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Il noir è morto?

Creato il 07 ottobre 2010 da Fabry2010

di Marilù Oliva

Al di là delle mode, i generi letterari hanno una conclusione? Se ne può fare un uso ed abuso tale da farli divenire obsoleti o ripetitivi? O si sottopongono a rivisitazioni cicliche? Se così fosse, ad esempio, il fatto che il Cinque e Seicento siano stati i secoli della trattatistica dovrebbe imporre che il genere non venga oggi più trattato, pena il rischio di replica. A tal proposito, onde evitare la ripetitività, di recente è stata sollevata da diversi scrittori l’opportunità di rompere con gli schemi del giallo e del noir. Senza dilungarci sul discorso trito che molti autori o pseudo-autori si occupano di noir per ossequiare una richiesta di mercato, la questione è: il noir è morto o piuttosto si è diffusa in alcuni casi una scrittura morta, banale, in grado di ingrigire qualunque genere? O più in generale: può un genere morire?

(le risposte sono elencate in ordine di arrivo)


Il noir è morto?

Marco Vichi
Credo che i generi letterari – anche riguardo alla loro denominazione – siano soggetti a una variabile importante, cioè l’epoca. Lo stesso genere trattato in epoche storiche diverse dà luogo necessariamente a soluzioni diverse. Oggi il noir si sta smagliando per abbracciare confini più estesi, includendo nel genere romanzi che in altre epoche non sarebbe stati classificati come tali. Succede anche per volontà degli editori, che pensano di poter vendere meglio un romanzo solo perché viene collocato nello scaffale del noir. Detto questo, penso che a lungo andare le mode letterarie rischino di obbedire a elementi stereotipati che influiscono sulla qualità dei romanzi. Per il noir, il giallo, il poliziesco, il rischio è grande: si può cadere nella pericolosa illusione che una bella trama intricata e condita di colpi di scena, studiata a tavolino, diventi senza fallo un bel romanzo. Ma non è così. La bellezza di un romanzo non è nella trama, ma nella scrittura, nello “sguardo” della narrazione. Estremizzando il concetto per farmi capire meglio, i Canti di Leopardi e la Divina Commedia non fondano il loro altissimo valore sulle storie che raccontano o nei concetti che esprimono, ma nella potenza dei versi. Le stesse cose in mano ad altri poeti potrebbero diventare banali e noiose.

Enrico Gregori
Sono per il romanzo classico, ossia il racconto di storie e di personaggi. Quindi l’elemento noir, giallo, thriller, sociale, personale, intimista e quant’altro, non è che scenografia sulla quale si incardina la storia. Viceversa c’è il rischio di far parte di un genere e legarsi alle sorti che il genere medesimo può avere presso chi legge e che ha il sacrosanto diritto di annoiarsi. Nello specifico, non credo dovrebbe morire il giallo. Dovrebbero “morire” centinaia di giallisti che scrivono senza conoscere nemmeno che differenza ci sia tra un poliziotto e un guardiacaccia.

Danilo Arona
Sembrerò drastico, nichilista, ma così la vedo. I generi sono morti, e non da oggi. Ci riflettono: in quanto uomini, iniziamo a morire dal primo giorno della nascita. Gli oggetti agonizzano non appena raggiungono il loro spazio di mercato (dietro c’è già qualcuno che pensa a con che cosa sostituirli). Libri e film muoiono nello spazio di un respiro. Perché non dovrebbe essere così con i generi? Sono morti, senza dubbio, ma mantenuti in uno stadio di sospensione stile Valdemar: il mercato e l’underground, due facce opposte di un’identica medaglia alla Frankenstein, li hanno tramutati in zombie che si agitano per colpa di una vita fittizia. Il noir ancora più morto di altri, sia per l’apparato metalinguistico che mette in campo sia per i suoi oggetti estetici o morali. L’hard-boiled Chandleriano era purissima morte al lavoro. E il western? Oggi relegato solo più al cinema con una uscita di tanto in tanto (ultima, degnissima, Appaloosa), quando si fa vedere, è un autentico funerale e, più convince la critica, più si sprecano parole come crepuscolare, tramonto, ultima frontiera, fine del mito… Poco spazio per offrire ulteriori motivazioni (l’horror in sé ne mostrerebbe a iosa…), ma per sintetizzare: sicuro, il noir è morto e, meno male, ma non sta al cimitero o dentro una bara. È uno zombie affascinante (perché i processi degenerativi funzionano come il fascino dell’incidente stradale) che offre la sua merce putrefatta a un pubblico di morti viventi, noi. Che tutto ci voglia dire scrittura banale o defunta, non è per nulla scontato. Per i generi la sintesi aristotelica tra Forma e Sostanza non deve e non può funzionare. Altrimenti gli Archetipi in letteratura mai si rivitalizzerebbero.

Danila Comastri Montanari
Qualunque “genere” viene ingrigito da migliaia di testi banali, triti e ripetitivi, dalla favola ellenistica al poema cavalleresco, dall’epica al diario intimista, dal romanzo d’avventura alla lirica erotica, il che non significa che non possa rinnovarsi. Sarà il pubblico a decidere se il noir è vivo o morto. Quando i lettori si stancheranno della solita zuppa, qualche autore inventerà certamente una ricetta più stimolante, come è sempre accaduto: i generi non muoiono, si evolvono, anzi probabilmente non esistono nemmeno, il confine tra l’uno e l’altro è troppo labile (a che “genere” appartengono veramente l’”Ulisse di Joyce, “Via col vento” di Margaret Mitchell, l’”Amleto” di Shakespeare e”Harry Potter” della Rowling?)

Gaja Cenciarelli
Sono solita valutare un libro in base alla qualità e non al genere cui apparentemente appartiene.
Ci sono romanzi noir cui l’etichetta di “romanzo di genere” non può che andare stretta. Per quanto mi riguarda la qualità di un libro è data sia dallo stile di scrittura che dalla storia. Sono sempre stata dell’idea che un buona scrittura equivalga a un’opera di sartoria letteraria: l’abito che veste alla perfezione la materia narrata. Quando questo accade, la storia, e con essa il romanzo, è e resta viva – a prescindere dal genere.

Vittoria A.
Io penso che il noir sia vivo ma sottoposto agli attacchi di vari pseudo-autori all’arrembaggio sostenuti da case editrici che sarebbe meglio definire stampatori. Naturalmente i generi poi si trasformano al passo con i tempi, seguendo anche le mode del momento che spesso vengono ideate, dettate e diffuse da esperti di marketing molto lontani dalla scrittura e dall’intesità di pensiero che essa necessita. Il noir e’ sempre sopravvissuto alle mode letterarie e agli autori improvvisati, ce la farà di nuovo. Quanto ad altre “mode letterarie” che di arte ne contengono molto poca, in alcuni casi sarebbe bello poter metter mettere la parola fine.

Alessandro Zaccuri
Un genere muore nel momento in cui non viene più riconosciuto dal pubblico. Non è questione di mercato, ma di percezione, se non addirittura di necessità. Il più delle volte si tratta però di una morte apparente, perché ogni genere si compone di elementi diversi, ciascuno dei quali è presente anche in altri contesti. Quando un genere diventa prevalente, come è accaduto con il noir, si è portati a privilegiare questi indizi a dispetto del contesto. L’episodio biblico di Caino e Abele, per esempio, può essere letto come un noir, ma non soltanto è un noir. Nella lettura della Bibbia, peraltro, la consapevolezza del genere è fondamentale e tuttavia da sola resta insufficiente. Potrebbe essere, forse, una regola universale.

Cristiano Armati
Tutto può morire. E quindi anche un genere, figuriamoci. Per quanto riguarda il “noir”, però, siamo sicuri che questo sia mai nato? Mi spiego meglio: nell’ultimo ventennio si è cominciato a parlare moltissimo di noir, ma secondo me quasi sempre a sproposito. Volendo ricostruire una filologia minima di questo genere, credo che bisognerebbe risalire alla letteratura verista e simbolista di fine Ottocento e riconoscere come padri nobili del noir autori come il Guy de Maupassant dei racconti o il Giovanni Verga di “Cavalleria rusticana”. Da qui possiamo risalire la corrente e arrivare fino ai giorni nostri, navigando sopratutto in quella che io chiamo la letteratura dei non letterati riferendomi in modo particolare, in questo contesto, all’esperienza narrativa del carcere e della malavita. Allora citerei autori come il grandissimo e misconosciuto Giuliano Naria, il recentemente riscoperto Giancarlo Fusco o il molto più popolare Edward Bunker per non parlare della lezione del Neorealismo, e quindi di autori come Pasolini o Zavattini. Tutti sono accumunati da un filo conduttore forte: il noir è un genere dedicato ai ladri e non alle guardie! Altrimenti si chiama poliziottesco o detective story quando, a farla da padrone, è quel particolare tipo di poliziotto che è l’investigatore privato. Se devo stare all’Italia, tra i pochi veri noir che ho avuto modo di leggere (e se devo essere sincero anche di pubblicare…) citerei “Cani da rapina” di Luca Moretti e i due libri di Massimo Lugli con protagonista Lupo. Traslando il concetto, il noir dovrebbe essere quel particolare tipo di ricerca letteraria che lavora sul lato oscuro dell’animo umano esplorando le contraddizioni del contemporaneo e osservando le condizioni ambientali e il retroterra antropologico di ciò che si configura come illegale, proibito, delittuoso o ripugnante. E da questo punto di vista mi sento di dire che il noir non è morto perché, pur vantando una tradizione importante e di lunga durata, aspetta sempre di essere rifondato.

Wu Ming 1 (Roberto Bui)
Provo a procedere con ordine.
Sì, penso che i generi (o più propriamente i sotto-generi) letterari abbiano una fine, e coincide con la fine del periodo storico in cui sono stati fenomeni di rilievo. “Rivisitarli” si può sempre, ma rivisitarli non significa resuscitarli: per gioco, per celia, per strizzata d’occhio, un autore può cimentarsi nel genere del “feuilleton” (l’ultimo che mi viene in mente è Serge Quadruppani), ma questo non resuscita il feuilleton, perché non si può ricreare il contesto (la società francese del XIX secolo) in cui il feuilleton era importante e influente, in cui era una forza economica, in cui c’era uno specifico rapporto tra l’autore e il suo pubblico. Quanto ai romanzi pubblicati a puntate sul web, non sono veri “feuilletons”, il più delle volte la somiglianza si ferma, appunto, alla pubblicazione a puntate. Non c’è romanzo d’appendice senza… l’appendice, cioè senza la stampa come mezzo di comunicazione egemone. L’età del feuilleton è l’Ottocento, oggi ci sono solo le rivisitazioni. L’epoca rivisitante non è l’epoca rivisitata. È un’ovvietà. Ecco, questo del feuilleton era il primo esempio caduto dal cocuzzolo del cranio, per dire che un genere letterario non riguarda solo quello che sta tra le pagine (il plot, le ambientazioni, certi stilemi) ma quello che sta intorno. Altra ovvietà, anzi, è la stessa di prima. Un altro esempio, il secondo che mi viene in mente: la silloge, intesa nel suo senso originario, cioè l’antologia di poesie anonime compilata collettivamente. Genere molto diffuso nel Medioevo, quando la paternità dell’autore non era ritenuta molto importante. Oggi la silloge non c’è più, anche se si tende a chiamare “silloge” anche una semplice raccolta di poesia. Quella silloge non c’è più, perché non c’è più quella società, che aveva le sue concezioni su cultura, poesia, autorialità. Certo, anche la silloge si può “rivisitare”, ma sarà un’altra cosa.
Sì, credo si possa abusare di un genere (più propriamente: di un sotto-genere) letterario fino a ucciderlo, o almeno a “devitalizzarlo”, come si fa con un dente. Un dente devitalizzato diventa insensibile al calore, ma non alla pressione. Quindi si possono continuare a scrivere romanzi appartenenti a un sottogenere devitalizzato, che saranno a-termici (anaffettivi, formulaici, banali) ma saranno comunque sensibili a una spinta, arriveranno comunque a un pubblico. Il mystery-rassicurante-con-distinta-signora-che-indaga, a mio avviso, è un sotto-genere devitalizzato, nel senso che ha rotto i coglioni ormai tanto, tanto tempo fa, credo già ai tempi di Miss Marple. Ciò non toglie che milioni di persone, in mancanza di meglio, si sciroppino da anni sempre le stesse puntate della “Signora in giallo”, tutte uguali, tutte parimenti tediose. Perché è roba innocua, consolatoria, narcotica. E la gente ha bisogno di narcotici.
Ma forse io non faccio testo, perché io non sopporto più *nessun* sottogenere dove ci sia un detective seriale, maschio o femmina che sia, giovine o attempato che sia. I detective mi hanno stufato ormai da anni. Tanto che “scindo” la produzione seriale di un autore da quella non seriale. Ho detto più volte che di Camilleri non leggo mai i Montalbano, di Carlotto non leggo mai l’Alligatore, di Lucarelli non leggo i romanzi con Grazia Negro. Quindi il libro scritto a quattro mani da Lucarelli e Camilleri, dove si incontrano Montalbano e Grazia Negro, è per quintessenza il romanzo che ho scelto di non leggere, e parlo di due autori che stimo!
Il noir è morto? Intanto, io non credo che il noir sia un genere. Questo è un grande equivoco, un equivoco (direbbe Stanis La Rochelle) molto italiano. Già all’inizio del decennio appena trascorso, gli editori italiani cominciarono a reclamizzare come “noir” romanzi che al massimo erano color cacarella, fumo di Londra, addirittura beige. Roba consolatoria e legalitaria che con il noir pochissimo aveva a che fare. Il noir è un’atmosfera, una sensibilità, una tonalità di fondo che Borde e Chaumeton cercano di “afferrare” coi loro famosi cinque attributi: “onirica, strana, erotica, ambivalente, crudele”. Il fatto è che in Italia si sono markettati come “noir” romanzi che non erano onirici né strani né erotici né ambivalenti né crudeli. Roba che era tanto “nera” quanto la “Signora in giallo”. E così si è svuotata di senso la parola, e oggi nessuno ne può più. Così, chi oggi scrive o vuole scrivere narrativa onirica, strana, erotica, ambivalente e crudele, farebbe bene a navigare al largo dall’etichetta.

