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Il meglio del rock italiano è rappresentato sempre di più dai Verdena

Creato il 09 ottobre 2015 da Giannig77

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(posto in anteprima sul mio blog un articolo che presto potrete leggere anche sul sito di Troublezine, per cui collaboro)

http://www.troublezine.it/

Qualche anno fa, poco dopo l’uscita di “Wow”, quinto lavoro in studio dei bergamaschi Verdena, li definii nel titolo: “Verdena: la più grande rock band italiana (?)”.

https://giannivillegas.wordpress.com/2011/10/10/verdena-la-piu-grande-rock-band-italiana/

La recensione altamente positiva poteva altresì fugare ancora qualche dubbio, come del resto quel punto di domanda fra parentesi, ma a distanza di altri due dischi, usciti nello stesso anno e strettamente correlati (“Endkadenz vol.1” e il recente “Endkadenz vol.2”), la nebbia critica che pervadeva il mio sommario giudizio si è come dissolta e ora mi sento pronto ad affermare con più sicurezza la loro egemonia in fatto di rock italiano.

Intendiamoci, non che i due volumi sopracitati si discostino poi molto per qualità dal precedente, ma a farmi trarre questa conclusione è l’analisi completa e accurata della loro ormai ricca discografia.

Cos’è che rende così speciale il loro percorso, il passaggio graduale ma inesorabile da ruggente e diretta “teen rock band” (all’epoca del loro precoce esordio in odor di grunge nostrano) ad appunto l’appellativo di miglior band italiana?

Non è solo per la loro ormai riconosciuta attitudine lo-fi, per l’ essere schivi (o scontrosi, nella loro più estrema declinazione, a seconda dei casi), per un attaccamento profondo alle radici e alla vita spesa in provincia (proprio loro che già dal secondo album “Solo un grande sasso” hanno contribuito a de-provincializzare il rock italiano, con soluzioni sonore che poco o nulla avevano da invidiare alle produzioni internazionali “giuste”) o per la coerenza. No, o meglio, è un po’ di tutto ciò messo insieme e centrifugato, a fare da contorno alla splendida commistione di musica e parole (sì, anche quelle a tratti inintelligibili del carismatico leader Alberto Ferrari), a rendere sempre più appetibile di volta in volta, di disco in disco, le leccornie sonore date in pasto agli ascoltatori.

Allora, il surplus che rende i Verdena qualcosa di “altro” dai vari nomi in voga del rock italiano, dai Ministri al Teatro degli Orrori, dagli Zen Circus alle Luci della Centrale Elettrica, è da ritrovare nella costante, continua ricerca da parte del trio dell’opera perfetta. Una mission impossible per chiunque, anche per i più scafati mostri del rock, ma vitale nel loro caso, spinti come sono da una curiosità ancora lungi dall’essere scalfita.

Vogliamo parlare dei pezzi? O dell’evoluzione di questi?

Dell’esordio eponimo abbiamo prima accennato: due ragazzini e una ragazzina scatenati e brutali, veri ed espliciti nella loro infuocata rassegna di canzoni – ormai purtroppo quasi assente dai live – e credibili nel proporre un rock debitore dei Nirvana come dei Marlene Kuntz.

Clamoroso il singolo apripista, quello con cui si fecero conoscere, facendo sobbalzare più di una sedia occupata da chiunque avesse avuto dai 15 ai 18 anni nel 1999. “Valvonauta” imprime forza e fa scuotere, ammalia con quei colpi secchi di batteria, le chitarre sferraglianti e l’interpretazione urticante, cruda, con un registro che varia da canto a grida. In questo era possibile riconoscere in Alberto una stretta parentela artistica con Kurt Cobain ma in realtà il disco si dipanava poi in tracce dove a risaltare era più la melodia cristallina spezzata dall’incedere rock che non la disperazione. Alludo ad esempio alla briosa “Viba” e al singolo mancato “Ovunque”– che possedeva tutte le caratteristiche per diventare una hit per discoteche indie –  o a una “Pixel” che rimandava invece agli Smashing Pumpkins.

Insomma, c’erano tutte la carte in regola per tramutare i Verdena in un prodotto a uso e consumo dei giovanissimi, in grado di soddisfare le istanze degli adolescenti più alternativi ma di contro la critica poteva avere delle remore su un loro futuro all’insegna di grandi dischi.

Un primo distacco da questa fase iniziale lo si avverte però sin dal secondo disco, più lavorato e dietro al quale sedeva dietro la consolle Manuel Agnelli, all’epoca ancora carente di esperienza come produttore (anche se aveva già magnificamente lavorato a pregevoli dischi di Cristina Donà e degli Scisma) ma in forte ascesa da leader dei milanesi Afterhours.  Nonostante la personalità straripante di Agnelli però, quello che ne uscì (“Solo un grande sasso”) fu pienamente accolto e sostenuto da un gruppo ancora alla ricerca di un proprio ruolo e di una propria identità. Non è un brutto album, intriso com’è di malinconica psichedelia (a partire da “Spaceman”), ma forse era prematuro e un tantino azzardato discostarsi così notevolmente dalle felici intuizioni del loro disco d’esordio.

L’esplosione su vasta scala – a patto che in effetti la cercassero, e la storia certificherà poi chiaramente di no – non arrivò ma il gruppo fece comunque tesoro di quell’esperienza, traendone spunti e giovamento per il successivo passo.

