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IL CAVALLO DI TORINO: Fino ai confini del cinema…

Creato il 26 marzo 2013 da Wsf

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In una pianura desolata nei dintorni di Torino (ma potrebbe essere anche nel mezzo del nulla…),  in una fattoria in abbandono, un vecchio cocchiere dal braccio destro paralizzato vive con sua figlia completamente ritirato dal mondo.
La  vita di padre e figlia scorre lenta e monotona,  ritmata soltanto dalla cadenza di gesti modesti, reiterati nella profondità del silenzio.
Essa si accorda a quella del loro vecchio cavallo sfinito, di cui Nietzsche qualche giorno prima a Torino, accorgendosi che il padrone lo stava battendo, aveva preso le difese.
Dopo questo incidente – all’apparenza banale – Nietzsche cadrà nel pozzo della follia da cui non riuscirà più a riemergere e l’ordine naturale delle cose subirà una scossa che porterà il mondo della finzione filmica ( e non solo…) a uscire dai propri cardini.
Un vento di tempesta si é alzato e adesso soffia impetuoso sulla pianura. Il cavallo, rinchiuso nella stalla, rifiuta di muoversi quindi di mangiare. Vuole abbandonarsi a una morte lenta e dolce.
Quando il pozzo definitivamente si secca, padre e figlia cercano di abbandonare la fattoria: invano, perché una forza minacciosa e invisibile li costringe a ritornare sui loro passi.
La profezia del vicino, che qualche giorno prima aveva fatto loro visita, sembra realizzarsi: ” La notte prenderà il posto del giorno, e poi essa stessa avrà fine”.

Il gesto del cineasta ungherese é qui -  in questo suo testamento cinematografico -  più che mai gemello a quello di un grande pittore di argomento sacro. Pittore di Apocalissi.
Tarr non fa infatti che dare vita a differenti quadri della medesima scena. O meglio: Egli dipinge la stessa immagine con ripetuti colpi di pennello con l’intento di arrivare a conferirle il giusto volume e il giusto spessore per imprimerla durevolmente nell’anima dello spettatore.
In veste di ancella philosophiae la musica sostiene questa espressione tessendo una trama di sottili variazioni – in sottofondo un quasi perenne basso cupo e salmodiante – come se fossero degli strati sovrapposti l’uno all’altro.
Contaminazione in fieri di suoni gravi e melanconiche melodie d’organo, la musica si confonde con i lamenti ininterrotti del vento per distillare una tensione sorda e angosciante che nessuna concreta minaccia interviene per infrangere.

Il virtuosismo di Tarr, abile nel dirigere una camera da presa oscillante e magnetica ( che ricorda il primo Tarkovski e il Ruiz più cartesiano) cesella dei piani sequenza in movimento di una fluidità assoluta.  
Non dimenticherete tanto in fretta la sequenza in cui il cineasta cattura il vostro sguardo per proiettarlo – attraverso la finestra – sul paesaggio, per poi indietreggiare e lasciar apparire l’uomo sedutovi di fronte, e adagiarsi infine sulla spoglio arredo dell’interno della casa. Movimento di avvicinamento rapido e rapido allontanamento attraverso cui l’artista ci inghiotte letteralmente nelle profondità della sua tela-pozzo.
Il piano inquadrato diventa una sorta di quadro animato, un affresco curato fin nei più minuti dettagli.
Qualcuno potrebbe addirittura pensare che l’albero che si staglia sulla linea dell’orizzonte di questo quadro desolante sia stato piantato direttamente dalla mano di Bela Tarr…

Il grande respiro del film, la sua naturale ciclicità, l’assenza di azione drammatica, fanno sì che ogni spirito vagabondo si possa perdere nell’immagine, fino a smarrire il senso domestico di ogni realtà.
Nella retina dello spettatore si fissano indelebili atmosfere, visi, sensazioni, gesti : un intero universo racchiuso in una cascina in un bosco nel bel mezzo del nulla.
E anche quel vento che ci resta nelle orecchie, ininterrotto, minaccioso, che non cessa di spazzare un paesaggio desertico nel quale ineluttabilmente si cancella ogni figura umana.

Malgrado qualche ellisse che potrebbe rendere il film di non facile accesso, la pazienza di ogni spettatore-iniziato sarà ricompensata nel corso del film da un sentimento fortemente pacificante: la dolce melanconia che inonda poco a poco il Cavallo di Torino ( tanto il film quanto l’animale protagonista) crea un effetto di bizzarra serenità, come di una coltre di nebbia che ricoprirebbe l’intero universo.
Nasce infatti da questa marcia funebre cadenzata e soffice una forma di soddisfazione inattesa, quella di aver trionfato su un film esteticamente sublime, la cui ragion d’essere non é tanto la proiezione ma la durata: quella di un tempo fuori da tutto, di queste due ore e mezza scomparse in un abisso profondo sul ciglio della quale abbiamo resistito la violenta attrazione che ci spingeva a sprofondarcisi per sempre…

Bela Tarr é un autentico talento visionario, degno seguace di Blake e Petrus Borel, ma con in più un’inconscia vertigine monastica che l’avvicina al suo collega russo Sokurov.
Entrambi fanno dei film che danno l’impressione di svolgersi sotto i vostri occhi, nell’immediatezza dell’ hic et nunc, e che tuttavia sembrano uscire dai recessi più profondi di una biblioteca dimenticata o di un archivio borgesiano.

« Grazie all’arte invece di percepire un mondo solo, il nostro, possiamo vederlo moltiplicarsi a dismisura e finché esisteranno degli artisti originali avremo a nostra disposizione altrettanti mondi, diversi l’uno dall’altro più di quelli che ruotano nell’infinito e che molti secoli dopo che si sia spento il focolare da cui emanavano, si chiami esso Rembrandt o Vermeer, ci inviano ancora il loro raggio speciale ».

Questa frase di Marcel Proust, alla fine del Tempo Ritrovato, si attaglia perfettamente al questo Cavallo di Torino e all’opera tutta di Bela Tarr.

 


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