Loriano Macchiavelli
Mi piace applicare una legge chimica alla letteratura. D’altra parte il cervello non è un laboratorio chimico? Dunque, secondo Lavoisier, nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma. Poi, si potrà sostenere che la creazione letteraria viene da un’idea che, prima di diventare scrittura, non esisteva e quindi è dal settecento che il buon Lavoisier ci conta balle e non è più il tempo delle favole. Opinabile. Può un’idea venire dal nulla?
Da secoli leggo, sento: il teatro è morto, il cinema è morto. La pittura, la letteratura sono morte. È morta la classe operaia ed è morta perfino la politica. Affermazioni assurde.
Un genere (ma anche la letteratura in genere) muore solo se non si rinnova. Come la quercia che vedo dalla finestra: ha trecento anni e a ogni autunno sembra avviarsi a morire, e c’è da scommettere che un giorno, fra qualche secolo, accadrà. Per ora, in primavera, si rinnova e torna più alta, più rigogliosa dell’anno precedente.
Se il genere morirà, e c’è da scommettere che un giorno accadrà, sarà solo perché gli scrittori non avranno saputo rinnovarsi. Attenzione, siamo su quella strada. Ci sono anch’io, se pure faccio sforzi tremendi per rinnovarmi. Un giorno non ci riuscirò… O forse è già quel giorno.

Valerio Varesi
No, i generi non muoiono, ma vengono rivisitati di continuo, direi storicizzati. Ogni autore, immerso nel suo tempo, piega e usa i generi come meglio crede. Scrivendo “I promessi sposi”, Manzoni ha creato un romanzo storico? Sì e no. Una lettura superficiale potrebbe farlo credere, ma in realtà ha usato una storia di due secoli prima per raccontare la sua contemporaneità. Era il suo tempo che lui aveva come obbiettivo. Poi ha tratteggiato anche una serie di tipologie umane che sono i prototipi degli italiani ancora oggi e quindi ha intercettato lo spirito di questo Paese. In questo sta la sua grandezza. Così è per il noir e il giallo. Da quando Chandler e Hammet hanno preso in mano questo registro narrativo e l’hanno tolto dai salotti borghesi catapultandolo nei vicoli e nelle bettole, questa narrativa non ha mai smesso di essere critica sociale e introspezione sul perché esiste il crimine e la violenza. La ripetitività nasce dall’uso superficiale del genere e dal non essere capaci di innervarlo con nuova linfa. Ma questo vale per tutti i generi. Quanti romanzi di formazione abbiamo letto, alcuni geniali e molti dejà vu? Tutti i generi possono puzzare di stantio se non li si interpreta e rinnova di continuo.

Matteo Strukul
Secondo me il noir in Italia non è mai nato. Esistono alcune virtuose e formidabili eccezioni: Massimo Carlotto, un autore straordinario che ha creato – è il termine corretto secondo me – un noir mediterraneo italiano che prima non esisteva, un autore che è stato nominato agli Edgar, unico italiano insieme a Umberto Eco. Poi c’è Sergio Altieri che ha invece incrociato il nero di stampo americano con accenti italiani. Altrettanto ha fatto Stefano di Marino. Dopo di che i vari Camilleri, Lucarelli, Verasani e tutto quello che vi pare: non fanno – e sottolineo – non fanno noir. Scrivono giallo o thriller. Il noir è un’altra cosa, il noir spariglia le carte, destruttura lo schema del giallo con soluzione finale, lavora sull’atmosfera, sui perdenti, sugli antieroi e non basta un po’ di alcool e qualche cicca per creare quell’aroma. Stabilito quindi, almeno secondo me, che in Italia il noir non è mai nato dico però che ci sono alcuni nuovi autori che stanno tentando, a mio giudizio, un esperimento interessante. Contaminano il genere e creano una specie di meticciato che credo possa essere una strada interessante per il futuro. Penso a Alberto Custerlina che mescola pulp, noir, avventura, gore, action, western bastardo e crea dei frullati che ricordano certi esperimenti alla Lansdale, Gishler, che sono poi autori che hanno realizzato proprio questo, un free style di generi mescolati fra loro partendo da una base noir. Poi ci metterei anche Angelo Petrella. Fatti questi esempi, direi che per il resto in Italia di noir non c’è nemmeno l’ombra. Chiudo dicendo che molti dei nostri sedicenti autori sono spesso autoreferenziali, spocchiosi e miopi, di rado si pongono nell’ottica del lettore, tendono a parlarsi addosso e a celebrare un proprio talento che è tutto da dimostrare. Insomma, magari riuscissimo oggi ad avere in Italia uno come Willocks, o almeno un Peace. Autori colti, raffinati ma umili e che magari sono tradotti in una trentina di lingue. E scrivono alla grande. Invece niente. Temo che molto dipenda dalla nostra capacità di guardarci allo specchio e metterci davvero in discussione. Almeno una volta.

