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Il delitto di Via Poma

Creato il 29 aprile 2013 da Lundici @lundici_it

Scivolava via la torpida estate del 1990. Chi la ricorda? Sembra ieri o forse no. Iniziavano gli anni del cambiamento, era alle porte la rivoluzione informatica e anche quella dei costumi stava subendo svolte importanti. Ma allora, allora forse c’era ancora un po’ di pudore tra genitori e figli, certe cose non si dicevano, chissà. Forse per questo la ventenne romana Simonetta Cesaroni, figlia di un tranviere e di una casalinga, non raccontava ai suoi proprio tutto quello che le accadeva. Per esempio, che aveva sì un moroso, il biondo Raniero Busco, motorista dell’Alitalia, di qualche anno maggiore, ma in fondo lui non si voleva impegnare più di tanto e tutto si risolveva in qualche incontro intimo, con qualche sofferenza per lei.

Il delitto di Via Poma

Il complesso di edifici di Via Poma a Roma dove si consumò l’omicidio di Simonetta Cesaroni

Simonetta lavorava in una ditta di contabilità che si occupava, tra gli altri clienti, dell’Associazione alberghi per la gioventù; per questo si trovava a giorni alterni presso la sede di questi ultimi, sita nella ormai nota via Poma, nell’appartamento di uno stabile, incastrato in un complesso di edifici d’epoca grandi e appena tetri, con ampio cortile interno e accessi un po’ labirintici ( e questo non sarà un aspetto secondario). Dopo quel 7 agosto, ultimo giorno di lavoro, la ragazza sarebbe partita per le vacanze, con delle amiche e non con “lui”, ulteriore dimostrazione di un rapporto forse non impegnativo e probabilmente destinato ad estinguersi di lì a non molto (pare accertato che Busco già frequentasse un’altra).

Era pomeriggio, lei si ritrovò da sola, ultimando le lavorazioni cui era addetta. Una telefonata con un’amica, poi il silenzio. Verrà ritrovata ore dopo quando (in tempi ancora senza cellulare) la famiglia, allarmata, chiamerà il suo capo, Salvatore Volponi (che, sostenne quando interrogato, aspettava lui pure una chiamata dalla sua dipendente, per ragioni di servizio), e insieme, grazie al fatto che il signore aveva le chiavi, e la porta si presentava senza effrazioni, rinveniranno il corpo della Cesaroni trafitto da ventinove colpi di un’arma imprecisata.

Il delitto di Via Poma

Le scarpe di Simonetta Cesaroni così come furono ritrovate dalla polizia

La scena del delitto si presentò subito eccentrica: c’era un po’ di sangue in qualche punto, ma per il resto la stanza appariva pulita, soprattutto il pavimento. Lei era seminuda, con i calzini indosso, mentre le scarpe si trovavano posizionate con cura poco distante; nessuna traccia di colluttazioni, nè reperti biologici, a parte appunto qualche impronta o scia ematica. Parte dei vestiti non si trovò mai, erano scomparsi dei gioielli che lei sicuramente aveva indosso prima di uscire da casa e, naturalmente, neanche l’ombra dell’arma del delitto, utilizzata comunque dopo che la ragazza era stata colpita per stordirla.

Nonostante si fosse in pieno periodo vacanziero, va detto che gli investigatori si mossero con celerità e si buttarono sul portiere dello stabile, il pugliese d’origine Pietrino Vanacore, che, con la moglie, da cui aveva un figlio ormai grande, si occupava di tutto un po’, conosceva a menadito gli anfratti di quei falansteri e si prestava anche a piccole commissioni per alcuni inquilini. Non è mai stato detto chiaramente, ma di Vanacore, già vedovo e al secondo matrimonio, si sussurrava circa misteriosi problemi con la figlia di primo letto; il suo passato non cristallino lo rese subito un sospetto, inoltre si rinvenne qualche macchia sui pantaloni che indossava quel giorno.

Il delitto di Via Poma

Pietrino Vanacore fu arrestato il 10 agosto 1990, con l’accusa di omicidio tre giorni dopo il delitto. Il 16 giugno ’93 fu prosciolto perché «il fatto non sussiste». La decisione divenne definitiva nel 1995 dopo il ricorso in Cassazione. Morirà suicida nel 2010.