Intanto però dal vivo le loro performance si erano consolidate, le tappe su e giù per l’Italia non si contavano più, sempre incoraggiate dall’affetto crescente di un pubblico spesso affine e allo stesso tempo (o forse proprio per questo) esigente. La “freddezza” di Alberto era ben compensata dall’esuberanza della fascinosa bassista Roberta Sammarelli e dalla risolutezza del fratello Luca dietro i tamburi. Nessuno si risparmiava e agli occhi e alle orecchie della gente ciò che veniva trasmesso era un grande show, senza compromessi, capace di assorbire ed avvolgere.

“Il suicidio del samurai” del 2004 è il disco che per primo fa intravedere sin dove potranno spingersi i Verdena. E’ probabilmente l’ultimo album “agevole” all’ascolto, con tracce fatte e finite e per lo più accessibili e riconoscibili nella struttura (quasi elementare se pensiamo alle efficaci “Luna” e “Mina”) ma all’interno sono inserite delle canzoni che si discostano eccome dagli standard in voga nella pur frastagliata scena indie rock italiana (pensiamo a “Balanite” e alla lunga e sfuggente “Glamodrama”, che sembra anticipare certe atmosfere di “Requiem”).

E’ un disco senza punti deboli che sarà salutato col plauso della critica specializzata che d’ora in poi ne farà una sorta di beniamini da salvaguardare, alla stregua dei Radiohead per dire, e pure da un pubblico sempre più copioso e affezionato, non solo quando si tratta di assistere ai concerti, se è vero che allo zoccolo duro se ne aggiunsero altri al punto da farli diventare degli habituè delle charts, dove il disco rimase per moltissimi mesi nelle prime 50 posizioni.

Con “Requiem” saltano gli schemi, le etichette, i riferimenti musicali, e le tante presunte influenze, evidenti o implicite, vengono messe in secondo piano e d’ora in poi mai più tirate in ballo. Segno palese di un’ormai affermata ragion d’essere. I Verdena sono i Verdena, non devono più render conto a nessuno, non devono giustificare ascendenze o richiamare oscure band del passato. Sono un’entità viva, in evoluzione, pulsante, incatalogabile.

Il disco in questione era il più lungo di minutaggio fin lì espresso e conteneva canzoni dove veniva pestato più pesantemente l’acceleratore sul rock.  Frutto di numerose jam sessions da dove furono poi estratte canzoni definite come “Non prendere l’acme, Eugenio” (che nel titolo “gioca” con i primi Pink Floyd), “Il Gulliver” o “Don Calisto”, tutte costituite al loro interno da una solida struttura hard psichedelica, è come detto il lavoro più oscuro, cupo e che ben poco concede agli sprazzi di luce, eppure contiene al suo esordio le prima composizione in acustico del trio: autentiche gemme del loro repertorio come “Angie” (qui l’omaggio nel titolo è ai Rolling Stone) e soprattutto “Trovami un modo semplice per uscirne”. E’ vero che i testi sono ancora di difficile comprensione e materia forte e insindacabile per i detrattori ma giunti al quarto disco ai più sono percepiti come complementari alle musiche, per non dire adattissimi, laddove Alberto è in grado di emozionare lo stesso, col suo tono e la sua interpretazione, mettendo in secondo piano la frequente mancanza di ritornelli semplici al canto o di termini chiari e collocabili all’interno di una storia. Tuttavia, non mancano di poesia in molti punti, anche se con scarse probabilità starebbero ben accostate a un altro autore e difatti non mi è mai capitato in anni di frequentazione di social vari di leggerne delle citazioni qua e là!

Il resto è storia recente. Di “Wow” scrissi giù un lusinghiero giudizio. L’album, spinto dai sempre più numerosi fans alla sua prima settimana d’uscita sino al secondo posto in classifica FIMI, è un viaggio che sembra trasportarci negli anni ’70, a livello di atmosfere, senza che possa in nessun modo risultarci datato. E’ un’opera maestosa in 2 cd per un totale di 27 pezzi (non si può certo dire che i Verdena, tenendo conto anche dei numerosi ep pubblicati a ridosso o in concomitanza all’uscita di album non siano prolifici), dove il gruppo si mette in gioco sperimentando differenti soluzioni in fase di arrangiamento e azzardando nel vero senso della parola. Ma a maggior ragione dopo l’uscita dei due volumi di “Endkadenz”, si può ravvisare come il rischio sia calcolato e non considerato un freno alla loro creatività. L’ultimo in particolare fa issare i Verdena in cima alla classifica di vendite, nonostante la totale loro assenza dai giri che contano, dalle tv (con apparizioni di anno in anno sempre più diradate e praticamente assenti da quelle generaliste, pubbliche o private), da eventi commerciali o quant’altro. Certo, alcuni potranno sostenere che sono un po’ i “cocchi” dei critici musicali ma mai come nel loro caso mi sento di dire che non c’è nulla di ragionato o di regalato. E nemmeno a me vien da fare lo snob, di non considerarli perché in fondo tutti ne parlano bene. Non sono mai stati dei ruffiani, anzi, hanno evitato spesso e volentieri situazioni di possibile “conflitto”, rimanendo sempre sé stessi, anche quando forse sarebbe bastato pochissimo per accedere a certi standard. Ma mi pare di aver capito che al trio interessa solo comporre al meglio la loro musica e mettere in scena la loro arte.

(Gianni Gardon)


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