Stefano Di Marino
‘I generi’, i filoni sono etichette, spesso dispregiative. Generalmente servono a critici e venditori per mettere in una casella una cosa che non sanno o non hanno la capacità di analizzare nel dettaglio. Purtroppo è diventata anche l’abitudine di molti pseudo-scrittori. Personalmente mi ritengo un narratore popolare. Scrivo e racconto storie d’intrattenimento, senz’altro fine che appassionare il lettore o me che le scrivo. Certo la divisione in generi è così radicata da diventare comunque un punto di riferimento anche per chi scrive. Quindi (soprattutto quando mi occupo di critica) non mi vergogno a definirmi un ‘esperto di generi’ indicando con questo termine solo alcune incasellature che aiutano la divulgazione. Come narratore vorrei scrivere tutti i generi e nessuno. Non credo che i generi intesi come narrativa d’intrattenimento che di volta in volta privilegiano più alcuni elementi che altri siano morti. Lo sono quando vengono affrontati da chi non ama intrattenere il pubblico ma semplicemente scriversi addosso seguendo una moda. Un esempio? Il film ‘L’americano’, un prodotto sciatto nella sua ambizione autoriale, scritto (per il cinema) basandosi alla lontana su un discreto romanzo ma girato con l’evidente intenzione di nobilitare un ‘genere’. Risultato: si capisce perfettamente che è scritto da chi ha visto forse una decina di thriller, letto un paio di libri e pensa che per attirare il pubblico con l’etichetta ‘noir’ sia sufficiente ammassare luoghi comuni sulle storie di killer . Per giunta la pretesa di realismo nella narrazione incappa in una serie di errori marchiani e implausibilità perché… tanto gli appassionati di ‘quelle robe lì’ non ci guardano… ci guardano eccome. E alcune implausibilità, in altre opere più centrate sull’intrattenimento trovano assoluzione, nel ritmo, nella trovata, nella capacità di farci sospendere la credibilità. E questo è un esempio ma, nella così detta narrativa noir o thriller italiana, questo tipo di errori sono frequentissimi. Ma non è la non-conoscenza di un genere e delle sue regole a determinarli. È l’ignoranza e, alla fine il disprezzo, per la capacità di raccontare in maniera avvincente con un linguaggio e una verosimiglianza adeguata un tipo di storia destinato a divertire. Oltre a questo il western, il giallo, il thriller, la fantascienza cambiano pochi elementi esteriori ma seguono tutti semplici regole del buon narrare. La prima? Credere e divertirsi in quello che si fa.

Andrea Carlo Cappi
I generi letterari – specialmente quelli legati alla letteratura popolare – difficilmente muoiono. Piuttosto si evolvono o subiscono la contaminazione da parte di altri mezzi (fumetti, cinema, televisione, videogiochi) che da essi sono a loro volta derivati. L’avventura e il gotico, per esempio, sono ancora vivi, anche se oggi possono chiamarsi “action” e “horror”. È stato dato per morto il western, che è poi un genere che a seconda delle storie ingloba noir, avventura, bellico e occasionalmente fantastico, trasportandoli in un’epoca precisa nel continente nordamericano; eppure ogni tanto il western ritorna, talvolta persino contaminato con l’orrore. È stato per morto lo spionaggio – che a sua volta ha a che fare con il thriller o con l’avventura – e anche questa voce era manifestamente falsa.
Che sia morto il giallo, o il noir, è una notizia alquanto esagerata. Certo, oggi sono pochi gli autori che raccontano storie di investigatori geniali che risolvono romanzi di pura enigmistica con assassini che sparano dardi avvelenati dal buco della serratura di una camera chiusa, oppure di detective dal whisky facile assunti da una sventola che entra in ufficio all’inizio della storia… Difficile raccontare oggi storie di quel genere senza usare almeno un pizzico di ironia. Il giallo o il noir moderni sono diversi.
Chi rischia di morire (di noia) sono i lettori che si sono stancati di troppi commissari-fotocopia, avvocati-fotocopia, serial killer-fotocopia… ma aggiungerei all’elenco i casi di poliziotti nevrotici reduci dal Vietnam, o le storie finto-psicologiche scritte da autrici anglosassoni a target femminile che riempiono centinaia di pagine di ripetizioni, come se le lettrici fossero decerebrate (e se non lo sono già lo diventano). Il fatto che ormai tra cinema, tv ed editoria si sfornino milioni di prodotti usa-e-getta spinge alla ripetitività e all’abuso dei cliché. Il che non impedisce che filtri di tanto in tanto qualche nuova idea su una tipologia di personaggio già sfruttata: per dirne una, il Dexter di Jeff Lindsay è una geniale variazione sul tema (abusato fino alla noia) del serial killer.
Il problema in Italia è che produttori ed editori hanno paura di cambiare e hanno idee confuse ma immutabili su ciò che il pubblico italiano “deve” volere dagli autori italiani. Glielo propinano in dosi massicce fino a quando il pubblico si adegua e crede di volere solo quello. Così, con tutta la fatica che ha fatto il giallo italiano a farsi accettare soprattutto a livello editoriale (perché a livello cinematografico e televisivo esisteva già dagli anni ’60), ora già rischia di essere dato per morto. A tutto vantaggio dei prodotti provenienti dall’estero, come avveniva prima degli anni ’90. È già accaduto con “Il codice da Vinci”, mediocre romanzo sullo stessa tema già affrontato molto meglio nel decennio precedente da autori italiani come Andrea Frezza e Stefano Di Marino… ma i loro romanzi sul tema li ho letti solo io, perché forse qualcuno li considerava “di nicchia”…

Gianfranco Cambosu
I generi letterari sono delle gabbie nella prospettiva di una certa editoria. Prevedono l’esclusione di sfumature e colori che, a mio parere, li arricchirebbero. Ciò mi pare che accada molto nei gialli e nei noir, dove l’azione e il ritmo incalzante delle sequenze dominano sulle descrizioni e su un’introspezione slegata dal filo conduttore (che è l’individuazione dell’assassino o l’esplorazione della malvagità del criminale). In molti di questi romanzi si concedono dei siparietti sul protagonista e sui suoi gusti gastronomici o su certe sue frivolezze, ma non si va a fondo. In definitiva credo che i generi non abbiano una data di scadenza se si parte dal presupposto che si può anche educare il gusto di chi legge. Ci sono autori che si sono ribellati a certe logiche restrittive imposte dagli editori, ma si procede per passi incerti o con timidezza. Del resto perché temere che un’evoluzione del genere possa scoraggiare un lettore? Parliamo di una razza che non teme i cambiamenti se contrassegnati da qualità.

Carmelo Pecora
Non è facile rispondere, soprattutto per chi, come me, alle prime armi in ambito letterario, non è entrato nell’ottica dei “generi” (tra l’altro non saprei nemmeno “collocarmi” non ritenendomi uno scrittore nel senso pieno del termine ma un semplice raccontatore di storie).
Credo però che i Gialli e i Noir non moriranno per dei motivi molto semplici.
I generi letterari sono entrati nel gergo comune dei lettori e sono talmente radicati che difficilmente se ne potranno fare a meno. Molti Editori hanno caratterizzato le loro collane proprio sui “generi” e, difficilmente, prenderanno decisioni che vadano in una direzione contraria a quella del mero interesse economico.
Gli Autori il più delle volte si adeguano a questo stato di cose e magari non provano ad uscire dagli schemi classici per il timore di non trovare consensi soprattutto da parte delle case editrici che hanno poca “voglia di rischiare”.
Insomma, in un prossimo futuro non vedo cambiamenti epocali, come sempre saranno le storie dei bravi Scrittori ad avere le meglio, magari ci potranno essere delle “contaminazioni” significative ma non intaccheranno più di tanto Gialli e Noir.
Anche se bisogna sempre tenere a mente che è il lettore che fa il mercato convinto, a torto o a ragione, di riconoscersi nei canoni ufficiali dei generi e, a volte ottusamente, non considera la discriminante più importante che dovrebbe contraddistinguere ogni sua lettura, cioè se quello che ha tra le mani è o non è un buon libro, a prescindere dal genere letterario.

Alessandro Berselli
Quello che purtroppo non è morto e che secondo me dovrebbe morire è questo bisogno di catalogazione che informa tutte la arti, non solo la letteratura. Chiamiamola semplicità di calcolo, o bisogno di sentirsi parte di qualcosa, ma davvero ha ancora senso dover far riferire tutto quello che sviene scritto, suonato, dipinto a un genere? La Nothomb è noir? E Easton Ellis? Basta un morto per diventare noir o ce ne vogliono almeno tre? E se il morto è un suicida? Quo Vadis Baby di Grazia Verasani è considerato un noir, ma non viene ucciso nessuno. Quindi? Come funziona? Non sarà che siamo tutti noir? O che non lo è nessuno?

Maurizio “ScaWeld” Landini
Non sono d’accordo sul fatto che un genere abbia una morte o che si trovi in uno stato terminale. Può avere una pausa, come, in musica, l’elettronica o certo metal. Poi c’è il guizzo, la lampadina che s’accende e tutto riparte di nuovo, con nuova freschezza, nuovo ossigeno. Ciò è vero per il fantastico, l’horror, il noir o il giallo. La scrittura si reinventa perché si nutre di vita, che è realtà e sogno. Morirebbe soltanto se morisse la vita.

