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Il cinghiale e l’architetto di Giovanni Floris: una lettura. E sul perché ho fatto il tifo per il cinghiale.

Creato il 10 luglio 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

cinghialedi Rina Brundu. Navigavo su Amazon con lo spirito solo leggermente sgravato dalla magra consolazione che mi offriva il vedere come, su quella libreria digitale, Le colpe dei padri di Alessandro Perissinotto, avesse ristabilito le  legittime distanze da Resistere non serve a niente di Walter Siti, il testo che dentro le imperscrutabili dinamiche determinanti il destino della letteratura italica, ha vinto il Premio Strega 2013. Una magra consolazione, appunto, un dato minimo non sufficiente a farmi passare completamente l’incazzatura provata durante quei giorni (non sto parlando della PMS), ma neppure così irrilevante da giustificare la mia agitazione, quel vago nervosismo, che, lo sapevo, mi avrebbe portato a farmi ancora del male.

Il fatto è, mi dico, scusandomi, assolvendomi, che non avevo mai letto nulla dello scrittore Giovanni Floris, noto conduttore di successo del programma Ballarò, per intenderci quel presentatore che ride sempre (e chi non lo farebbe al posto suo?), ha una dentatura eburnea a 64 denti, tutti brillanti, tutti smaglianti e percorre 100 chilometri con una singola puntata. Ma forse, continuo a giustificarmi, sarà stata colpa di questo scampolo di estate irlandese, imbrogliato da un calore soffocante e atipico. O forse è stata colpa di questo cappero di Kindle dove basta un click per realizzare ogni tuo desiderio scritturale. O quasi. Sta di fatto che infine ho scaricato Il cinghiale e l’architetto – Come natura e cultura faranno ripartire l’Italia di Giovanni Floris, un e-book della collana I corsivi edita dal Corriere della Sera. Questo mi ricorda che dovrò pure mandare una lettera di protesta all’editore, causa la cattiva impaginazione, l’editing approssimativo, le footnotes che compaiono un poco dove vogliono nel testo, e qualche altro grave erroruccio scritturale, ma lo faccio più tardi.

Per intanto voglio parlare del cinghiale di cui al titolo, o meglio dei cinghiali, che sono comparsi fin da subito nella narrazione; ovvero, in quel momento topico in cui l’eroe Floris – in vacanza con la famiglia in una località del Sud della Sardegna, pardon, presente in Sardegna perché invitato ad un convegno –  si trova a ponderare sulle conseguenze di uno scampato pericolo.  “Capii quanto fossimo andati vicini al disastro:” scrive infatti l’autore mentre fugge, immagino, nel suo Suv “vedemmo uscire i cinghiali, infuriati, da un buco della rete che recintava il cortile”. Dopo attenta considerazione la mia opinione è che a muovere l’ira dei cinghiali non sia stato tanto il loro essere stati disturbati nell’ordinaria siesta per venire trasformati in oggetti da museo esposti alla curiosità dei signorini cittadini, quanto piuttosto una sorta di premonizione, un incantamento che, alla maniera dei maiali orwelliani, li ha trasformati per un fuggevole istante in esseri dotati di coscienza e di coscienza letteraria, soprattutto.

Scagli la prima pietra, infatti, colui o colei che non ce l’avrebbe avuta con Floris se, dopo essere stato/a costretto/a, senza colpa alcuna, alla figura dell’anti-eroe, venisse pure consegnato all’immortalità in un testo puntellato da incisi quali: “Provarono anche ad inseguirci. Anni di vita e di lavoro nella capitale finiscono col vaccinarti contro un sacco di cose, ma non ti attrezzano per far fronte a un cinghiale, inferocito”. Per quanto mi riguarda è stato dunqe il primo capitolo a marcare il giro di boa: da quel momento in poi ho fatto un tifo sfrenato per il cinghiale, metafora polisignificante, spesso ossimorica, secondo Floris, dell’Italia e di quella Sardegna selvaggia che conserva le sue risorse in sé, che volendo può uscire dalla rete e fare una differenza. Così, mercé questa mia fascinazione con la fauna autoctona, fascinazione che risale ai tempi della mia infanzia nell’isola, ho continuato nella lettura, ho cercato il cinghiale dovunque, curiosa di verificare i suoi piani per una possibile e giusta vendetta.

