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Il cuore è un uccellino su un ramo. La vita secondo Guareschi.

Creato il 16 settembre 2013 da Paolotritto @paolo_tritto
Il cuore è un uccellino su un ramo. La vita secondo Guareschi.

«La madre e il padre di Gigino lavoravano dalla parte opposta della città: partivano da casa la mattina presto e tornavano la sera. Gigino viveva, quindi, abbandonato a sé e, quando la scuola non lo teneva occupato, la casa era la sua strada».

Gigino è il protagonista, insieme alla sua banda, di un racconto di Giovannino Guareschi, di cui Rizzoli ha recentemente pubblicato una nuova edizione nel volume I racconti di Nonno Baffi. Il racconto si intitola La calda estate del pestifero e descrive la vita di quei ragazzini di città che, a causa dell’assenza dei genitori, vivono come abbandonati al proprio destino.

Io ho scoperto questo racconto piuttosto tardi. Perché quando fu pubblicato ebbe una vita, dal punto di vista editoriale, piuttosto agitata; credo a causa, soprattutto, della diversa percezione della storia da parte dell’illustratore rispetto all’autore. Finché la vicenda si risolse – per la gioia dei collezionisti – con il ritiro dal mercato del volume. Ma io ho sempre desiderato leggerlo perché avevo come un presentimento che questo libro dovesse assumere una particolare importanza per Guareschi, perché mi sembrava che ci fosse nei suoi scritti un costante, commosso tentativo di ritornare a quel Guareschi-ragazzo che lui stesso era stato.

La calda estate è appunto una “favola per bambini”. Fu scritta nel lontano 1967 ma con questa Guareschi, che era uno che sapeva guardare lontano, descrive perfettamente la realtà attuale dei nostri figli. Insomma, è una storia che sembra scritta oggi e che parla dei ragazzi di oggi, i quali «diventano come tanti pulcini che hanno perso la chioccia e si stringono l’uno all’altro, per scaldarsi fra loro». Ma Guareschi, con la sua grandezza, riesce a capovolgere radicalmente questa desolante condizione di figli abbandonati. E a porre il più sorprendente degli interrogativi: se i figli sono abbandonati al proprio destino, si può dire che il Destino abbia abbandonato i propri figli?

La storia di questi “pulcini che hanno perso la chioccia” viene condotta sapientemente fino in fondo, spingendola fino al Mistero. «La storia della calda estate di Gigino Pestifero e della sua ghenga» sarà dunque la storia di “ragazzi troppo soli” che, varcato l’estremo confine della periferia metropolitana, vagano alla ricerca di un luogo che possa offrire loro riparo nelle torride giornate estive. «Tenete presente» scrive Guareschi, «che la calda estate di cui intendo parlarvi era la più calda che, a memoria d’uomo, si ricordasse. E gli uffici meteorologici, i quali hanno ottima memoria, precisavano che un’estate così stramaledetta s’era avuta soltanto nel 1897 quando, non so se poi sia vero o no, le galline scodellavano l’uovo già bell’e cotto».

La ghenga si trascina, un po’ penosamente, tra casolari e cantieri abbandonati. Finché non fa un incontro strano. «Stava accadendo qualcosa di molto misterioso», un uomo «stava uscendo lentamente da un buco della terra». Era un vecchio che mostrerà loro una “terra di nessuno” con una grande villa disabitata. Questo sembrerà agli occhi dei ragazzi il loro Paradiso Terrestre, affidato alle cure di un “divino giardiniere”, dove ciascuno potrà godere a piacere di “pace, fresco, aria pulita”, tutte cose che non sono proprietà privata di nessuno.

Il concetto di “proprietà privata” non è messo lì a sproposito. Perché determinerà una svolta nelle vicende della ghenga. La prima cosa, infatti, che avevano fatto questi ragazzini era stata quella di mettersi alla ricerca dell’identità del proprietario della villa. Credendo giustamente, di fronte alle meraviglie dell’Eden, che dovrebbe pur esserci un padrone del giardino. E che fosse loro dovere tutelare la “proprietà privata” di quel “divino giardiniere”. Furono loro a far recuperare una preziosa refurtiva e sarà allora che il proprietario, per riconoscenza, li inviterà a rimanere come ospiti nella sua casa. «Gigino e la sua ghenga» scrive Guareschi, «rimasero in quel pezzo di paradiso fino alla fine delle vacanze e fu un soggiorno meraviglioso».

