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Il fattore petrolio nella crisi del Venezuela

Creato il 03 dicembre 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Sarah Wafiq

Il petrolio era conosciuto ed usato in Venezuela ancora prima che gli europei conquistassero le Americhe: i nativi lo usavano per impermeabilizzare le proprie canoe, per farsi luce [1] e per trattare certi tipi di ferite. Tuttavia, la produzione petrolifera nel Paese sudamericano iniziò soltanto nel 1875, ovvero sedici anni dopo l’apertura del primo pozzo commerciale di petrolio al mondo [2]. Da allora, il Venezuela ha fatto grandi passi: è uno dei membri fondatori dell’OPEC, dove oggi siede come unico Paese del continente americano insieme all’Ecuador; è stato uno dei principali esportatori di greggio verso gli Stati Uniti e nel 2014 ha riconfermato la propria posizione di dodicesimo maggior produttore di petrolio del globo [3].

Nel 2012, nuovi studi geologici hanno permesso di aggiornare l’ammontare delle riserve petrolifere venezuelane a 298,35 miliardi di barili, consentendo così al Paese latino-americano di strappare all’Arabia Saudita l’indiscusso primato come detentore delle maggiori riserve petrolifere del globo [4]. Tuttavia, l’importanza di tale scoperta è stata ridimensionata dal fatto che il Venezuela di Nicolás Maduro manca di investimenti sicuri e non possiede tecnologie all’altezza, due fattori essenziali al pieno sfruttamento delle riserve portate recentemente alla luce. Pertanto, paradossalmente, la Repubblica Bolivariana di Venezuela sta attualmente attraversando una profonda crisi economica e sociale.

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Venezuela, riserve energetiche

Per capire come si sia potuti arrivare a tale punto, bisogna fare un salto al 1960, quando il governo dell’allora Presidente Rómulo Betancourt creò la Corporación Venezolana del Petróleo (CVP), una compagnia che, nei decenni successivi, avrebbe subìto un processo di nazionalizzazione sempre più intenso grazie a leggi, decreti ed imposte ad hoc. Il processo di statalizzazione raggiunse l’apice nel 1976, quando lo Stato assunse legalmente il controllo totale dell’industria di idrocarburi e venne creata Petróleos de Venezuela S.A. (PDVSA), la compagnia petrolifera nazionale (in inglese: National Oil Company, NOC), tuttora esistente, che avrebbe presto inglobato la CVP.      

A riprova del legame sempre più stretto tra il governo e il settore petrolifero, si cita un episodio della campagna elettorale del 2006 in cui l’ex Presidente venezuelano Hugo Chavéz avrebbe messo i dipendenti di PDVSA di fronte alla minaccia di licenziamento in caso di mancato supporto politico. Quelle elezioni vennero poi vinte proprio dal leader socialista, il quale rafforzò la politica di nazionalizzazione del settore petrolifero [5]. Una mossa, questa, che, secondo i suoi piani, avrebbe dovuto accrescere l’efficienza di PDVSA, ma che, de facto, ne comporto solamente una riduzione della capacità produttiva. Infatti, in un clima di tale nazionalizzazione, si sono verificati inevitabilmente uno scoraggiamento degli investimenti esteri nel settore petrolifero venezuelano ed una mancanza di collaborazioni tra PDVSA e compagnie petrolifere internazionali (International Oil Companies, IOCs) [6].

Al fine di comprendere l’importanza dei suddetti investimenti e collaborazioni, va precisato che PDVSA, così come molte altre NOCs in Paesi in via di Sviluppo, non possiede ancora la capacità di raffinazione necessaria a far fronte alle sue immense riserve petrolifere, e ricorre ancora a tecniche di trivellazione poco sofisticate, le quali riducono la quantità di petrolio recuperabile dai giacimenti più complessi. Inoltre, le riserve venezuelane sono di petrolio extra heavy, ovvero petrolio che deve essere diluito con nafta o con petrolio più light per divenire utilizzabile. Ciò significa che il Venezuela si trova obbligato ad importare regolarmente grandi e costose quantità di questi due prodotti per migliorare la qualità del suo petrolio e poterlo, conseguentemente, immettere nel mercato mondiale. Precisamente, nel 2014, per la prima volta nella sua storia, il Venezuela, Paese produttore e detentore delle riserve più vaste del pianeta, ha avuto la necessità di importare petrolio greggio per far fronte alla sua domanda di energia [7]. Ad aggravare la situazione, vi è la forte correlazione tra investimenti esteri e ricavi legati all’industria dell’oro nero in Venezuela: quando ad esempio, tra il 2001 e il 2004, tali investimenti declinarono, si assistette ad una diminuzione proporzionale della produzione petrolifera. Pertanto, attuare politiche che attirino investitori esteri ed instaurare buoni rapporti con le IOCs [8] permetterebbe al Paese guidato da Maduro di massimizzare la produzione delle proprie riserve nazionali per conseguire indipendenza energetica ed ottenere maggiori guadagni. Con le IOCs, per esempio, PDVSA potrebbe raggiungere una situazione win-win concedendo loro lo sfruttamento temporaneo e parziale delle proprie riserve (sfruttamento regolato secondo i termini del relativo contratto petrolifero) in cambio dell’accesso alla loro fetta di mercato e alle loro tecnologie.

