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Il governo Monti e il “moltiplicatore” della politica fiscale

Creato il 04 febbraio 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Paolo Pettenati

Mario Monti

Mario Monti

Per un primo giudizio sull’operato del governo Monti è necessario partire dal comportamento delle seguenti due variabili: a) il tasso di interesse sui titoli di Stato, come indicatore dell’efficacia della politica del rigore ovvero della stabilità finanziaria; b) il tasso di variazione del Prodotto interno lordo, come indicatore della crescita.La politica del rigore

Il tasso di interesse sui titoli a 10 anni era salito sotto il governo Berlusconi dal 4,7 per cento del maggio 2008 al 7,1 del novembre 2011 (medie mensili), mentre con Monti è sceso a 4,2 per cento (gennaio 2013). Per apprezzare questo risultato bisogna tener presente che con un debito pubblico di circa duemila miliardi di euro un aumento del tasso di interesse di 2,4 punti percentuali, come quello verificatosi con il governo Berlusconi, avrebbe comportato a regime per lo Stato italiano un aumento della spesa annuale per interessi pari a 48 miliardi di euro (= 0,024 x 2.000 miliardi). Dato che la durata media del debito pubblico italiano è di quasi sette anni e che quindi ogni anno lo Stato deve in media prendere a prestito circa 300 miliardi per rimborsare i titoli in scadenza, l’aumento di cui sopra si sarebbe verificato con la seguente progressione: 7,2 miliardi di interessi in più nel 2012 (= 0,024 x300 miliardi), 14,4 miliardi nel 2013, 21,6 miliardi nel 2014 e così via sino a oltre 48 miliardi nel 2018. Un aggravio di spesa difficilmente sostenibile per il bilancio pubblico. In alcune recenti dichiarazioni l’ex presidente Berlusconi ha però fornito al riguardo cifre molto più basse, dell’ordine di 5-6 miliardi di euro, traendone la conclusione che la crisi del debito sovrano italiano scoppiata alla fine del 2011 è stata in gran parte una montatura (testualmente “un imbroglio”). Come si spiega un errore così macroscopico? Molto probabilmente Berlusconi ha preso in considerazione soltanto l’aumento della spesa per interessi del primo anno, il 2012, trascurando totalmente la sequenza successiva!

Non va poi dimenticato che nel 2011 i tassi d’interesse di Irlanda e Portogallo avevano toccato il 13%, mentre il tasso greco era quasi il doppio. I tre paesi hanno pertanto dovuto chiedere l’aiuto finanziario della “Troika” (UE, BCE e FMI) per evitare la bancarotta e sono stati costretti ad attuare politiche molto più restrittive di quelle del governo italiano. In conclusione, la politica del rigore attuata da Monti ha ottenuto il risultato principale che si era prefissa: portare il bilancio dello Stato vicino al pareggio, salvare il debito pubblico italiano dal fallimento ed evitare al paese umiliazioni e sacrifici futuri ben più drammatici di quelli sopportati nel 2011 e nel 2012.

La caduta del PIL

Tale risultato ha però comportato una caduta del PIL più elevata del previsto ed un conseguente maggior tasso di disoccupazione. Secondo le recenti stime della Banca d’Italia, infatti, la caduta del PIL italiano sarebbe pari al 2,1% nel 2012 e all’1% nel 2013, mentre il governo aveva previsto una caduta di poco superiore all’1% nel 2012 ed un  lieve recupero nel 2013.

L’errore di previsione è stato in realtà commesso non soltanto dalle autorità italiane, ma anche dai principali organismi internazionali. In particolare il Fondo monetario internazionale ha di recente ammesso di aver sottostimato il moltiplicatore della politica fiscale[1]. Nel caso dell’Italia bisogna considerare che i governi Berlusconi e Monti nel 2011 e nel 2012 hanno imposto manovre fiscali particolarmente restrittive ad un’economia già fiaccata dalla grande recessione del 2008-2009 (caduta del PIL pari al 7%). Mentre in condizioni normali le famiglie reagiscono ad un aumento delle tasse riducendo i risparmi per difendere il loro tenore di vita, nel 2012 molte famiglie italiane, avendo già utilizzato in passato le loro riserve finanziarie, hanno dovuto ridurre i consumi. E’ questa una possibile spiegazione del livello più alto del moltiplicatore e della maggior caduta dei consumi e del PIL rispetto alle previsioni iniziali. Un comportamento analogo hanno del resto seguito le imprese, che hanno resistito il più possibile alla crisi del 2008-2009 limitando i tagli agli investimenti e all’occupazione, ma che poi hanno dovuto cedere le armi in seguito alla nuova recessione iniziata nella seconda metà del 2011, contribuendo così al calo della domanda aggregata.

Conclusione

La politica del rigore del governo Monti ed alcuni interventi provvidenziali della BCE hanno per ora scongiurato il default dello Stato italiano. Rimane però aperto il problema del rilancio dell’economia. Per questo sono necessarie due condizioni: a) un aumento della competitività delle imprese italiane e quindi delle esportazioni per impedire che il ritorno alla crescita si tramuti in un disavanzo della bilancia commerciale e quindi in un nuovo indebitamento con l’estero di banche, imprese e Stato; b) una politica europea di vera integrazione economica, monetaria e finanziaria e di maggiore solidarietà nei confronti dei paesi e delle regioni più deboli.


[1] Cfr. IMF, World Economic Outlook cap. 1, Box 1.1, Are We Underestimating Short-Term Fiscal Multipliers?, ottobre 2012. Dopo il 2009 il moltiplicatore fiscale (indichiamolo con m) avrebbe assunto un valore di circa tre volte superiore a quello stimato per i periodi precedenti (tra 1,2 e 1,7 invece di 0,5). Ricordiamo brevemente che m misura l’effetto finale di una variazione della spesa pubblica o delle entrate fiscali sul PIL. Ad esempio, se lo Stato riduce la spesa pubblica di 100 euro (o aumenta la  tassazione di un importo analogo), il PIL diminuirà di 150 euro con m =1,5 , ma soltanto di 50 euro se m è 0,5. Il valore di m dipende a sua volta da diversi parametri, fra i quali in particolare la frazione di reddito destinata al consumo (indichiamola con c). Quanto più alta è c tanto maggiore sarà m

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