Magazine Attualità

Il comunismo cinese è maoista? No, disneyano

Creato il 26 gennaio 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Ultimi articoli

220px-Walt_disney_portraitdi Michele Marsonet. Viste le ultime notizie è impossibile resistere alla tentazione di aggiungere qualche ulteriore noterella circa la presunta natura “comunista” della Repubblica Popolare cinese. L’occasione è ghiotta poiché, finora, si era parlato di singoli esponenti del regime arricchitisi a dismisura a spese dei comuni cittadini. Caso emblematico quello di Bo Xilai, arrestato, processato pubblicamente a tempo di record e condannato all’ergastolo. Anche se all’estero si ebbe la sensazione – per non dire la certezza – che si trattasse di una faida interna tra le varie correnti del partito.

Ora però è una vera alluvione, e gran parte dei dirigenti – attuali e del passato – risultano non solo straricchi, ma addirittura intestatari di lucrosi conti bancari in tipici paradisi fiscali dell’Occidente. Proprio quell’Occidente dal quale una recente direttiva del PCC invitava i cinesi a guardarsi denunciandone le malefatte.

Si rammenterà che l’anno scorso il presidente appena nominato dal plenum Xi Jinping sottolineò l’esigenza di recuperare le radici comuniste del sistema politico e sociale, ormai contaminato in profondità dalla diffusione di simboli e stili di vita tipicamente occidentali. Secondo la nuova leadership cinese era insomma necessaria un’ennesima “grande svolta”, in grado di rilanciare la sobrietà che di solito si attribuisce a un ordinamento che – almeno sul piano verbale – al comunismo non ha mai rinunciato.

Le Isole Vergini sono un territorio britannico d’oltremare, circa 40 isole nelle Antille i cui abitanti sono tuttora sudditi della Regina Elisabetta. Famose per due motivi: la bellezza naturale che le accomuna alle altre isole caraibiche, e il fatto di essere un grande paradiso fiscale. Fin qui nulla di nuovo.

Tuttavia si è scoperto che ben 22mila dei conti offshore presenti nelle banche delle isole suddette sono intestati a cinesi. Non si tratta però di cinesi qualunque, bensì di cittadini “speciali” che fanno direttamente parte della nomenklatura del partito o che a essa sono comunque contigui.

Ma non è finita. Tantissimi i nomi davvero eccellenti che hanno conti diretti o, più spesso, intestati ai loro familiari. Si va dai parenti dello scomparso Deng Xiaoping a quelli di Li Peng, anche lui ex presidente e principale fautore della repressione di piazza Tienanmen, dai familiari dell’ex premier Wen Jiabao a quelli – si noti bene – dello stesso Xi Jinping.

E questa è la notizia più succosa, poiché ha un conto offshore pure il cognato del suddetto Xi il quale, appena diventato nel 2013 presidente della Repubblica Popolare e segretario generale del partito, ha lanciato una campagna di moralizzazione senza precedenti promettendo di porre termine alla corruzione dei vertici. Abbinando tra l’altro alle dichiarazioni ufficiali atti concreti, per esempio frequenti pasti consumati nelle mense popolari o negli equivalenti cinesi dei fast food (rigidamente esclusi, per ovvi motivi, McDonald’s, Kentucky Fried Chicken e consimili pur presenti in gran numero in Cina).

Ricordo di aver provato, nel corso di un recente viaggio di lavoro a Pechino, una certa (e forse ingenua) sorpresa quando un collega italiano mi disse che eravamo invitati a cena a casa di una “miliardaria cinese”. “Possibile?” – mi sono chiesto. Tutto vero. I miliardari cinesi esistono davvero, e sono pure tanti (pochi solo nel totale dell’immensa popolazione che ammonta a un miliardo e 380 milioni di individui). E si ha ora la conferma che sono sempre collegati al partito in modo diretto o indiretto.

Per farla breve i cosiddetti “principi rossi”, discendenti di coloro che affiancarono Mao nella “lunga marcia”, e i loro parenti, assomigliano tanto ai vituperati tycoons occidentali, con conti offshore e fortune stratosferiche. Oppure – ancor meglio – al Paperon de’ Paperoni di disneyana memoria.

Che ne è, quindi, della stretta ideologica annunciata con grande clamore mediatico dall’ormai celebre “Circolare numero 9”, destinata ad allertare quadri del partito e opinione pubblica circa i “pericoli” provenienti dall’Occidente capitalista? E dove finirà l’altrettanto strombazzato “ritorno al marxismo”? Alle Virgin Islands britanniche, probabilmente, con grande soddisfazione degli gnomi della City londinese che gestiscono i conti offshore dei “clienti” cinesi.

Lecito chiedersi fin quando potrà durare una simile situazione. Anche perché Pechino ha subito bloccato i siti online dei tanti giornali occidentali che hanno dato la notizia, ma attraverso Hong Kong simili news filtrano comunque sul continente. Non sarebbe meglio rinunciare una volta per tutte all’etichetta “comunista” e riconoscere con onestà che la Cina di oggi, col marxismo, c’entra come i cavoli a merenda? Altrimenti i capi dovranno prima o poi riconoscere che il loro è un comunismo alla Walt Disney.

Featured image, Walt Disney.

Tagged as: Attualità, cina, comunismo, crisi, digital journalism, Esteri, Giornalismo online, giornalista digitale, michele marsonet, opinioni online, Politica, Rosebud - Giornalismo online

Categorised in: 1, Esteri, Michele Marsonet, Tutti gli articoli


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :