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Il maiale salta lo steccato degli Schwartz

Creato il 28 dicembre 2011 da Massimo

Dopo le recensioni sulla fiducia, oggi inauguriamo una nuova categoria di recensioni, ovvero quelle che “prima è meglio se leggi il libro”, perché se leggi questa recensione e non hai ancora letto il libro magari poi ci rimani male.

Potremmo fare così: tu leggi la recensione anche se non hai letto il romanzo, poi quando sto per scrivere contenuti nocivi alla tua salute di lettore che vuole gustarsi questo libro, allora inserisco una parola chiave il cui significato è: “Attenzione! Quello che seguirà è un commento ostile, però il romanzo merita lo stesso, ok?” 

La parola chiave di questa recensione è: “il maiale salta lo steccato”.

Svolgimento:

A volte ti chiedi come sia possibile che prima di essere pubblicati certi libri siano scartati da più di venti case editrici e pensi non è vero, non ci credo, è impossibile, poi ti ricordi dei tuoi inizi, allora pensi va bene, può essere, però insomma, ma in che mondo viviamo?

Certi testi sono così oggettivamente belli che come fa un editore ad essere così sbadato? Cosa legge al posto dei manoscritti? Possibile che tutti e venti gli editori che hanno letto “Gli Schwartz” di Matthew Sharpe erano tutti e venti ubriachi?

Peggio per loro, e meglio per l’editore che lo ha pubblicato per primo, visto che poi questo libro è entrato nella classifica dei bestseller in America che certo, la classifica dei bestseller non è mica sempre sinonimo di qualità – vedi classifica bestseller nostrani – ma in questo caso è proprio così.

Il maiale salta lo steccato degli Schwartz

Due cuori e una capanna con i fiori

In questo caso, oltre all’autore e all’editore, a guadagnarci è soprattutto il lettore, che appena apre il libro si ritrova dentro un romanzo illuminato da una scrittura esemplare, di quelle che ogni tanto ti fermi a rileggere ciò che hai appena letto, perché ci sono delle frasi che ti hanno colpito ma non ti hanno fatto male, e questo è un dono che personalmente non trovo mica in tutti i libri che leggo, altrimenti non sarei qui a scriverne.

“Gli Schwartz”, pubblicato in Italia da Einaudi, è un romanzo doloroso ma scritto con una penna a sfera, di quelle con la punta arrotondata che non aggrediscono il foglio e meno ancora il lettore. “Gli Schwartz” è il nome di una famiglia al cui vertice troviamo il padre, Bernie Schwartz, un uomo sull’orlo avanzato di una crisi depressiva: il divorzio è ormai lontano anni luce così come la ex moglie, Lila Munroe, domiciliata a Heart Valley, California, mentre la famiglia Schwartz si trova a Bellwether, Connecticut. Non so se con questo ho dato l’idea della distanza, ma se in geografia siete esperti quanto me, posso dirvi che per passare dalla California al Connecticut è necessario andare  in aeroporto.

Lila Munroe è lontana dalla famiglia Schwartz, mentre Bernie Schwartz è vicino alla sua famiglia, ovvero i due figli Chris e Cathy.  Il primo è un ragazzino di diciassette anni inquieto e ribelle sia alla vita che all’acne. Con la prima è ancora in fase di studio e cerca di fronteggiarla come può, con la seconda invece ha già capito che non c’è più niente da fare.

Chris Schwartz non può più fare niente nemmeno con la sorella Cathy, adolescente ribelle come lui ma solo verso l’ebraismo, che cerca di combattere con un’ostinata fede cattolica nella sua forma più teorica, ovvero quella non praticante, essendo la famiglia Schwartz ebrea.

Bernie Schwartz è dunque l’elemento adulto che si prende cura dei propri figli anche se l’unica cosa che riesce a prendere è il Prozac, fino al giorno in cui non lo prende più perché riesce a prendersi un ictus, seguito da un coma; al suo risveglio saranno i suoi ragazzi a rieducarlo al mondo: insieme ricominceranno a dare i nomi alle cose, agli alberi, alle nuvole e alla morte. Insieme capiranno la differenza tra un abbraccio e uno stupro. Insieme canteranno poesie e fumeranno sigarette al mentolo. Insieme scopriranno “tutte le cose del mondo” grazie anche alla lista compilata dal migliore amico di Chris, Frank Dial, e all’aiuto scrupoloso ed efficiente della dottoressa Danmeyer.

Questo libro di storie dentro alle storie, contiene lacrime, risate, riflessioni, biciclette, eredità, oceani, santi, macchine, suicidi, alberi, domande, stelle, pistole, cambiamenti, sesso, ospedali, mail, poesie. Questo libro contiene la storia di una famiglia che ne passa di tutti colori come se passare tutti i colori fosse il normale paesaggio che si vede dal finestrino della macchina mentre si percorre la strada della vita. Questo libro contiene frasi un po’ come quest’ultima però completamente diverse, era solo per fare un esempio più brutto possibile.