Luigi Romolo Carrino
Il genere letterario serve al pubblico che legge poco per orientarsi nelle grandi librerie. Di solito è un pubblico che non usa internet e non segue l’opera degli scrittori. Al massimo uno solo.
Ci sono libri scritti bene e libri scritti male, e non si tratta di opinione. Non necessariamente i primi sono belli. E spesso capita che un libro scritto male racconti una storia avvincente.
“Travalica i generi”, scritto su ogni bandella (anche sulla mia). Post-noir, neo-noir o, per dirla fina alla Wu Ming, NIE: sono etichette per traghettare il concetto commerciale di transgenere a quello letterario, un po’ spocchioso, di originalità transmediale. Se gli autori la smettessero di rincorrere gli editori (che hanno logiche legate alla comunicazione e al marketing), e magari accadesse il contrario, molto probabilmente avremmo in Italia una qualità superiore del testo letterario. Per rompere uno schema bisogna conoscerlo, non scimmiottarlo grazie a qualche nozioncina appresa in una qualche scuola creativa. Muore la scrittura, così. E se questo accade, a chi vuoi che interessi se un genere sopravvive o meno? È mera speculazione.

Valter Binaghi
Qualche tempo fa, sul Corriere, lo scrittore di noir De Cataldo lamentava la sottovalutazione che la critica continua a riservare ai romanzi di genere, chiedendo come si dovrebbe distinguere da essi la letteratura “alta”. Io risponderei che ciò che i romanzi di genere (non tutti ma molti) fanno già benissimo è esercitare un occhio critico sull’ordine e il disordine sociale, ma ciò che ad essi per lo più manca è altrettanta profondità e spregiudicatezza nella costruzione dei personaggi, che si limitano a trascrivere da un’antropologia stereotipa, ereditata da un determinismo marxista e freudiano divenuti senso comune. Alla critica sociale che spesso si propongono come scopo corrisponde un conformismo antropologico che spesso disinnesca le bombe piazzate dalla prima. E siccome non è lo scarto narrativo nella trama o l’approfondimento complottistico della cronaca, ma lo squarcio nella prospettiva sulla vita che io chiedo alla letteratura, questa limitazione mi pare rilevante. Guardateli questi ispettori, questi mafiosi, queste puttane, questi borghesi del giallo-noir italiano e ditemi se non sono tutti uguali, televisivamente prevedibili. Uno dei pochi giallisti che personalmente mi ha scosso è l’amico Gianni Biondillo, che fin dal primo romanzo ha messo in scena un personaggio talmente desueto da risultare imprevedibile: il popolo, sissignori. Per il resto, la fauna del romanzo di genere è sempre quella che ti aspetti, ed è per questo che se cerchi la sovversione dello stereotipo psicologico e lo scarto inquietante della vita dello spirito continuerai a chiederli a Valter Siti, ma anche a Genna, piuttosto che a De Cataldo.

Diego Zandel
Rispondo, partendo dalla mia esperienza personale. Io ho scritto sette romanzi e diversi racconti, alcuni sono stati considerati noir, gialli, spy-stories e, come tali, anche, trattati dalla critica con tanto di spazio nei media apertamente di genere; altri, viceversa, sono stato considerati romanzi tout-court, così come sarà il mio prossimo romanzo in uscita “Il fratello greco”. Se però guardo al mio atteggiamento verso ciò che scrivo, mi rendo conto che, al momento in cui lavoro, non ho nessun piano preordinato: scrivo la storia che, per vie misteriose, è sorta in me, senza chiedermi in partenza se sia di genere o meno. Le urgenze che mi muovono sono altre, ed hanno a che fare con il mio mondo di frontiera, lo sradicamento, la memoria, ispirazioni tutte figlie della mia originaria condizione di profugo istriano. In questo senso, il genere è una casualità. L’interesse che mi ha mosso è questo, anche se può avere i riferimenti tecnici appartenenti a un “genere”.
Il mio atteggiamento come lettore è uguale. Per fare un esempio, il primo che mi viene in mente, ho letto “Romanzo criminale” di Giancarlo De Cataldo, che è certo, comunque, una crime-story, non come tale, bensì come un grande romanzo sociale e politico. Potrei dire altrettanto di alcuni romanzi di Carlotto. Catalogarli come genere a mio avviso sarebbe riduttivo. Non perché il genere possa essere considerato qualcosa di minore, ma soltanto perché ritengo che l’urgenza che ha spinto gli autori citati e non solo essi, è altra rispetto a quella di voler scrivere semplicemente un noir o giallo che si voglia, anche se le loro opere usano canoni narrativi e tipologie di personaggi che possono essere fatti risalire al genere. Si tratta di romanzi diversi, ad esempio, da quelli di un altro scrittore che stimo per il suo professionismo, Stefano Di Marino, che insegue e realizza con grande duttilità il genere senza l’ambizione con ciò di voler cambiare o denunciare certi aspetti di carattere sociale, politico o altro. In questo senso, finché ci saranno scrittori come Di Marino, che crede e realizza al più alto livello il genere, il genere non morirà mai. Anche se devo dire che, dopo l’innamoramento giovanile per questi scrittori professionisti, nato dalle letture di Jean Bruce, Desmond Bagley e altri grandi del genere, ormai personalmente non mi interessa più leggerli: sono talmente incazzato per la situazione sociale e alla ricerca di dare un senso alla vita, ormai così carica di anni e memorie, che dai libri cerco altro, oltre alla scrittura che sappia al meglio, nella bellezza, rappresentare questo altro.