Sembrava fatta, ma tutto si sgonfiò subito; le macchie erano dovute ad un disturbo legato alle emorroidi, la moglie poi parlò agli inquirenti di strani personaggi che aveva intravisto transitare nel periodo in cui era avvenuto il delitto e appoggiò senza esitazioni il marito; e anche il figliolo, sospettato di attenzioni verso la graziosa impiegata, fu ritenuto estraneo alla vicenda.

Poiché l’opinione pubblica, seppure in villeggiatura, rimaneva attenta agli sviluppi sull’efferato omicidio e commossa dalla tragica fine di una giovane che si sacrificava a lavorare, mentre gli altri stavano in spiaggia, per mettere da parte qualche risparmio e non pesare sulla famiglia, le indagini ricominciarono a tamburo battente, e senza le pressioni mediatiche cui oggi ci hanno abituato.

Inevitabile diventò rivolgere lo sguardo al fidanzatino, che non aveva un alibi ferreo perchè confuse un giorno con un altro; ma allora le analisi sul DNA, pur esistendo, erano meno sofisticate e furono in un certo modo trascurate; senza contare che egli avrebbe avuto pochissimo tempo per arrivare e tornare da via Poma per l’ora in cui molti ricordarono di averlo visto nel tardo pomeriggio, pulito e senza farsi notare; le tracce di sangue non portavano a lui, che ha un gruppo diverso, e non conosceva affatto il luogo dell’omicidio, non essendo mai andato a trovare quella che potremmo chiamare più una sua affettuosa amica che una vera compagna. Di più, non aveva movente: stava forse per iniziare una nuova storia e lasciarsi il passato alle spalle. Fuori anche questo indagato.

Si girava a vuoto, dunque affannosamente si batterono altre piste. Su imbeccata di uno strano tipo, Roland Voller, un tedesco che si diceva informatore della Polizia (e vorrà dire la sua anche sul delitto dell’Olgiata), gli investigatori pizzicarono Federico Valle, un giovane il cui nonno abitava nel medesimo complesso.

Federico era un ragazzo problematico. Per una bizzarra circostanza anche suo padre si chiamava Raniero, e lui non ci andava particolarmente d’accordo, dopo che i suoi si erano lasciati. C’è chi pensa che Valle, personalità ombrosa e afflitto da anoressia, sospettasse una relazione tra il papà e Simonetta e non fu sottovalutata la sua possibilità di muoversi agevolmente nel sito, poichè era nipote affezionato e andava a trovare spesso il nonno, un architetto (progettista di quel comprensorio di palazzi), a cui proprio Pietrino Vanacore faceva periodicamente da governante.

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Federico Valle

Il cerchio sembrò chiudersi: Federico, che qualcuno sosteneva essersi da poco ferito a un braccio, geloso e un po’ paranoico sulla nuova vita paterna, avrebbe eliminato la presunta “rivale” della madre, per poi dileguarsi attraverso percorsi a lui conosciuti (i tetti?), aiutato dal devoto (e ricattabile) portinaio tuttofare, che poi avrebbe provveduto ad eliminare le tracce. In ogni caso, si convenne, l’assassino non era uscito dal portone quel giorno stesso, aveva avuto la possibilità di dileguarsi in un secondo momento.

Tuttavia, presto gli entusiasmi per una soluzione che sembrava ormai a portata, si smorzarono: Valle non presentava ferite o graffi (anche se si proverà a cercare prove di interventi estetici a copertura), non c’erano prove (o non si cercarono?), la sua posizione fu archiviata.

Gli anni passavano e l’interesse per la vicenda stava scemando. Il “capo” di Simonetta, Salvatore Volponi, ci scrisse su un libro, zeppo di affermazioni discutibili, intorbidendo le acque e provocando addirittura interrogazioni parlamentari.

Ancora per per un periodo continuarono a circolare i discorsi su un presunto conoscente che avrebbe potuto agganciare Simonetta via chat: una forma di comunicazione allora, da noi, agli albori, ma che lei conosceva; si scoprì che la ragazza ogni tanto era angustiata da telefonate anonime; si ricordò che nello stesso edificio, tempo prima, era avvenuto un altro omicidio, quello di una donna, rimasto irrisolto; si ricamò molto su un biglietto con la scritta ” dead OK” ritrovata accando al pc, che probabilmente era solo una password, ma nemmeno da questi versanti si cavò alcunchè.

