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Il Natale di Pupi Avati: la Vita come Metafora del Poker

Creato il 31 marzo 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Il Natale di Pupi Avati: la Vita come Metafora del Poker

Un celebre giocatore di carte disse una volta che è la vita ad essere una metafora del poker e non viceversa. È necessario però riportare che lo stesso uomo fu arrestato per debiti l'anno successivo l'enunciazione di questo aforisma e che passò il resto della sua esistenza tra le sbarre. Idolatrato fino ad arrivare ad eccessi patologici, il poker è contemporaneamente il gioco di carte che può vantare più riferimenti nell'alta letteratura. Anche il cinema ha creato il genere del "tavolo verde" e uno degli esempi nostrani più riusciti è rappresentato dal dittico Regalo di Natale (1986) e La rivincita di Natale (2004). Entrambi fanno parte dell'eterogenea filmografia del regista bolognese Pupi Avati.

L'intervallo di tempo che separa le due pellicole è di diciotto anni e questo permette una metafora quasi sconcia per la sua ovvietà ma che ci sentiamo di sottoporre lo stesso al giudizio dei lettori. Tra Regalo di Natale e La rivincita di Natale un ipotetico ragazzo è entrato nell'età della responsabilità giuridica. Se il primo film rappresenta allora la gioia del neonato da mostrare con la civetteria orgogliosa dei genitori, il secondo è invece il distacco da quella felicità innocente e l'accompagnamento verso un approccio necessariamente più cinico. "Diciotto anni dopo sono tutti bari, traditori e nessuno va assolto. In un certo senso potrebbe essere la metafora di quello che è successo in Occidente e nel nostro paese". È lo stesso Pupi Avati a suggerire una tale interpretazione puntando con questa dichiarazione sull'avvenuta presa di coscienza (la sua e quella del ragazzo di cui stiamo immaginando) della durezza della vita. Regalo di Natale è una favola amara come ogni ricorrenza di questa festività cristiana. Quattro uomini che hanno un sostrato di passato condiviso ma che nel corso degli anni si sono persi di vista si ritrovano di nuovo insieme per ordire una truffa ai danni di uno sprovveduto avvocato. In fondo questa premessa non fa che confermare ed allargare la struttura del tipico cenone parentale. Solo che i quattro ex-amici fanno un errore da borghesi: non scelgono di riunirsi in un contesto familiare che avrebbe salvato le apparenze ma lo fanno davanti a un tavolo da gioco isolato in una splendida villa che non appartiene a nessuno di loro.

Si sa, le carte, i soldi e il Natale tirano fuori il peggio dalle persone e ognuno di noi ha un aneddoto da raccontare in questo senso. Quando poi come per Franco e Ugo c'è di mezzo l'irresolubile questione Martina tutto diventa più difficile. Avati nella prima mezz'ora gioca sapientemente di rimandi facendo sì che il passato si palesi dapprima soltanto nelle frustrazioni verbali dei protagonisti. Tutti infatti fanno riferimento all'evento che ha causato la rottura del loro gruppo senza che esso compaia sullo schermo. Poi quando comincia la partita di poker appaiono i flashback rivelatori filmati con una sovraesposizione che ne denota il carattere psicologico. E allora ecco che la vicenda assume un altro spessore. Sia la truffa che il poker rischiano ad ogni minuto che passa di perdere rispettivamente il proprio tornaconto economico e il proprio carattere competitivo. Quando spuntano i rimpianti del passato non ci sono rilanci di fiche che tengano.

Il regista bolognese catalizza le sconfitte di ognuno dei cinque uomini (anche Santelia è un perdente che dietro alla lettura di Pascoli nasconde una fregola sessuale imbarazzante per un uomo della sua età e della sua corporatura) al tavolo verde. E questi improvvisati giocatori, invece di tenersi stretti i pochi punti che la vita ha dato loro, decidono chi di bluffare chi di tradire. La liturgia tradizionale del poker fatta di occhiate, sospetti, magheggi, battute sessiste si scioglie così nell'impossibile tentativo di riappacificazione tra passato e presente. Gli scorni giovanili non hanno insegnato niente a Franco e la migliore esemplificazione di questo concetto Avati la fornisce nel vero colpo di scena di Regalo di Natale. L'esercente lombardo si gioca infatti il suo unico cinema avendo già perso 200 milioni di lire. Se il riscatto era stato già impossibile con la virginale Martina (esagerata la sua idealizzazione, si veda ad esempio la scena dove chiede a Ugo prima dell'atto sessuale se le farà male, roba che nemmeno le educande) figurarsi con la faìna Santelia. Passano, come detto, diciotto anni da quella débâcle e il regista bolognese torna con piglio ormai maturo sulle vicende di quel quintetto di uomini con il sequel La rivincita di Natale. Il cast rimane identico al precedente e così possiamo cogliere i segni del tempo sulle facce degli attori come se fossero realmente quelle persone e non maschere fortuite. Diego Abatantuono dona a Franco la pesantezza composta del suo corpo e la drammaticità acquisita nel corso di una seconda parte di carriera quasi agli antipodi rispetto ai suoi esordi. Adesso egli è un imprenditore affermato e proprietario di trenta sale cinematografiche.

Il successo economico gli ha arriso ma rimane sostanzialmente preda di un rancore bilioso per la truffa subita diciotto anni prima. La malattia di Lele, un ancor più isterico Alessandro Haber, gli fornisce l'inaspettata occasione per riconvocare lo stesso parterre pokeristico. Come diceva Avati, i suoi personaggi hanno subito un'involuzione e della traccia amicale giovanile, seppur flebile, di Regalo di Natale non resta niente. Difatti, non è casuale che adesso l'evocazione del passato sia affidata unicamente ai flashback di quella partita, cioè al grande raggiro che ha certificato la fine del loro rapporto. Non più speranze tradite, ma tradimenti senza speranza. Franco questa volta capisce subito di essere il bersaglio di una nuova stangata. Pupi Avati in questo seguito olia però fin troppo i meccanismi dell'imbroglio e sposta l'attenzione dai rapporti personali ai continui colpi di scena.

Crea insomma una tensione di genere che distorce il tessuto emozionale intercorrente tra gli uomini ed anzi lo abbrutisce. Non c'è più posto per le lievi chiacchiere sulla Culona (se non un vacuo richiamo fatto più per raccordare che per nostalgia), per le fumantine discussioni da tavolo (necessarie al poker quanto le fiche), per i brandelli di canzonature. Si assiste piuttosto a una gara di sottrazione sonora tra Diego Abatantuono e Carlo Delle Piane che arriva a tracimare nella nuova moda attoriale italiana fatta di sussurri e sospiri per rendere la sofferenza dei personaggi. Questa sopraggiunta malizia nella sceneggiatura fa scaturire però anche un effetto positivo: in La rivincita di Natale, Avati si ricorda di far vincere almeno una mano a Stefano, interpretato dal sottovalutato George Eastman, alias Luigi Montefiori. Chissà che se si pensasse a un altro episodio con gli stessi attori ormai vecchi finalmente toccasse a lui sbancare!


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