Magazine Diario personale

Il flauto magico

Creato il 11 novembre 2015 da Povna @povna

Costruito su una struttura che rivela esplicitamente la propria matrice fiabesca (l’eroe, le prove, gli oggetti magici, antagonisti, oppositori, aiutanti), Il flauto magico di Mozart (1791) è noto per essere in ogni caso un’opera dai significati sovrapposti e compositi.
La ‘povna – che di opera lirica (non importa se all’italiana, ‘-etta’, seria o buffa) se ne intende più o meno quanto di uncinetto – ha avuto quest’anno la fortuna di poterla approfondire nel dettaglio, assistendo a non una, ma ben due rappresentazioni. In particolare, quella che è andata in scena a Verona la scorsa domenica, per la regia di Mariano Furlani, si è segnalata per la ricchezza di dettagli, e anche di innovazioni (non lo dice da esperta di opera, ma di letteratura sì, almeno quel tanto), che la hanno fatta riflettere moltissimo. Ed è per questo che, con molto ritardo (perché le vicende della buona scuola le stanno mangiando il cuore, il fegato e anche l’anima), dopo averne parlato con gli amici del nord, in lungo e in largo, riesce infine a darne conto pure qui.
Si diceva, un’opera poliedrica. Melograni, in quello splendido libro che è Wam. La vita e il tempo di Wolgang Amadeus Mozart, ne sottolinea i riferimenti alla massoneria (le prove che Tamino deve superare per arrivare al premio di amore e conoscenza, ed essere accolto nel regno di Sarastro) del tempo, così come portatrice di contrasti (se è vero che alla fine Sarastro risulta personaggio positivo, a suo modo aiutante, mentre l’Astrifiammante Regina della Notte è la cattiva che finisce all’inferno, non tutto è sempre solo ciò che sembra, nel regno di Mozart – perché Sarastro, pur per bontà, Pamina la rapisce per davvero, sottraendola alla madre, e in fondo è pur sempre la Regina della Notte a spedire Tamino sulle tracce della figlia, con ciò dando un senso anche alla magia degli oggetti di cui al titolo). In questo contesto (che qui la ‘povna rende volutamente rarefatto fino all’essenziale), la rappresentazione di Verona (arrivata dopo la visione di un altro Flauto (più classico) è stata per la ‘povna, oltre che una delle esperienze artisticamente più belle e coinvolgenti dell’ultimo lustro, portatrice di una serie di riflessioni di teoria letteraria.
Si diceva, la struttura della fiaba: un modulo cioè che si ripete costante, e all’interno del quale i personaggi sono normalmente poco individuati (in scienze letterarie si direbbe ‘piatti’, cioè poco caratterizzati, funzioni prima ancora che dotati di profondità ‘rotonda’); alla quale Mozart interpone il modulo della massoneria e con ciò del suo tempo. Bene, l’allestimento veronese, grazie a una regia intelligente che si fa interpretazione critica in perfomance, sembra voler rovesciare (almeno in parte, ma volutamente) questo schema fisso – con ciò portando all’opera di Mozart un ventaglio di novità di significati. Lo fa seguendo una trovata semplice e insieme purissima, quella cioè di rovesciare la relazione tra trama e sistema dei personaggi così come l’opera viene concepita abitualmente: perciò la trama di formazione massonica viene evocata per quello che è, un dispositivo narrativo con colori che sono, certo, figli del loro tempo, ma in realtà hanno una portata universale chiarissima (all’interno della quale la massoneria resta sovrastruttura, meramente); viceversa, i personaggi protagonisti di questo viaggio, insieme esistenziale e fantastico, e in specie i due giovani, Tamino e Pamina, vengono rappresentati con una pluralità di sfumature che li rende assai più tondi, non solo funzioni attanziali (direbbe Greimas, in gergo), ma personaggi con una anagrafe letteraria propria. Appartiene a questa stessa linea la scelta seguita anche per i due personaggi comprimari, doppio simmetrico dei due protagonisti, Papageno e Papagena. Usati normalmente come contrappunto comico dell’opera, nella versione di Furlani i due compartecipano dell’atmosfera di passaggio di crescita dei loro ‘colleghi’ principi, in una rinuncia all’aspetto buffonesco che ha il potere di veicolare una identificazione del pubblico non solo colta, ma anche individuale. Proprio per questo, l’unica scena di apparente concessione alla comicità, quella in cui Papageno e Papagena infine si riconoscono, e si amano, viene messa in scena come una frenesia erotica che li trascina uno verso l’altro, spogliandosi, con ciò facendo prevalere non già l’aspetto di intrattenimento, ma quello dell’energia della vita primordiale.
In questa scena, che alla ‘povna è piaciuta molto perché le è sembrata, a suo modo, epitome di una scelta, si intravede così molto chiaramente un legame già sottolineato nella storia del Flauto da altri critici, ma che a lei sembra terribilmente vincolante, vale a dire quello con la Tempesta di Shakespeare, con le scoperte somiglianze tra Papageno e Calibano.
Ma i richiami a tanta tradizione letteraria non si fermano certo a questi pochi accennati dalla ‘povna. Ed è questa, a suo giudizio, un’altra delle caratteristiche innovative della regia di Furlani che, riportando volutamente il fuoco sull’aspetto di formazione individuale dei protagonisti, di Bildung in senso ottocentesco (ante litteram), in qualche modo rende il Flauto magico una lente privilegiata per comprendere in modo più profondo alcune operazioni di riscrittura di ‘romanzi-fiaba’ contemporanea. Alla ‘povna, guardando l’allestimento di Verona, sono venuti in mente sia Tolkien che la Rowling di Harry Potter (e se il primo può essere suggestione personale, sul secondo è disposta a scommettere sulla volontà registica), ma l’elenco di repertorio di rimandi, in una intertestualità reale, o proiettata verso un futuro post 1791 e Wam, tutto sommato è, per definizione, poco esauriente (perché può essere arricchita ad libitum). Quello che è importante è che il Flauto di Verona si rivela capace di mescolare sapienza e tradizione, gusto letterario a contemporanea consapevolezza – con ciò rendendo il servizio migliore, quello di farla vivere sfolgorante, all’opera mozartiana.

Di questo tenore, se non tali appunto, erano i pensieri della ‘povna lunedì scorso, quando planava a scuola direttamente dal nord dopo un treno dell’alba e sessanta ore precise di insindacabile bellezza, dalla partenza per la città della scuola, alle chiacchiere con gli Amicolleghi che stanno diventando oramai sostanza, dal viaggio insieme all’amico Marco Balzano, che le ha fatto la sorpresa e l’ha raggiunta alla stazione nota, ai 2500 km nuotati alla piscina Cozzi; dagli acquisti per l’Ingegnera Tosta al compleanno di Canta-che-ti-passa. Per arrivare alla trasferta su Verona, in cinquantasei tra automobili, treni, piedi o autobus, alle tre ore di bellezza, ai brindisi e agli abbracci del ritorno, a un gatto che ti accoglie col sorriso e tante fusa.
La ‘povna si è sentita così privilegiata da non sentirsi stanca; e ha attraversato la mattina di scuola con quel sorriso scemo sulla faccia. Poi, è iniziato il collegio.


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