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Il grande Gatsby

Creato il 20 giugno 2013 da Af68 @AntonioFalcone1

gteegfFilm d’apertura al 66mo Festival di Cannes e quarto adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald (The Great Gatsby, 1925) dopo le trasposizioni datate 1974 (Jack Clayton), 1949 (Elliot Nugent), 1926 (Herbert Brenon), Il grande Gatsby, diretto da Baz Luhrmann (anche sceneggiatore, insieme a Craig Pearce), non mi ha particolarmente convinto, avvertendo come principali emozioni un senso generale di straniamento visivo e qualche momento di noia frammisto ad un vago interesse, in particolare riguardo l’interpretazione offerta da Leonardo DiCaprio nei panni di Gatsby, capace di conferire al personaggio le sfumature proprie di una personalità contraddittoria, pur se lontane da una suggestione concretamente introspettiva.

Tobey Maguire

Tobey Maguire

Personalmente non mi sono mai scandalizzato per la trasposizione sul grande schermo di opere letterarie, in particolare se più che seguire fedelmente il testo si riesce a coglierne lo spirito, adattandolo alla propria interpretazione autoriale, offrendo al riguardo una coerente caratterizzazione, così come mi ha sempre affascinato la contaminazione fra più generi musicali, quindi non mi straccio le vesti per la mescolanza tra jazz ed hip hop della colonna sonora (opera di Craig Armstrong, con l’apporto del rapper Jay Z).
Più semplicemente, ho avvertito la mancanza durante la visione del Luhrmann’s touch, la sua sfrontata ma seducente rivisitazione dei canoni narrativi tradizionali, qui assolta solo formalmente tramite una messa in scena sin troppo rutilante e chiassosa, in costante dicotomia con una sorta di rispetto per la letterarietà della pagina scritta, seguita spesso attraverso modalità didascaliche e cogliendone meccanicamente la dualità sogno/realtà espressa da Fitzgerald, stemperandosi a livello cinematografico in un pragmatico classicismo.
Leonardo DiCaprio

Leonardo DiCaprio

La vicenda ha inizio in un nosocomio dove Nick Carraway (Tobey Maguire), avvinazzato e depresso, narra allo psichiatra, anzi mette per iscritto su invito di quest’ultimo, quanto accaduto anni prima, nella primavera del 1922, quando, aspirante scrittore, si trasferiva dal Midwest a New York, precisamente a Long Island, West Egg, prendeva possesso di una modesta dimora ed iniziava una carriera di agente finanziario.
Sull’altra riva, East Egg, abitava la cugina Daisy (Carey Mulligan), sposata con Tom Buchanan (Joel Edgerton), facoltoso possidente giocatore di polo ed impenitente donnaiolo, mentre oltre la siepe del proprio giardino a far da confine, si ergeva maestosa la villa del misterioso Jay Gatsby (DiCaprio), pronta ad accogliere ogni sera opulenti raduni di gente facoltosa.
Invitato ad uno di tali ricevimenti, Nick aveva modo di conoscere l’affascinante padrone di casa, del quale diveniva ben presto amico, condividendone ogni segreto, come l’amore mai sopito per Daisy, nella convinzione di poter recuperare il passato ed adattarlo alle sue esigenze …
Carey Mulligan e DiCaprio

Carey Mulligan e DiCaprio

La Jazz Age essenzializzata nel romanzo, il periodo di speculazione immediatamente successivo al Primo Conflitto, cui seguirà la Grande Depressione, che vedeva protagonista la “generazione perduta” nel coltivare il proprio sogno di una prosperità fittizia, fra gioventù e bellezza, decadenza ed imminente dissoluzione, resta inevitabilmente sullo sfondo, così come la contrapposizione nel perseguire da parte di Gatsby, pur con una condotta di vita non proprio adamantina, un personale ideale da “puro di cuore”, aperto alla speranza e all’anelito illusorio di un passato che non potrà più tornare, salvo far risaltare entrambe le tematiche alla bisogna, quasi un contrappunto intimista e dolente espresso in qualità d’intervallo al frastuono generale. Frenetico e ridondante nei movimenti di macchina, con insistite riprese dall’alto, Luhrmann pur affidandosi al carisma di DiCaprio (mentre Maguire appare sin troppo “stranito senza un motivo” e la Mulligan realizza solo in superficie la “noncuranza” di Daisy) offre una modernizzazione sofferente di una visionarietà artefatta, fredda e programmatica, alla lunga stancante, che non riesce a concretizzarsi come vera e propria cifra stilistica.

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Quando il film prende momentaneamente le distanze dall’eccesso ad oltranza, e si concentra sui personaggi (come il primo incontro tra Daisy e Gatsby, o il dialogo chiarificatore nella stanza d’albergo con Tom), sembra acquisire un maggiore respiro, i movimenti della mdp appaiono più meditati, in particolare nei primi piani, e si scrolla di dosso quella ridondanza “ricca solo della visione di sé”, riprendendo e parafrasando le parole di Fitzgerald.
Ma intanto la sensazione di un procedere per accumulo ha preso consistenza e si giunge stancamente ad un finale capace comunque di colpire, con quel corpo galleggiante nelle acque della piscina, ormai in fin di vita, sacrificio estremo e amara ricompensa di chi ha creduto “nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi”, nel vagheggiare di poterla prendere in mano (“Ci è sfuggito allora, ma non importa: andremo più in fretta domani, allungheremo ancora di più le braccia … e una bella mattina …”), la quale fa sì che “continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato”. Che dire in conclusione? Un film da vedere e, probabilmente, da dimenticare, un giro sin troppo lungo su un vorticoso ottovolante, che a volte si ferma a mezza quota, per poi riprendere a ruotare, spinto dalla forza d’inerzia di una pomposa vacuità.


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