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Il dramma del Senatur, la fine di un mito.

Creato il 18 maggio 2012 da Massimoconsorti @massimoconsorti

Il dramma del Senatur, la fine di un mito.

Voglia di tenerezza

Niente onore delle armi. Sappiamo quello che Umberto Bossi ha rappresentato per la sua gente ma anche quello che ha combinato per l’Italia tutta. Siamo convinti da sempre che la Storia, a un certo punto del suo percorso, abbia bisogno di inventarsi personaggi di un certo tipo, con alcune caratteristiche. Spesso si inventa capipopolo altre capibastone, altre ancora masanielli sfigati oppure carismatici ignoranti come capre tibetane. Quasi sempre sono soggetti senza arte né parte che a un certo punto della loro esistenza, sapendo che il loro destino è quello dei guardiani di porci, si reinventano in politica. Costa pochissimo: un po’ di scilinguagnolo e un nemico da abbattere. Sulle origini 'andreottiane' della Lega si è discusso nelle segrete stanze della politica da sempre. La Dc, perso il Nord, soprattutto quello industrializzato che aveva bisogno di darsi una rappresentanza più attenta alle sue esigenze, ha pensato fosse il caso di mettere in piedi qualcosa di più di una corrente ad hoc. In quel momento nel Veneto era già nata la Liga e la Lombardia si stava muovendo sullo stesso terreno. C’era lo scienziato pazzo di turno, un tal Gianfranco Miglio, che si era inventato le macroregioni e aveva teorizzato l’esistenza della Padania sulle ceneri dei celti. Scoppiata Mani Pulite, è stato abbastanza facile puntare sull’indignazione dei terun del Tirolo e la sorte, sotto forma di un perditempo che trascorreva le sue giornate al bar a giocare a biliardo, ha incoronato un cantante fallito, mai laureato, rappresentante di Folletti a tempo perso visto che la sua occupazione principale era quella di abbattere birilli. In un amen è nato uno slogan destinato a fare epoca e breccia immediata nel cuore dei padani: “Roma ladrona”, ed è iniziato il valzer. In un crescendo di populismo folkloristico e di retorica acchiappapopolo, la Lega Nord, fatti fuori tutti gli oppositori regionali, si è data un leader indiscusso al quale è stato concesso di mettersi intorno la più grande marmaglia di nullafacenti del creato, personaggi dalla professione incerta, dai profili culturali ad encefalogramma piatto, desiderosi di entrare nella storia proprio come gerarchi qualsiasi perché già il solo aspirare a essere anche loro piccoli leader sarebbe stato un assunto contronatura. Così, i sacerdoti delle sacre acque del Po sono sbarcati in forze a Roma e complice il principe dei riciclatori, hanno perfino preso in mano il Governo di questa povera nazione di mentecatti. Silvio, la cui bravura è stata quella di dare una fisionomia al brodo primordiale di ex democristiani, ex socialisti, ex socialdemocratici, ex liberali, ex fascisti, ex comunisti allestendo la fiera dell’ex, ha pensato fosse cosa giusta allearsi con quello che gli assicurava il governo del Nord perché al Sud aveva già i suoi bei referenti presenti sul territorio da sempre, delinquenti o no l’importante, per Nano Bifronte, era avere saldamente in mano il potere. Roma però è sempre stata una città particolarmente subdola, degna capitale degli italiani. Il suo fascino e la sua storia conquisterebbero pure Gengis Kan, figuriamoci un diplomato della Scuola Radio Elettra. La Capitale dei grandi intrighi anche in questo caso ha svolto egregiamente il suo ruolo di ruffiana e, un refolo di ponentino oggi, uno stornello domani, grazie alla paiata ha traviato pure il novello Albertino (da Giussano). Il potere è un virus, quando lo hai preso non ce la fai mica a disintossicarti. Vedersi intorno lacché deve essere un’emozione talmente forte che anche un druido ne resta catturato, specie se si ammanta di denaro facile e di entrate da ogni finestra, basta un ruolo qualsiasi in un consiglio di amministrazione “pesante”. Ma poi metti al mondo figli che non sanno neppure cosa significhi conquistarsi duramente la paghetta e, non appena diventano maggiorenni, hanno esigenze che vanno ben al di là del Lego, anche se la Playstation è un mito tuttora. Bossi è stato travolto dalla famiglia alla quale ha dato tutto, dagli amici che lo hanno assediato e curato, amato e blandito fino a quando questo caravanserraglio di pappagalli persi è esploso portandosi appresso anche il vecchio Loreto, che stava appoggiato tranquillamente sul trespolo di Silvio. Bossi è distrutto. Piange. Si dispera. Aveva sperato fino all’ultimo di poter fare almeno il presidente ad honorem della sua creatura ma i magistrati gli hanno fatto capire che è meglio ritirarsi. Lo danno per cotto, deluso, amareggiato, sull’orlo di una crisi irreversibile d’identità perché non riesce ancora a capacitarsi come diavolo abbia fatto a mettere al mondo Trota e Riccardino. La risposta non dovrebbe essere difficile, il dna è quello, e con i cromosomi non si scherza.

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