Ma la carenza di investitori esteri ed IOCs disposti a impegnarsi nel settore petrolifero venezuelano non è l’unica ragione alla base della crisi economica: dati alla mano, il Venezuela risulta essere fortemente dipendente dalla sua industria di idrocarburi, i cui ricavi costituiscono il 57% del PIL e corrispondono a ben il 96% delle entrate generate da tutte le attività di esportazione del Paese. Detto ciò, risulta ovvio uno stretto legame fra l’economia della Repubblica Bolivariana e il prezzo di mercato del petrolio: nel 2007, quando il prezzo al barile viveva una crescita inarrestabile, l’economia venezuelana cresceva ad un ritmo annuo del 7%; si stima invece che il recente collasso del prezzo del greggio sia costato al Paese $7,5 miliardi ogni $10 di ribasso [9]. In un simile quadro della situazione, gli errori principali commessi dal governo venezuelano sono stati due: non conseguire una diversificazione ed uno sviluppo trasversale dell’economia, cioè non investire a sufficienza in settori alternativi a quello petrolifero, e, contrariamente a ciò che è stato fatto dai membri mediorientali dell’OPEC, non mettere da parte per i tempi di magra. Ecco perché l’attuale prezzo del petrolio, che si aggira sui $40-50 al barile e che l’Arabia Saudita non dà cenno di voler aumentare [10], ha mandato il Paese sudamericano in deficit.

Se accompagniamo ai suddetti dati la consapevolezza che i ricavi dell’industria petrolifera venivano utilizzati dal governo di Caracas anche per finanziare progetti sociali e politici, capiamo come questa crisi sia andata a toccare gli aspetti più quotidiani della vita dei cittadini venezuelani.    

Dopo aver vinto le elezioni presidenziali del 2013 col 50,61% di voti a favore, Maduro ha iniziato a perdere consensi: dati recenti riportano che il supporto popolare all’amministrazione del Palacio di Miraflores si aggira intorno al 24,5%. Il leader del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) è sempre stato considerato meno carismatico del predecessore Chavéz, ma il vero problema alla base dell’attuale malcontento popolare è un’inflazione che ha chiuso l’anno passato al 68,5%, ovvero il tasso d’inflazione più alto dal 1996. Le conseguenze che il popolo venezuelano sta pagando in prima persona sono un alto tasso di criminalità e la penuria di beni primari. Quest’ultima è dovuta, a sua volta, alla scarsità di dollari in circolazione, ergo alla riduzione delle importazioni. Perciò, è stato introdotto un sistema di presa delle impronte digitali che regoli l’accesso dei cittadini ai beni primari ed eviti casi di contrabbando.

Le proteste, inevitabili, sono a volte sfociate in attacchi ad edifici e sedi governative. Le persone chiedono una revisione delle politiche economiche e sociali. Negli ultimi due anni, il Venezuela si è aggiudicato rispettivamente il secondo ed il primo posto per essere il Paese col più alto indice di miseria [11]. Recenti sondaggi rivelano una realtà dove il 75% dei cittadini crede che il proprio governo sia corrotto, e solo il 9% ha la percezione di una forte stabilità politica. Data l’entità del controllo dei media tradizionali da parte del governo, si è assistito ad una crescita nell’uso dei social media da parte di cittadini comuni, allo scopo di offrire una finestra sull’attuale crisi e sulle violenze attuate contro gli oppositori politici ed i manifestanti.

Ma l’opposizione politica di Maduro è divisa, alcuni dei suoi esponenti sono già stati incarcerati, o sono ricercati con l’accusa di tradimento, e si prevede che l’attuale amministrazione cercherà di mantenere i suoi avversari deboli fino alle prossime elezioni del 2019. Inoltre, Maduro sembra essere riuscito a mantenere il supporto dei membri del suo partito e delle forze armate tutelandoli dalle conseguenze più negative della crisi economica. Per tali ragioni, un colpo di stato sembra essere una possibilità remota.