Si arrivò a parlare di quell’ufficio come di una copertura dei servizi segreti e si insinuò che la povera ragazza fosse finita in un giro di misteri più grande di lei, e ormai sapeva troppo; dulcis in fundo, venne messa in mezzo l’immancabile banda della Magliana, ma tutto andò a perdersi come onde sulla battigia e la famiglia Cesaroni (cognome che oggi evoca vicende televisive scanzonate) rimase senza giustizia: il padre se ne andò con questo peso sul cuore, nel 2005.

Tragedie e drammi planetari sembrarono cancellare per sempre questa pagina oscura, finchè quel totem moderno chiamato DNA, ormai, ci dicono, studiato al punto di garantire la quasi infallibilità nell’identificazione di un colpevole, riportò in auge la storia, come il più classico dei “cold cases”. Furono ripescati i reperti di Simonetta, in realtà secondo molti mal conservati e ormai contaminati con oggetti connessi ad altri reati, e soprattutto ci si concentrò sul reggiseno e sul corpetto da lei indossati al momento della morte. Si esultò, proclamando al mondo che c’erano tracce biologiche e genetiche del “fidanzato” Raniero Busco e anche una sua traccia dentale (dovuta a un morso vicino al seno) che collimava solo con i suoi denti e non con la conformazione di quelli degli altri sospettati (nel 1990 evidentemente quell’impronta non era sembrata importante).

Raniero nel frattempo aveva continuato la sua vita, sposato la bella Roberta Milletarì da cui ha avuto due figli e tutto si aspettava, verso la metà degli anni duemila, tranne che essere riacchiappato e processato per omicidio, ma così fu. In primo grado fu condannato a ventiquattro anni. Nel frattempo erano entrati in scena i nuovi sofisticati metodi d’indagine, l’ubiquo generale Garofano, i periti, i consulenti. Raniero venne descritto come un personaggio dal carattere violento, a causa di alcune liti condomimiali intervenute nel frattempo.

Nondimeno, in appello, nel 2011, la sentenza fu ribaltata e l’ex venne assolto: il tutto, mentre l’avvocato storico dei Cesaroni lasciava l’incarico, forse perchè anziano e stanco, ma, si insinua, anche perchè per nulla d’accordo con l’accanimento, soprattutto della sorella della vittima, contro Raniero e conservando idee diverse su possibili assassini e complici.

Il delitto di Via Poma

Raniero Busco con la moglie

Molto Raniero deve alla combattiva moglie, che lo ha difeso come una leonessa e, al riguardo, con Raffaella Fanelli, ha scritto “Al di là di ogni ragionevole dubbio”, libro che aveva dichiaratamente il duplice scopo di divulgare verità sconosciute e recuperare risorse economiche per la costosa difesa.

Apprendiamo dunque, tra le altre cose, che sui calzini di Simonetta fu trovata della segatura, notoriamente utilizzata per drenare liquidi dove la pulizia normale non è riuscita completamente; e che appoggiati ai lavatoi del sottotetto furono rinvenuti, a ridosso dell’omicidio, mentre si vagava per il palazzo in cerca di indizi, stracci umidi, in uso a Vanacore, che sembravano reduci da robuste lavature e strizzature, come se qualcuno avesse appena accuratamente pulito da qualche parte. Nel libro si dice naturalmente molto di più, su errori ed omissioni, tanto da riproporre i soliti amletici quesiti su come vengano condotte le indagini e indurre a pensare che Kojak e Colombo siano davvero solo proiezioni dei nostri sogni.

A proposito, che ne è di Pietrino? Chiamato a testimoniare in appello, piuttosto che presentarsi, preferisce suicidarsi nella natia Puglia, dove è tornato a vivere nel frattempo, con una modalità a dir poco originale: si lega con una lunga corda a un albero e si getta in mare, lasciandosi annegare, dopo aver sistemato un ambiguo messaggio d’addio sull’automobile.

I particolari di questo orrendo intrigo sono molti e non si possono comprimere tutti in un articolo, per cui rimandiamo alla lettura di quanto citato e allo sterminato archivio web, ma di certo nessuno è felice di un delitto irrisolto; però, lo sarebbe ancor meno di un innocente in prigione. Raniero aveva rapporti con Simonetta e questo spiegherebbe la traccia di un ovvio contatto epidermico su indumenti che lei non cambiava tutti i giorni (ma la sorella di Simonetta insiste che lei lo facesse quotidianamente). Null’altro, però, si è trovato di tanto consistente da portare a una condanna.

E’ solo un’opinione. Ma vogliamo sempre e ancora la verità, anche noi come la famiglia Cesaroni. Speriamo che quanto prima essa si palesi.

 


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