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Il festival della lista

Creato il 21 gennaio 2013 da Albertocapece

listeAnna Lombroso per il Simplicissimus

Allestite le liste da consegnare stasera, parte la gara di sdegnate abiure, nobili schifiltosità, dorati aventini nei confronti di impresentabili molto presenti, inopportuni, antipatici, troppo noti, troppo ignoti. Come nelle selezioni di Sanremo temporalmente coincidente, le contestazioni riguardano le scelte autoritarie e sconvenienti, più che le procedure, come se il vizio di origine non stesse in un sistema elettorale che sbeffeggia la tanto evocata società civile, che oltraggia la tanto decantata competenza per favorire invece chi ha mantenuto e perpetuato all’interno delle sue immote organizzazioni le tecniche di mantenimento imperiture rendite di posizione intoccabili e di privilegi inattaccabili.

D’altra parte proprio come per il festival, la tenzone ha come unico scenario i media, gli autorevoli organi di stampa, la televisione privata e diversamente privatizzata, che dedica agli outsider esordi televisivi imbarazzati e imbarazzanti, per non smentire una sgangherata predilezione per regimi, conformismi e poteri forti o solo prepotenti.
Così i mugugni, le lamentele, le invettive riguardano la visibilità più che la reputazione, i faccioni e i faccini più che i contenuti, i cantanti più che le canzoni. Anche perché non è malizioso sospettare in molta critica il proverbiale e tossico sdegno dei trombati, che a volte lo sono soltanto per non essersi francamente e esplicitamente proposti, aspettando forse un universale e plebiscitario riconoscimento, una chiamata, un meritato senato a vita. Per carità magari è meglio il giornalista noto soprattutto per le rassegne stampa nella tarda mattinata di Magalli dell’opinionista che vanta nel curriculum l’amicizia con l’Annunziata: è tempo di atti di infedeltà e come mi è capitato di scrivere tante volte Diliberto e il suo import si salme griffate è un uomo ridicolo, e Ingroia non mi piace, considerando la legalità una questione politica ancor più che morale e giudiziaria, una questione democratica troppo importante per affidarla in regime di monopolio ai magistrati, che di tecnici ne abbiamo avuti troppi, e pure di magistrati, alcuni dei quali molto discutibili per certi abusi non solo linguistici.
E i faccioni piazzati sui manifesti e sui partiti personali mi piacciono ancora meno, ancora dai tempi nei quali un presidente additato come un indimenticato padre della patria legittimò quello di Berlusconi premier.

Perché poi il problema è sempre quello che si perpetua, la legittimazione di Berlusconi nella duplice veste di premier più o meno occulto e di nemico numero uno più o meno palese, un problema nutrito amorevolmente da chi ne ha fatto ragione di esistenza in vita, fan o oppositore che peraltro non ha voluto mai affrontare conflitto di interesse, personalizzazione della politica, inclinazione all’apparentamento con la criminalità e soprattutto quella “filosofia” elettorale, che privatizza partiti come aziende, liste come gli elenchi dell’ufficio del personale, tenzoni politiche come talk show, programmi di governo come slogan pubblicitari o come agende che si fanno e smentiscono peggio che fossero Smemoranda.

Così chi ha contribuito alla manutenzione della sua potenza anche tramite trasmissioni di successo oltre che atti politici e normativi, oggi rinfaccia agli altri, nuovi venuti, la subdola intenzione di collaborazionismi, di appoggio infame alla sua affermazione. Come se il problema appunto fosse solo l’uomo e non un volto prestato a un “peggio” del paese e della politica sempre vivi e vegeti. Come se il problema fosse la sua faccia ridicole e ritinta e non quell’edificio di convinzioni, quella teocrazia che ha trovato sacerdoti ancora più fanatici, quell’egemonia della rapina legalizzata, quell’indole alla soppressione di diritti e alla derisione di virtù democratiche in favore di vizi finanziari. Come se le istanze di legalità, la lotta alla corruzione, la richiesta di restituire l’onore della sovranità a stati e popoli, fosse optional terreno esclusivo di anime belle o di feroci cinici che le impiegano in favore della loro ambizione, quindi pragmaticamente trascurabili per dedicarsi invece realisticamente a difendere riforme del lavoro e pensionistiche smentite dagli stessi promotori, patti scellerati con ricattatori internazionali, sottoscrizioni di vincoli che ci condannano a vita.

L’imbarazzato riferirsi a un edificio ideologico e di “valori” chiamato sbrigativamente neo liberismo e che legittima precarietà, incrementa disuguaglianze, premia disparità e arbitrio, promuove la dissipazione di beni comuni e la loro alienazione, favorisce l’interesse privato su quello generale, il sostenerlo perché non c’è alternativa o solo perché non la si sa immaginare è un rappresenta un contributo esplicito all’affermarsi di un potere che in nome di questi principi stravolge regole e leggi, intacca il sistema democratico e la carta costituzionale, ha già devastato quel po’ di restante e macilenta autorevolezza delle istituzioni, altera le relazioni economiche configurando ormai il muovere una guerra crudele al lavoro e ai diritti di cittadinanza, è un’oscena bufala elettorale cui io personalmente non credo né voglio credere. Soprattutto se proviene da uno schieramento che della tutela dei cittadini dallo sfruttamento, della difesa della democrazia, dell’autodeterminazione del paese, dei diritti del popolo doveva farsi interprete, rappresentate e storicamente e modernamente guardiano.
La società per essere civile dovrebbe spegnere la tv e guardare ad altro, agli atti, alla volontà manifesta di muovere critica e fare opposizione a un disegno quasi unanimemente descritto come inevitabile fino a diventare desiderabile. Non si era detto che cambiare si può?


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