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Indice di miseria – Fonte: Cato Institute

Per tamponare la crisi, Chavéz ha cercato alleanza nella Cina di Zeng Qinghong prima, e Maduro in quella di Xi Jinping dopo: si stima che, dal 2007, la Cina abbia prestato oltre $50 miliardi al Venezuela, $20 miliardi dei quali ripagati con i 500.000-600.000 barili di petrolio imbarcati e spediti ogni giorno, gratuitamente, dal Venezuela allo stato asiatico. Anche per ovviare al fatto che gli Stati Uniti, uno dei maggiori importatori del petrolio venezuelano, oggi acquista il 49% in meno di un decennio fa, Maduro ha affermato che aumenterà le esportazioni verso Cina ed India, economie crescenti assetate di energia, ad un milione di barili al giorno ciascuno. Lo scorso gennaio, Maduro ha annunciato che la China Development Bank (CDB) e la Bank of China (BOC), entrambe controllate dallo Stato cinese, hanno accettato di investire 20 miliardi di dollari in progetti energetici, sociali ed industriali in Venezuela nell’arco dei prossimi dieci anni. Tuttavia, nei suoi discorsi pubblici, il Presidente sembra voler preparare il suo popolo ad un peggioramento della situazione economica: nello scenario del 2020, si staglia un Venezuela in recessione, dove l’inflazione è prevista rimanere sopra il 60%, l’instabilità politica non sparirà, l’ineguaglianza sociale e i disordini persisteranno, i blackout non cesseranno ed i cittadini saranno sottoposti a forte pressione fiscale, sanzioni per mancato pagamento ed espropriazioni.

In conclusione, possiamo dire che il Venezuela conta grandi riserve petrolifere, apparentemente base fertile per lo sviluppo economico e l’incremento del tenore di vita della sua popolazione, ma che invece, paradossalmente, vive un impoverimento progressivo e crescente che si sta estendendo a sempre più settori. Pertanto, più che mitigare il clima di nazionalizzazione per attrarre investimenti esteri nel settore petrolifero e diventare pericolosamente dipendenti da Paesi come la Cina, il governo dovrebbe comprendere che il progresso economico e l’aumento del tenore di vita in Venezuela hanno bisogno di una crescita produttiva che interessi tutti i settori: agricoltura, industria, commercio, servizi, etc. In caso di mancate riforme volte a diversificare l’economia nazionale e a ridurre la dipendenza dal petrolio, uno scenario di declino economico e dilagante povertà sembra inevitabile. Il governo di Caracas dovrebbe mostrare lungimiranza, sapendo che il prezzo del petrolio è stimato rimanere sugli attuali livelli per almeno i prossimi due o tre anni. Precisamente, è consigliabile aumentare la dipendenza da gas naturale e da energie rinnovabili, specialmente energia idroelettrica [12], eolica e solare, anche se il petrolio resterà fondamentale per soddisfare la domanda interna di energia.

* Sarah Wafiq è MSc Oil & Gas Management (Coventry University) e OPI Contributor

[1] La lampada a cherosene è un sistema di illuminazione che implica la combustione di cherosene.

[2] Il primo pozzo commerciale di petrolio al mondo fu scavato nel 1859 nel nord-ovest della Pennsylvania, Stati Uniti da Edwin L. Drake.

[3] Stando i dati riportati dalla EIA, la produzione petrolifera del Venezuela nel 2014 è risultata equivalente a 2.49 milioni di barili al giorno.

[4] Data la confusione che viene spesso fatta fra i due termini, va precisato che “risorse petrolifere” si riferisce a tutti gli idrocarburi presenti nel sottosuolo, mentre per “riserve petrolifere” si intendono solamente gli idrocarburi tecnicamente ed economicamente estraibili. Con l’avvento di nuove tecnologie, come ad esempio il fracking, la quantità di riserve petrolifere mondiali ha subìto notevoli aumenti.

[5] Il settore petrolifero non è stato l’unico ad essere coinvolto nel processo di nazionalizzazione: con Chavéz, la medesima sorte è toccata ad imprese nei settori agricolo, finanziario, edilizio, telefonico, elettrico e dell’acciaio.

