Propulsione a luce sulla superficie di un vetrino
di Andrea Signori
Clic: l’interruttore scatta e la stanza si inonda di luce. Ah, il progresso! E’ un gesto meccanico. Ovvio. C’è qualcosa di più banale dell’accendere la luce? Eppure quell’insignificante clic, ascoltato con attenzione, rivela un’infinità di armoniche superiori, di suoni nascosti: il pensiero e le voci di filosofi e scienziati per i quali la luce è stata ricerca, studio, passione. Uno svogliato clic non è certo quello che si sarebbe aspettato Empedocle nel V secolo a.C., pensando la luce come un fuoco divino acceso nell’occhio umano dalla dea Afrodite. Nemmeno la schiera di scienziati che hanno dedicato decenni allo studio dell’elettromagnetismo sarebbe orgogliosa dei nostri clic distratti. Dal fuoco divino all’odierna teoria quantistica dell’interazione tra luce e materia, l’elettrodinamica quantistica (QED), passando per le equazioni di Maxwell: 2.500 anni spesi bene. E noi? Anche oggi c’è qualcuno che guarda lontano, ben oltre il clic di un interruttore da parete.
Lo dimostra l’articolo pubblicato di recente su “Nature Photonics” da un gruppo di scienziati del Rochester Institute of Technology. Grover Swartzlander Jr., Timothy Peterson, Alexandra Artusio-Glimpse e Alan Raisanen hanno costruito un “motore a luce” applicato ad asticelle di plastica delle dimensioni di un capello umano. Ma come si può inserire un intero motore in un oggetto così piccolo? Di fatto, non ce n’è bisogno: il motore è la luce stessa. O, meglio, è la sua natura corpuscolare quando interagisce con la materia a generare il moto. Un momento… natura corpuscolare?
Sì, hai letto bene. Anche la luce è soggetta alla dualità onda-corpuscolo. Si propaga nello spazio come un’onda elettromagnetica, ma quando interagisce con il mondo circostante si comporta come un insieme di particelle: i fotoni. Quindi illuminando un oggetto gli spediamo contro un fascio di particelle di luce. Quando queste “rimbalzano” contro la superficie, trasmettono una spinta, cioè esercitano pressione di radiazione elettromagnetica.
E’ possibile sfruttare il rimbalzo dei fotoni per far muovere l’oggetto? Certo. Lo dimostrò già William Crookes nel 1873, quando, pur ignorando l’esistenza del fotone, inventò il radiometro che porta il suo nome. In un bulbo di vetro sotto vuoto è sospeso un mulinello, le cui pale, costruite con sottili fogli di metallo, ruotano in presenza di luce. Un oggetto semplice, ma sul cui funzionamento si è consumato un lungo dibattito scientifico. Oggi sappiamo che le pale del mulino si muovono grazie al calore generato dal “rimbalzo” dei fotoni. Il radiometro dimostra come la luce produca agitazione termica. Se gli oggetti colpiti sono abbastanza leggeri e l’attrito con il mezzo circostante è ridotto, l’agitazione si traduce in moto.
Gli scienziati del Rochester Institute ripartono da questo punto, arrivando ben oltre. Immergono asticelle di plastica con dimensioni del millesimo di millimetro in acqua, irraggiandole con un laser. A seconda che l’asticella abbia sezione cilindrica o semicircolare, osservano comportamenti distinti. In entrambi i casi è presente il moto associato all’agitazione termica, ma per l’asticella di forma asimmetrica accade qualcosa di strabiliante, mai osservato prima: alla fluttuazione si sovrappone un moto in una direzione ben precisa. Si utilizza la luce laser come propulsore per un moto vero e proprio, non una semplice “agitazione”. Il segreto risiede nel passaggio dei fotoni all’interno del materiale e nella particolare forma della sezione.
Attraversando la superficie di separazione tra due mezzi, la luce è sempre parzialmente riflessa e parzialmente trasmessa (rifratta), in proporzioni differenti e determinate dagli indici di rifrazione dei materiali. Quindi la luce, passando dall’asticella alla soluzione liquida, in parte si riflette nella plastica e in parte passa nell’acqua. Colpendo la parete piatta dell’asticella asimmetrica, i raggi riflessi e quelli trasmessi esercitano complessivamente una spinta elettromagnetica (assente invece nell’asta cilindrica) in una direzione precisa. Un effetto analogo è esercitato dalla pressione atmosferica sulle ali di un aeroplano: la differenza di pressione tra la parte superiore e inferiore delle ali genera una spinta verso l’alto, la portanza.
La luce viene in parte riflessa e in parte rifratta attraversando le superficie di separazione tra plastica e soluzione. Grazie alla forma semicircolare della sezione, si crea una spinta complessiva dovuta al "rimbalzo" dei fotoni contro la parete piatta. (Cortesia: New Scientist)
L’asticella studiata dagli scienziati del Rochester Institute è un vero e proprio prototipo di “ala elettromagnetica”. In un’appendice al proprio articolo, Swartzlander e i suoi colleghi spiegano di avere in progetto un’estensione tridimensionale del proprio esperimento. Un efficiente sistema di propulsione che sfrutti la luce sarebbe la manna dal cielo per il futuro dei programmi spaziali. Ma Dean Alhorn, ingegnere della NASA a capo del progetto NanoSail-D, avverte: “La luce prodotta dal Sole potrebbe essere troppo debole per muovere un intero veicolo”. E’ necessario quindi esplorare altre strade e la caccia al propulsore perfetto è tutt’altro che terminata.