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Il Congo: uno scandalo geologico

Creato il 18 marzo 2011 da Bitmag

Nell’est del paese continua la guerra per il coltan, minerale chiave dell’industria hi-tech

Nord Kivu - Est dell’immensa Repubblica Democratica del Congo (RDC). Una regione grande
da sola quanto la Francia. È qui che si sta combattendo, da più di 15 anni, una guerra sanguinosa,
crudele e senza bandiere. Una guerra troppe volte spiegata con motivazioni etniche, tanto care agli
osservatori occidentali esterni, che nasconde in realtà dinamiche ben più complesse, articolate e che
ci riguardano da vicino.
In questo angolo di mondo, infatti, si trovano i maggiori giacimenti di un metallo sconosciuto al
grande pubblico, il coltan, indispensabile per l’industria hi-tech (telefonia, computer etc.). Una
polvere grigiastra, estratta da immense miniere a cielo aperto dove lavorano, instancabilmente e
senza alcuna forma di diritto, migliaia di persone. Disperati senza altre alternative che, sotto gli
occhi severi anche di molti militari dell’esercito congolese in affari con i diversi gruppi di sedicenti
ribelli che scorrazzano liberamente nell’area, sventrano la terra per portare alla luce questo prezioso
minerale.
La guerra, la ricchezza, la pesante eredità lasciata sul territorio dal genocidio del confinante
Ruanda del 1994 che comportò la fuga di migliaia di persone di etnica hutu coinvolte nei
massacri, e poi ancora il collasso della trentennale dittatura cleptocratica di Mobutu nel 1997 e la
conseguente “prima guerra mondiale africana” che ha trasformato l’intero paese in un immenso
bottino di guerra da divedersi tra eserciti invasori, hanno portato le Nazioni Unite a dispiegare sul
territorio la più grande missione di peacekeeping mai realizzata nella storia: la MONUC. Centinaia
di milioni di dollari, spesi ogni anno, e che non hanno portato a risultati tangibili e confortanti.
Tutto questo è il Nord Kivu, parte di quello “scandalo geologico”, così come fu definito il Congo
dai colonialisti belgi sul finire dell’Ottocento, e che subisce la maledizione comune a tanti altri stati
africani troppo ricchi per vivere in pace.
Da anni nel Nord Kivu le ricchezze del suo sottosuolo sono protagoniste di fiorenti e fruttuosi
traffici illeciti che dalla RDC prendono la via del Ruanda ed arrivano a Kigali, la capitale del
piccolo stato centroafricano. Nell’ultimo rapporto di esperti dell’Onu risulta che, a distanza di quasi
5 anni dalle elezioni che hanno portato alla presidenza della Repubblica congolese Jospeh Kabila,
parte delle Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC) sono coinvolte a vario
titolo nei traffici illeciti transazionali di coltan in combutta con i diversi signori della guerra locali.
Il rapporto, uscito il 29 novembre 2010, infatti sottolinea come, nonostante la ritirata di gruppi
armati di “ribelli”, parte dei ranghi dell’esercito ufficiale congolese, in particolar modo quelli
provenienti originariamente dal Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP) – fondato
da Laurent Nkunda, generale dei ribelli arrestato da un’operazione congiunta congo-ruandese
nel 2008 e attualmente indagato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra – si sono
di fatto sostituti agli altri gruppi armati che controllavano le miniere, traendo immensi guadagni
dallo sfruttamento delle risorse naturali della regione. Una situazione preoccupante, difficile da
affrontare e che ha costretto lo stesso Presidente Kabila ad ammettere l’esistenza di vaste porzioni
dell’esercito congolese coinvolte in attività illegali e violenze di ogni tipo sull’inerme popolazione
civile.
Così l’11 settembre 2010 Kabila ha decretato una sospensione indefinita delle attività minerarie del
Nord Kivu. Una scelta drastica, tentativo di bloccare il commercio illegale di risorse naturali ma
che, stando alla valutazione sia della vasta rete missionaria che opera nella zona sia degli esperti
di Global Witness (organizzazione che si occupa del contrasto ai traffici illeciti), ha comportato di
fatto solo il blocco dei piccoli commerci che nascono a margine di quelli più grandi gestiti da vere
e proprie organizzazioni mafiose che non sono state bloccate dal decreto. Tanto che il Presidente ha
revocato recentemente il divieto emanato a settembre.
Il problema che riguarda il commercio illegale di coltan, così come tutti i traffici illegali che
concernono le risorse naturali, soprattutto se in zona di guerra, è quello della tracciabilità
della catena commerciale. Una catena che va dal territorio in cui il coltan viene estratto sino ai
consumatori finali, passando per i grandi agglomerati industriali situati al di fuori della Repubblica
Democratica del Congo che sono i destinatari del minerale. E se le zone di guerra sono, per ovvi
motivi, difficilmente controllabili, si impone ancora più forte la stringente necessità che i controlli
avvengano a valle nei paesi ricchi.

dott.ssa Cristina Petrachi



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