[6] Le compagnie petrolifere mondiali si distinguono in nazionali (National Oil CompaniesNOCs), come ad esempio PDVSA, ed internazionali (International Oil Companies - IOCs), come ad esempio Shell. A differenza di ciò che accade per le IOCs, nel caso delle NOCs, gli idrocarburi sono sotto il controllo totale o parziale del rispettivo governo nazionale. Oggi, molti contratti petroliferi preambolo alla collaborazione tra NOCs ed IOCs, prevedono una percentuale di guadagno maggiore per la NOC, la quale inoltre mantiene invariato il suo diritto di proprietà ed accesso alle riserve. Perciò, i guadagni delle IOCs, seppur ancora notevoli, si sono drasticamente ridotti rispetto a ciò che accadeva prima della seconda metà del Ventesimo secolo, quando le NOCs non esistevano ancora o erano incapaci di competere con le IOCs.

[7] Con i suoi 4,179 kWh a persona, il Venezuela presenta il tasso di consumo energetico più alto fra i paesi dell’America Latina, per un totale di 18,000 MW all’anno. Anche per questa ragione, nel 2014, il Venezuela ha acquistato a sua volta, per la prima volta, petrolio dagli Stati Uniti per una somma pari a $11.339 milioni, così riducendo i suoi guadagni complessivi legati all’industria degli idrocarburi.

[8] Seven Sisters era un termine coniato negli anni ‘50 da Enrico Mattei per indicare le sette maggiori compagnie petrolifere (tutte IOCs) che, insieme, controllavano circa il 90% della produzione petrolifera globale: BP, Shell, ExxonMobil, Texaco, Chevron e Gulf. Nonostante oggi l’accesso delle IOCs alle riserve petrolifere mondiali sia drasticamente diminuito per via dell’ascesa delle NOCs, le quali hanno rivendicato pieno diritto sugli idrocarburi localizzati nel sottosuolo del rispettivo Paese, e le quali si mostrano sempre più intenzionate ad affermare la propria indipendenza commerciale e competitività, resta il fatto che, negli anni di supremazia delle Seven Sisters, le principali IOCs riuscirono ad accumulare le somme, sviluppare l’innovazione tecnologica, maturare l’esperienza tecnica ed affermarsi su gran parte dei mercati globali che, ancora oggi, le rendono un passo avanti rispetto ad alcune NOCs. Ovviamente, non bisogna generalizzare: NOCs come Saudi Aramco (Arabia Saudita), Gazprom (Russia) o CNPC (Cina) sono considerate tra le compagnie petrolifere più potenti al mondo.

[9] Tra il gennaio 2007 e il giugno 2008, il prezzo del petrolio continua a crescere esponenzialmente, con il WTI che raggiunge il picco storico dei $145.58 al barile. Dopo il giugno del 2008, il prezzo del petrolio inizia a decrescere fino alla fatale caduta del WTI a $43.90 a barile nel febbraio 2009. Tra il giugno 2014 ed il marzo 2015, assistiamo ad un’altra caduta: dai $105.86 ai $48.10 al barile. Record neri, questi, recentemente battuti dai $40.22 del novembre 2015.

[10] Nonostante i membri OPEC messi più in difficoltà dall’attuale prezzo del petrolio, quali ad esempio Venezuela, Algeria ed Iran, abbiano insistito affinché l’OPEC diminuisse la produzione, così aumentando il prezzo di mercato del petrolio, l’Arabia Saudita ha più volte ribadito il suo dissenso. Lo scorso ottobre, Maduro ha affermato che il prezzo del petrolio dovrebbe arrivare almeno a $88 per far ripartire il suo Paese.

[11] Secondo il Cato Institute, l’indice di miseria in Venezuela è stato di 81,8 nel 2013, piazzando il Paese al secondo posto dopo la Siria, e di 106,03 nel 2014, piazzandolo in cima alla classifica mondiale. In entrambi i casi, il fattore che ha contribuito maggiormente è stato l’indice dei prezzi al dettaglio.

[12] La Guyana, una delle dieci macroregioni politico-amministrative del Venezuela, ospita gran parte delle strutture idroelettriche del Paese. Ad esempio, nel Rio Caroní troviamo Guri, una delle dighe più grandi al mondo, la cui relativa centrale idroelettrica produce 10,200 MW all’anno. L’idroelettrico copre circa il 70% dei consumi energetici nazionali, ma di fronte ad una diminuzione del suo potenziale e ad una crescita esponenziale della domanda interna di energia, dal 2013 il Governo ha spostato gli investimenti anche al solare e all’eolico.

Photo credits: Discovery News

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