggiamo l’emozione dell’autrice stessa, il viaggio che in prima persona lei ha intrapreso faccia a faccia con l’universo e l’immaginario proustiano, che si manifesta innanzitutto come ricerca di oggetti. Penso alle sue aspettative, di lettrice di Proust, e forse, come lo scrittore, innamorata del potere materico ed evocativo degli oggetti, e alla sua emozione nel vedersi davanti quel cappotto che Marcel ha sempre voluto portare con sé: “…in cui Proust si è avvolto per anni, che giaceva sulle sue coperte quando sdraiato scriveva la Recherche”, cosicché trascorrono pochi minuti ma lei non riesce a staccarsene – pochi minuti a fronte di anni – perché in quell’involucro sbiadito dalla sagoma umana, quasi un totem che nasconda uno spirito vivente, sembra di vedere Marcel, e la sua ossessione di voler indossare per sempre lo stesso cappotto di ragazzo, nell’illusione di rimanere, per sempre, un eterno adolescente e di fermare il Tempo.


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