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Il governo Monti, la monocultura finanziaria, i giovani e l’afasia letteraria

Creato il 26 gennaio 2012 da Autodafe

di Cristiano Abbadessa

Ieri sera mi è capitato di sentire un viceministro dell’attuale governo che spiegava in tv come bisognasse “tenere conto della vastezza della questione”. Sarà stata una di quelle scivolate che capitano parlando, nell’estrema indecisione della scelta fra “ampiezza” e “vastità”, posso sperare. Anche se, per istinto, non ho potuto fare a meno di inorridire; d’altra parte, ho moti scomposti e istintivi quando sento maltrattare l’italiano dalle “seconde voci” delle telecronache calcistiche (e si tratta di ruspanti ex giocatori, a malapena andati oltre la scuola dell’obbligo), figuriamoci se mi potevo reprimere quando ho sentito sbandare un “professore” della nuova presuntuosa aristocrazia.
L’episodio, però, si è subito trasformato in riflessione più ampia. Perché questi saranno pure “professori”, ma non sarebbe mai male ricordarci di quali materie. Per cui, lo scivolone di un tecnico di questioni finanziarie può anche risultare più spiegabile (un tempo si diceva che il peggiore italiano era parlato dai ragionieri), ma non si può fare a meno di soffermarsi un attimo a sottolineare il difficile rapporto tra la cultura e questo governo; in ciò degno erede, ma forse con qualche connotazione negativa in più, di chi lo ha preceduto.

Il governo Monti, la monocultura finanziaria, i giovani e l’afasia letteraria

Si veda, per esempio, l’atteggiamento di fronte all’istruzione e alla formazione; settori nei quali mi pare esista una lettura meramente strumentale della funzione della scuola e dello studio (un tempo avremmo detto: funzionale al Sistema). In sostanza, studiare serve solo ed esclusivamente per preparare il proprio futuro professionale; e se la futura professione non prevede una preparazione scolastica particolarmente lunga, si cominci a 16 anni con l’apprendistato e la formazione specifica. Come ha suggerito un altro viceministro, lo stesso che ha dato degli sfigati a coloro che a 28 anni studiano e non si sono laureati.
Appartengo, decisamente, a una generazione che si è formata in un contesto diverso. Quando lo studio era confronto con la cultura, e l’accesso scolastico si pretendeva fosse aperto a quanti mostravano interesse prima ancora che attitudine, rinviando la scelta del proprio futuro professionale a tempi più maturi dei 16 anni (che poi, in una società con scarsa mobilità sociale come quella italiana, il più delle volte vuol dire replicare le scelte familiari senza alternative). E quando c’erano moltissimi studenti universitari di 28 anni o più, magari perché erano studenti lavoratori, che non sempre lavoravano per pagarsi gli studi ma a volte studiavano oltre a lavorare, senza particolare prospettiva di avanzamento professionale, per il puro gusto di farlo e migliorare la propria cultura.
La scarsa attenzione per la cultura e l’istruzione, peraltro, non emerge solo da questa visione rigidamente strumentale di una formazione che o è finalizzata a un futuro sbocco professionale o non è nulla, così come non si traduce solo nella valutazione meramente aziendalista dell’efficienza di insegnanti e dirigenti scolastici. Perché, sarà il caso di ricordarlo ai distratti, questo governo continua per esempio a tagliare e accorpare classi, mentre ben si guarda dal cancellare l’acquisto di aerei da guerra. E qui il problema si fa più complesso e più interessante. Infatti, queste stesse scelte compiute dal governo precedente suggerivano a molti che c’era qualche ministro che da sempre covava il sogno di mostrare i muscoli e giocare alla guerra, così come tanti fra i governanti di allora sembravano considerare la scuola un covo di insegnanti comunisti traviatori di giovani; e le scelte a loro modo si spiegavano, e naturalmente suscitavano le aspre e consapevoli reazioni di chi aveva del mondo e delle priorità una visione del tutto diversa. Ma oggi, avvertendo che queste scelte sono solo frutto di un calcolo opportunistico e strumentale (faccio quadrare i conti, sommo obiettivo, intervenendo laddove è più semplice e dove urto meno interessi forti), molti si trovano davvero spiazzati.
Qui entra in ballo la nostra letteratura e quel che vediamo dal nostro osservatorio privilegiato. La sensazione, suffragata appunto dal rapporto coi nostri aspiranti autori, è che si stia verificando una sorta di gelata della passione civile. È infatti certo che molti, anche banalizzando, vedevano nella precedente classe di governo la rappresentanza di un’Italia che non ha la cultura in simpatia, che la considera fronzolo e orpello, che si richiama a radici “popolane” e “volgari” nell’accezione meno nobile di questi termini; mentre in realtà quella classe politica era la fedele e plastica espressione di una certa cultura, di valori e modi di vivere veicolati, e talora imposti attraverso la comunicazione, nel corso di un buon paio di decenni. A questa cultura, o anticultura che dir si voglia, una buona parte della società civile si è vigorosamente contrapposta, creando e divulgando una diversa visione delle cose e una diversa scala di valori. Tra le due parti, con forme e sensibilità diverse, si è in ogni modo mantenuto aperto un confronto che si è espresso anche, appunto, attraverso la creazione letteraria, la narrazione attenta alle dinamiche sociali.
Oggi tutto questo sembra venir meno. Perché il clima sociale dominante non oppone due diversi modi di essere e di pensare, ma veicola la supremazia inevitabile di una scienza algida: quasi che le leggi dell’economia e della finanza fossero le Tavole scolpite da mano divina sul Sinai e non il frutto di scelte politiche e filosofiche. La nuova Grande Paura, con i suoi dogmi e i comportamenti riflessi, sembra aver silenziato le coscienze e le menti, inaridendo o spiazzando la capacità critica e creativa.
Si respira, in Italia e in Europa, la scorata sensazione di chi ha recepito il messaggio che i nuovi tecnocrati sono riusciti a trasmettere: un altro mondo non è possibile. Non si tratta più di scegliere da che parte stare, o di ragionare su nuovi scenari, ma di conformarsi all’inevitabile, alla suprema legge che tutto determina. E chi non sta alle regole, chi pretende di ragionare prima di costruire il proprio futuro, chi mostra una pericolosa curiosità intellettuale, è uno sfigato.


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