Ecco perché, se dovessi proprio trovare qualcosa di brutto in questo romanzo, e badate bene che qui il maiale salta lo steccato, potrei dire che “Gli Schwartz”, romanzo di Matthew Sharpe, attualmente docente di scrittura creativa alla Columbia University, a volte pecca un po’ troppo di scrittura creativa: sebbene esemplare in quanto a costruzione, non è sempre immediata agli occhi del lettore.

Certe costruzioni di frasi che per avere un senso potrebbero fare il loro effetto già da svestite, vengono rivestite da Matthew Sharpe con giri di parole che talvolta le appesantiscono, privandole del loro significato originale.

Certo, ce ne fossero di scrittori che rivestono le parole come il nostro amico Matthew Sharpe. Autori che incartano le frasi come se fossero un regalo e poi ci mettono anche il fiocco. Però diciamo che non è sempre necessario incartare tutte le parole, a volte basterebbe anche solo consegnarle nello stato in cui si trovano nella mente dell’autore.

Ora guardatevi intorno: c’è il maiale che sta saltando lo steccato. La diretta conseguenza di questo tipo di scrittura, sono i personaggi: a parte il padre Bernie, che per buona parte del romanzo parla come un uomo che è appena uscito da un coma dopo un ictus, il modo di porsi del resto della famiglia compresi tutti i personaggi di contorno è piuttosto inverosimile.

È impossibile che tutti quanti in questo libro, anche nelle parti più impreviste, abbiano un uso della parola che sembra studiato a tavolino però con davanti un leggio. Meno ancora è possibile immaginarsi una tale profondità di pensieri in bocca a due ragazzini, che per quanto intelligenti, non ce li vedo mica a parlare così a sedici e diciassette anni. I ragazzini di quell’età che conosco io parlano tutti in un altro modo. Però non sono mai stato a Bellwether, Connecticut. Magari la mia sensazione è dovuta a un’errata percezione di moto: dovrei iniziare a viaggiare di più.

Lode dunque a Matteo Colombo che ci ha fatto viaggiare traducendo così bene la complessa scrittura creativa di Matthew Sharpe, e lode all’autore, che ignorando tutti questi maiali che mentre scriveva gli saltavano dallo steccato, è riuscito comunque a creare un ottimo romanzo, di quelli che si divorano al posto del cibo quando hai fame e in frigo non hai niente, però hai libri come questo sul comodino, che per noi lettori esigenti è sempre un gran bel nutrimento.

Tuttavia, se a uno gli piace il maiale e in tema di carne non riesce a fare l’indifferente, possiamo aggiungere che il passaggio prima e dopo ictus di Bernie è troppo veloce. Il lettore non fa in tempo a conoscere Bernie, che ben presto se lo ritrova in un letto di ospedale, in coma, e subito dopo nulla è più come prima.

Io da lettore avrei preferito affezionarmi un po’ di più al personaggio di Bernie, prima di godermelo rintronato. Avrei voluto conoscere meglio Bernie Schwartz prima del coma, perché per quel poco che mi aveva fatto scoprire Matthew Sharpe, Bernie Schwartz mi era sembrato uno su cui contare, una figura curiosa e tutta da scoprire. Invece così ho scoperto poco o niente. Non sono riuscito a fare troppi paragoni tra il prima e il dopo. E quando un lettore non riesce a fare paragoni, come quando il maiale salta lo steccato, un po’ ci rimane male.

Ci sono così tanti colpi di scena uno dietro l’altro in questo romanzo, che come minimo Matthew Sharpe avrebbe dovuto prevedere almeno seicento pagine in più, tanto la fatica sarebbe stata solo del traduttore, il lettore di certo non se ne sarebbe mica accorto.

Al contrario, il lettore avrebbe apprezzato, e in questo caso avrebbe pure evitato di scrivere recensioni come questa, con maiali che saltano da tutte le parti, quando invece l’unica cosa che deve saltare all’occhio è solo la straordinaria avventura della famiglia Schwartz, una storia che come tutte le storie non è immune da difetti, perché diciamo la verità: chi non ne ha?

 

Al padre di Chris Schwartz dovettero sbagliare la dose di Prozac, perché un giorno, svegliandosi, si ritrovò il lato destro della faccia addormentato. Fu la seconda scoperta di un viaggio che il padre di Chris aveva intuito l’avrebbe portato a chilometri di distanza dal rifugio provvisorio della salute. La prima scoperta era stata, naturalmente, quella depressione per cui il Prozac avrebbe dovuto essere la cura, scoperta compiuta non da Bernard Schwartz ma da suo figlio, Chris. Era stato Chris a rendersene conto per primo, perché così andavano le cose in quella famiglia. L’anima del padre e l’anima del figlio erano collegate per analogia. Non esisteva tic o sbalzo d’umore dell’uno che non fosse rappresentato anche nel suscettibile bagaglio dell’altro.



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