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Raccontato sottoforma di diario, Il corpo dell’anima (1999) è un film che a dispetto di parecchi fattori – vedi la controproducente etichettatura erotica o la paternità tutta italiana che in tempi di esterofilia acuta può risultare un aggravante – riesce a sorprendere.
In un quadro in cui affiorano reminiscenze moraviane (La noia, 1960) e buzzatiane (Un amore, 1693) Salvatore Piscicelli narra della passione del signor Ernesto, uomo benestante e acculturato ex sceneggiatore cinematografico, nei confronti della procace Luana, giovane e disinibita cameriera alle dipendenze dell’uomo.
Privo di una originalità a livello dei contenuti, la pellicola vince nel territorio più difficile da conquistare, quello della forma. Che è dignitosissima, misurata, regolata così come l’esistenza di un anziano vedovo che non può chiedere più niente alla vita.
La voce off di Roberto Herlitzka, teatrante straordinario, con le sue dotte dissertazioni ontologiche, artistiche e in molti casi semplicemente umane, creano un netto contrasto con la sua avventura (perché questo è) nell’agitato mare di un amore impossibile. Da ciò ne deriva una compassione solida nei suoi confronti, reale empatia per quello che in fondo non è altro che un vecchietto con gli acciacchi dell’età.
Si staglia semplice la contrapposizione fra Teresa d’Avila, mistica religiosa spagnola santificata nel 1622, e Luana, l’inafferrabile giovinezza. La prima è il passato, una figura muliebre che Ernesto identifica con il lavoro, la dedizione, la voglia di non deludere l’amico regista. La seconda è un presente che non sarà mai futuro perché esso è l’unica cosa che Ernesto non ha; Luana è mistero, voglia di scoprire, estasi. L’anziano è combattuto fra queste due donne.
Nel corso della pellicola si potrà notare di come il disamoramento verso il film sulla santa corrisponda al cieco innamoramento con relativa perdita di dignità (si fa pisciare addosso) nei confronti della giovane ragazza. Con l’abbandono del progetto cinematografico, difatti, l’occhio di bue si concentra esclusivamente sulla coppia impossibile lasciando da parte gli sporadici incontri con l’odiosa nipote, Mauro il regista e l’amico montatore. Lo spazio per loro non esiste più, perché adesso l’unico spazio è occupato da Luana.
La vacanza a Ischia è il punto di non ritorno. Lontani dall’alcova che li aveva celati al resto del mondo, Luana ed Ernesto si trovano nudi in una realtà troppo stretta per la ragazza. Ischia è la personificazione dello sceneggiatore: un luogo fatto di ripetizioni, giorni e notti troppo uguali gli uni agli altri, ma allo stesso tempo è un luogo splendido, profondo, delicato. L’equilibrio, o la parvenza di esso, si spezza qui, e mette in evidenza la lontananza irriducibile fra due persone che comunque, in qualche modo, si sono volute bene.
L’incontro dopo due anni al tavolino di un bar è un momento intenso di cinema, semplice, non banale. Un tuffo nel ricordo scevro di quel dolore che il tempo ha sapientemente medicato, ma ancora vivido di rimpianti che Ernesto sa di non poter dire. E la conclusione della storia, una buona conclusione come il protagonista asserisce, assomiglia di più ad un congedo alla vita con quel campo lungo di spalle nel viale alberato.
Herlitzka è fenomenale. Raffaella Ponzo un po’ sopra le righe nel voler (o dover) “burineggiare” a tutti i costi.
Una visione che sorprende perché ribalta la percezione erotico-sempliciotta che si potrebbe avere leggendo la trama. Sentirete parlare ancora di Piscicelli da queste parti, statene certi.
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