Lo scrittore conduce per mano questi “ragazzi troppo soli” che sembra stiano per soffocare nella calda estate in cui «le galline scodellavano l’uovo già bell’e cotto». Come quell’uomo che «stava uscendo lentamente da un buco della terra», Guareschi interviene per condurli fino alla presenza del Mistero e del suo meraviglioso mondo, dove in quello scorcio di vacanza estiva potranno vivere un anticipo di paradiso.

Questa è, in estrema sintesi – un po’ troppo “estrema” – la storia di Gigino come ci viene presentata da Giovannino Guareschi ne La calda estate del pestifero. Una storia che ho definito “un racconto” ma che non saprei bene se definirlo un racconto lungo o un romanzo breve. Fu comunque un libro con quelle illustrazioni che non piacquero a Guareschi. Non credo soltanto per una mera questione di stile. Fu probabilmente per una certa leggerezza che quelle illustrazioni suggerivano. Mentre Guareschi attribuiva a questa storia uno spessore decisamente maggiore, una maggiore drammaticità. Credo che nell’autore ci fosse in quel momento la consapevolezza del fatto che il tempo per lui si era fatto breve, di essere davvero giunto davanti al Destino. Di essere chiamato, pertanto, a scrivere qualcosa per lasciare un testamento ai propri lettori. Credo che l’idea che Guareschi volesse lasciare in eredità era che la vita è come un compasso che quando termina il suo angolo giro non si ritrova alla fine della circonferenza ma esattamente all’inizio. Che un uomo, alla fine, non si ritrova vecchio, ma si ritrova bambino.

Non so come andarono veramente i fatti, ma posso pensare che Guareschi, arrivato col suo compasso alla fine della circonferenza, deve essere stato felice di poter scrivere queste cose a qualcuno. Questa cosa, cioè: che alla fine della vita non ci attende la vecchiaia ma una giovinezza non molto diversa da quella giovinezza che gli uomini vivono quando sono ragazzi. Forse, soltanto con una consapevolezza più grande. E siccome il vecchio Guareschi era veramente un ragazzo pensò di scrivere queste cose a un suo amico industriale che era il produttore dei gelati Tanara – adesso il marchio non c’è più, da quando la produzione è stata assorbita da una grande multinazionale, e il nome si può fare senza essere accusati da fare pubblicità occulta.

Insomma, il testamento di Guareschi era più o meno questo: che la vita finisce “con un’orgia di gelati Tanara”. Che la vita, in altre parole, è qualcosa che lascia un buon sapore in bocca. E il gelato ha questa cosa di particolare: che quando il gelato finisce tu non resti lì con l’amaro in bocca perché qualcosa di buono è finito per sempre. Al contrario, resti col dolce in bocca. Tanto che cominci a pensare che quella cosa che è finita forse continua ancora.

Ma queste non sono cose che si possano spiegare. Ed è anche inutile spiegarle. Perché un bambino sa benissimo com’è il sapore di un gelato. Voi direte che queste cose sono le idee strampalate di chi addirittura vede chissà cosa dietro una semplice pubblicità di gelati. Ditelo pure, ne dicono tante. Lasciatemi però terminare il discorso. Voglio dire che è possibile riscontrare, in certi scritti di Guareschi, come un “presentimento delle cose”, come un elemento profetico.

Giovannino Guareschi pubblica La calda estate del pestifero a un anno dalla sua morte. Un infarto, infatti, lo stroncherà a Cervia nel corso della successiva estate del 1968. Già aveva avuto un precedente infarto qualche anno prima, dopo gli anni del carcere e della forzata chiusura del suo giornale; in un periodo molto duro, di grande amarezza. Dico questo perché, pensando a tutto ciò, non si può non andare a riprendere un altro racconto scritto nel dopoguerra, dove lo scrittore descrive qualcosa che si verificherà poi nella vita reale dello scrittore. Il racconto, che è per me un piccolo capolavoro, si intitola Il vittorioso ed è stato scritto nel 1950. Ci sarebbero altre analogie da fare con La calda estate, per esempio sul tema della presenza di moltitudini di bambini, un tema ricorrente che ha avuto nel Decimo clandestino la sua espressione più fortunata.

