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"Il minotauro" di Friedrich Dürrenmatt

Creato il 05 ottobre 2012 da Sulromanzo

minotauroTutti (o quasi) conosciamo il mito del minotauro. La creatura nasce dall'unione di Pasifae, moglie di Minosse, figlia del dio del sole Elio e della ninfa Perseide, con un toro. Non si tratta di un toro qualunque, bensì di un pregiato bos primigenius, regalato da Poseidone a Minosse, come segno dell'apprezzamento divino al sovrano. Il re di Creta promette di sacrificare l'animale al dio ma, vista la sua bellezza, lo risparmia per accoglierlo nelle sue mandrie. Per punizione, Poseidone fa innamorare del toro Pasifae che, per riuscire ad accoppiarsi con lui, si nasconde dentro a una vacca artificiale progettata da Dedalo. Facciamo un passo in avanti, e aggiungiamo un altro tassello alla storia: Minosse vince una guerra contro Atene e ordina che ogni nove anni sette fanciulle e sette fanciulli ateniesi vengano inviati a Creta per essere mangiati dal minotauro. Teseo, il figlio del re di Atene, si aggrega a uno dei gruppi in partenza, deciso a eliminare l'uomo-toro. 

Il mito descrive il minotauro come un'essere irrazionale, e proprio per questo Dante lo colloca a guardia del girone dei violenti (dodicesimo canto dell'Inferno nella Divina Commedia), di chi ha seguito il proprio istinto a discapito della ragione. Che questa sia la natura del minotauro è cosa ovvia, dal momento che si tratta di una creatura col corpo d'uomo e la testa d'animale. Ne Il minotauro, Friedrich Dürrenmatt pone l'accento su un altro aspetto: l'assenza di raziocinio impedisce all'essere di comprendere a fondo quanto lo circonda, ma l'istinto gli suggerisce la sua natura di creatura assolutamente unica nel suo genere. Ecco che egli si trasforma in una vittima, isolato poiché diverso, prigioniero del labirinto. Il labirinto stesso è una punizione, ma una punizione per cosa? La domanda sorge spontanea, dal momento che la risposta più ovvia è che a pagare dovrebbero essere coloro che hanno generato il minotauro, da Pasifae a Minosse, che con la sua disobbedienza a Poseidone ha contribuito ad avviare la concatenazione di eventi che hanno spinto alla mostruosa unione della moglie col toro. Ecco che il minotauro, l'"innocente colpevole", viene condannato da un tribunale di colpevoli a espiare una colpa che è addirittura antecedente la sua nascita, infelice poiché "sempre al limite della conoscenza", dal momento che non può capire a fondo i suoi sentimenti e ciò che lo circonda.

Il mito del labirinto s'ispira alla complessa struttura del palazzo di Cnosso, i cui corridoi sono abbelliti da raffigurazioni di ginnasti che volteggiano su dei tori, animali sacri per i cretesi: inoltre, il simbolo della civiltà minoica era l'ascia bipenne, in greco "λαβρις", "labirinto" appunto. Il labirinto è senza dubbio una delle figure preferite dallo scrittore svizzero, la perfetta metafora della vita, ricca di percorsi da seguire, senza sapere se troveremo mai quello che stiamo cercando (una via di fuga dal labirinto) e senza la possibilità, il più delle volte, di tornare indietro (ed è per questo che Arianna fornirà a Teseo il gomitolo, per trovare l'uscita una volta ucciso il minotauro). Il labirinto è costituito da specchi, nei quali il minotauro si riflette, senza capire che quella è la sua stessa immagine: crede esistano degli altri minotauri e, per un momento, si sente meno solo. Non è finita: egli avverte che quel labirinto è una sorta di castigo. Quando nella sua immagine riflessa crede di vedere altri minotauri, o quando Teseo si presenta travestito da minotauro per colpirlo a tradimento, percepisce che il castigo è terminato, che non è più costretto a pagare per essere l'unico nel suo genere e danza "il tramonto del labirinto, lo sprofondare fragoroso di pareti e specchi nella terra": ma l'immagine è pura illusione, così come è illusione ogni tentativo di fuga e l'idea che sia giunta la fine della sua espiazione.

Per Dürrenmatt,  il labirinto è il mondo in cui è nato, incomprensibile, che "dichiara colpevoli gli innocenti e le cui leggi sono ignote". Ma lo scrittore si identifica anche con Dedalo, il costruttore del labirinto, poiché "ogni tentativo di farsi padroni del mondo in cui si vive, rappresenta un tentativo di creare un antimondo, in cui il mondo cui si intende dar forma resta preso come il minotauro nel labirinto".

E se il minotauro fosse un'invenzione? E se anche fosse esistito, chi ci dice che a uccidere i giovinetti ateniesi sia stato proprio lui? Per Dürrenmatt queste sono domande lecite, perché così com'è difficile uscire dal labirinto, altrettanto improbabile è giungere al suo interno; inoltre, avendo la testa di un ruminante, è logico pensare che il minotauro si cibasse d'erba e non di carne. Di conseguenza, perché spedire degli esseri umani nel labirinto? La risposta, secondo Dürrenmatt, è da individuare nel senso di giustizia di Minosse, e nel suo amore per il minotauro: la creatura potrebbe anche essere suo figlio (in passato non esistevano certo i test di paternità, in più il termine "minotauro" unisce il prefisso "minos" a "taurus", con evidente richiamo al nome del sovrano). Oppure si può anche pensare che l'affetto per la sposa spinga Minosse a dimenticare il suo atto impuro e ad amare il minotauro come fosse figlio suo. A causa della forza smisurata, a cui non s'accompagna il pensiero e la capacità di distinguere il bene dal male, il minotauro avrebbe potuto creare problemi e venire di conseguenza soppresso: come poteva Minosse dimostrare al figliastro (o figlio) che l'unico modo per proteggerlo è quello di rinchiuderlo nel labirinto? Non certamente con una spiegazione, perché abbiamo già detto che il minotauro non è intelligente, non può capire. La risposta è nei quattordici giovinetti, perché confrontandosi con loro il minotauro può percepire l'ingiustizia di cui è vittima, provando l'inconscio desiderio di "diventare un uomo", il riconoscimento di sé come di essere irripetibile. La prigionia nel labirinto diventa, di conseguenza, un atto necessario, per il benessere del popolo e del minotauro stesso.

Il labirinto è, quindi, il tentativo di Minosse di produrre una sorta di auto-coscienza nel minotauro, che lo aiuti a superare l'incomprensione per il suo castigo e la conseguente infelicità esistenziale? Può darsi. Le quattordici vittime potrebbero essersi uccise a vicenda, sfinite dal continuo vagabondare, condotte alla pazzia dalla paura di incontrare il minotauro o, più semplicemente, dal labirinto stesso, prigione sia per il minotauro che per loro. Da questa prospettiva, il minotauro smette di essere il nemico, e forse il nemico non è nemmeno il labirinto: forse i nemici sono da individuare nelle immagini riflesse negli specchi alle sue pareti, perché il più delle volte è l'essere umano l'unica vittima di se stesso, indipendentemente dalla vita, di cui il labirinto è metafora, o dal minotauro, il nemico invisibile, il caprio espiatorio su cui sfogare la nostra incapacità di orientarci nel mondo.

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