Purtroppo però, da quel punto in poi, il cinghiale è quasi sparito dal testo. Sostituito da una noiosa vena scritturale condita con tanta autoreferenzialità e da costrutti pseudo-economici eco-sostenibili in salsa contadina che quasi mi pareva di stare a mangiare una minestra della nonna. Alla maniera di Santoro, Floris non si è fatto mancare le dovute citazioni dall’opera omnia del Premio Nobel Paul Krugman (lavorano alle sue dipendenze? Il dubbio mi assilla!), il quale Krugman avrebbe pure scritto  “aumentare la spesa pubblica, anche a costo di indebitare ulteriormente il Paese, è l’unico modo per rimettere in moto la macchina economica”. Citazione per citazione non sono mancate quelle dal pensiero di Federico Rampini (ricordato come Rampini in un punto e Ranpini in un altro), l’editorialista di Repubblica.  Ecco dunque l’improbabile excursus californiano, a sondare le motivazioni che avrebbero portato la California al suo miracolo economico, passando dalle ragioni della nuova chiesa dei poveri incensata da Papa Francesco al sogno dei monaci hacker lucani, al datato cancro sociale della “fuga dei cervelli”, all’idea delle smart-cities, tanto cara all’architteto (ricordiamo, infatti, che era pure lui uno degli eroi del titolo!).

Ma “Il mondo delle idee non basta: l’architetto può sognare, può anche progettare, ma ad aspettarlo fuori dal villagio c’è sempre un cinghiale”, sentenzia Floris. Ottimo, mi sono detta! E io ho continuato ad aspettarlo, però dell’irascibile bestia ancora nessuna traccia. Sono comparse, tuttavia, come in una sorta di flash-bulb fantozziano, direbbe Perissinotto, tracce delle eco-asine di Castelbuono di Palermo dove il sindaco avrebbe “sostituito gli apecar della nettezza urbana con gli asini”. Ad un tempo, continuavano a punteggiare lo scritto i soliti incisi conditi con tanta saggezza-del-tempo-che-fu “L’Italia è unita davvero e deve restarlo”, nonché tracce di aforismi che avrebbero-potuto-essere (se fossero stati pensati e scritti meglio):  “L’economia è il vincolo di realtà: quello che la  politica deve accettare se vuole trasformare l’esistente”.

Enfin - in conclusione di ciò che mi è sembrato uno scritto tratto da qualche presentazione preparata per questo o quell’altro convegno (domanda: ma se anziché aumentare le spese come, a leggere Floris, vorrebbe il Premio Nobel Krugman, si dicesse basta, once-and-for-all, a tutti gli inutili convegni organizzati per motivazioni più o meno futili, tesi alla celebrazione della guest-star mediatica di turno e a lustrarsi per luce riflessa, siamo davvero sicuri che qualche soldino in più non resterebbe in saccoccia per realizzare progetti meritevoli e sensati?) – e laddove l’autore arriva all’inevitabile conclusione circolare, esplicitata dal sogno, legittimo, di un futuro migliore, sburocratizzato a livello europeo, se non globale, per i suoi figli, ecco finalmente ricomparire il mio amatissimo: “Perché cinghiali e architetti hanno una cosa in comune, sono mammiferi. Non dinosauri destinati all’estensione”.

Forse. Forse cinghiali e architetti hanno davvero qualcosa in comune. Io però continuo a restare affascinata dalle loro differenze e, a lettura finita, debbo confessarlo, un altro dubbio irriverente mi assilla: ma cosa sarebbe successo se i cinghiali usciti dal buco “della rete che recintava il cortile” avessero agguantato l’immarcescibile conduttore di Ballarò? Ah, saperlo!

Featured image, uno dei cinghiali che hanno inseguito Floris, o un parente inc… perché lui non c’era. Fonte Wikipedia.

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