Ma la cosa che voglio riprendere qui è il fatto che, come Guareschi, il vecchio Togno protagonista de Il vittorioso, era anche lui malato di cuore e tutta la storia si svolge nell’arco tra un primo e un secondo infarto. A questo vecchio, per non rimanere «secco come un chiodo», il medico aveva raccomandato ovviamente la massima prudenza. Soprattutto, i familiari dovevano evitare che egli avesse dei dispiaceri. Perché, spiegava il medico ai parenti del Togno: «Se volete vederlo secco dategli un altro dispiacere. Il suo cuore è come un uccellino su un ramo: basta che voi facciate un gesto e l’uccellino scappa via».

Insomma, la questione era questa: un giorno era giunto al vecchio Togno la terribile notizia che Giorgino, il più piccolo e il più amato dei suoi figli, era morto in combattimento nel corso della seconda guerra mondiale. Di conseguenza, considerato il pessimo stato di salute del suo cuore, bisognava nella maniera più assoluta evitare di dargli un altro dispiacere. I suoi figli si rendono conto, pertanto, che per l’anziano genitore avrebbe avuto conseguenze certamente fatali essere portato a conoscenza dell’andamento della guerra che come sappiamo, particolarmente dall’8 settembre del ’43 in poi, appariva di giorno in giorno sempre più disastroso. Una sconfitta dell’esercito italiano sarebbe stato un duro colpo per lui, perché l’unica cosa che teneva ancora in vita il Togno era la speranza di una “grande vittoria” in modo da poter dire che «Giorgino è morto ma non per niente!»

Non era un’impresa da poco dunque, per i parenti, mettersi a riscrivere tutta la storia al contrario per non urtare la sensibilità del vecchio, fedelissimo al passato regime. Una storia dove, nell’artefatta ricostruzione della famiglia del Tongo, dopo aver inflitto gravi perdite al nemico, dopo aver distrutto l’aviazione e la marina dei “maledetti” – alias, gli Alleati – si passa a rappresentare la marcia trionfale verso improbabili conquiste territoriali. Finché, «In luglio del 1944 l’Inghilterra era tutta occupata e i figli di Togno presero a spingere le truppe italiane e tedesche sempre più addentro alla Russia. La Russia è grande come il mare e qui ebbero buon gioco, e quando il vecchio si spazientiva perché, secondo lui, facevano le cose troppo lentamente, gli rispondevano che con la Russia bisogna starci attenti nell’avanzare perché Napoleone, che era Napoleone, commise l’errore di fare troppo in fretta e ci rimise le penne. “A Napoleone non avevano mica ammazzato il figlio” rispondeva il vecchio».

Finalmente, nel corso del 1946, «la flotta italiana, tedesca e giapponese, formidabilmente potenziate, presero a suonare agli americani tali stangate da far sussultare di gioia il vecchio Togno». Insomma, queste fantasiose truppe di occupazione sbarcarono a New York, conquistando addirittura l’America. “Bene!” urlò il vecchio.

L’urlo purtroppo gli fu fatale, senza che si riuscisse a evitare che il vecchio rimanesse «secco come un chiodo». Scrive Guareschi: «In quell’istante l’uccellino sul ramo volò via assieme al nome di Giorgino».

Non so perché Guareschi abbia fatto di questa storia un racconto. Io ne avrei fatto una poesia. Il cuore dell’uomo è un uccellino su un ramo. Su Il Sussidiario del 20 novembre 2012, Olga Gurevich, appassionata traduttrice di Guareschi in lingua russa, ha scritto: «lui raccontava della voce del cuore che sconfigge qualsiasi ideologia e che impedisce all’ideologia di non guardare in faccia la realtà». A Guareschi interessava soltanto il cuore. Non si lasciava impressionare dalla politica di cui si scrive sui giornali, né dalla storia di cui si scrive sui libri di storia. Rispetto alle quali egli riteneva fosse più importante offrire ai bambini un angolo di paradiso dove tutto finirà in un’orgia di gelati Tanara, «perché effettivamente un gelato Tanara rappresenta la fine migliore di ogni avventura». Come più importante della storia di tutta la seconda guerra mondiale è riuscire a non dare un dispiacere a un povero vecchio, affinché quando questi finirà «secco come un chiodo», possa andarsene tutto contento della vittoria finale, «volando alto nel cielo azzurro».

Più della politica, più della storia, più di qualsiasi altra cosa, per Guareschi ciò che conta è la realtà. Come ha scritto Olga Gurevich, Guareschi dà voce alla realtà, come è la Bassa, metafora della realtà stessa, dove «scorre “il fiume placido e maestoso, sull’argine del quale, verso sera, passa rapida la Morte, in bicicletta”. Questa voce parla dal profondo del cuore e fa appello al cuore di ogni singolo uomo».


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