Maurizio De Giovanni
Secondo me il genere letterario ha la stessa funzione dello scaffale della libreria per un lettore ordinato. Né più né meno. Un modo per reperire più facilmente e velocemente uno scrittore, un titolo, a volte un editore; torna comodo anche in casa, per riporre i volumi secondo un nesso più o meno logico.
Per quanto riguarda chi scrive, penso che l’idea di appartenere a un genere sia un grosso, autolesionista limite. Intendiamoci: non che non sia assolutamente fiero di essere considerato un giallista o un autore di noir, l’unica gabbia possibile per uno scrittore, come diceva Sciascia; il fatto è un altro. Il fatto è che uno racconta una storia, tutto qui: una storia, con personaggi, relazioni, fatti, avvenimenti. Che ci sia un morto, all’inizio, o un amore o un autobus che si chiama desiderio o uno scarafaggio parlante, non riesco proprio a vedere che cosa cambi.
Per cercare di rispondere alla domanda, credo che i generi cambino con l’aumentare delle contaminazioni: “I miserabili” è sicuramente un noir, come “Il conte di Montecristo” è un giallo? Il delitto è un’occasione, come qualsiasi altra passione; ed è dalla passione che nasce una storia degna di essere raccontata.

Alessandra Buccheri
Premessa: non credo che un genere possa “morire”; credo invece possibile che un genere, in un determinato momento storico, possa non incontrare più i gusti dei lettori – o meglio, del lettore medio – e cada quindi in una sorta di desuetudine. L’unico caso di genere “morto” che mi viene in mente è il poema epico in versi: credo che oggi più nessuno si cimenterebbe nella ri-scrittura dell’Orlando Furioso, anche perché presumibilmente non vorrebbero leggerlo nemmeno i parenti strettissimi dello scrittore.
Ciò detto, non penso affatto che il noir sia morto, anzi. Sicuramente ha subito una trasformazione rispetto a quello che era il significato originale, espandendosi oltre determinati paletti e adattandosi a realtà diverse da quelle nelle quali era nato (Stati Uniti e Francia, particolarmente nel cinema). Sfumature noir sono probabilmente presenti in buona parte della narrativa, senza che per questo motivo tutta la narrativa possa essere definita noir. Sicuramente l’etichetta “noir” è stata abusivamente usata da alcuni – che l’hanno ritenuto motivo di vanto o semplicemente specchietto per lettori-allodole; ed è stata altrettanto abusivamente ripudiata da altri, per motivi ideologici a me ben poco chiari.
Però: al di là dell’etichetta, sempre di noir si tratta. È come se a un certo punto un po’ di persone decidessero che quel fiore giallo con i petali bianchi con cui si fa “m’ama non m’ama” non si deve più chiamare “margherita”, perché margherita è un nome che non ci piace. Ma questo non cambia il fatto che esiste e continua ad esistere un fiore giallo con i petali bianchi etc etc. In altre parole: se “a rose by any other name would smell as sweet”, un noir, con qualunque nome lo si chiami, sempre amaro, cattivo e non consolatorio rimane.
Infine: un brutto modo di scrivere porta alla rapida morte (letteraria) dell’autore, non certo del genere; genere che, mi preme sottolineare, langue un po’ in Italia, ma altrove è vivo, sta benissimo e ringrazia per l’attenzione.

Gianluca Morozzi
Periodicamente sento dire che il rock è morto, che la formula chitarra-basso-batteria ha fatto il suo tempo e quei giri di accordi sono obsoleti. E allora arrivano il post-rock, il math-rock, e cose del genere. Poi, proprio quando ci stiamo tutti dando fuoco per tedio davanti all’ennesima scoperta del math-rock, arriva qualcuno che riprende la formula chitarra-basso-batteria e ci mostra che con quei giri di accordi obsoleti si possono fare canzoni bellissime. E quando i fumetti di supereroi sembrano mostrare la corda, arrivano un Grant Morrison o un Alan Moore a mostrare che da personaggi con settant’anni di vita editoriale si possono ricavare dei capolavori. Un genere muore fino a quando lo scrivono degli scribacchini. Poi, per fortuna, risorge senza danni.

Alfredo Mogavero
Io credo che ogni genere che sia in giro da un po’ tenda a stratificarsi in regole e strutture basilari che portano poi a essere accettate come “fondamenta” da chi vuol cimentarsi con esso. Ora, credo che la discriminante tra chi segue pedissequamente la strada tracciata da altri (non è per forza un male, eh) e chi invece apporta novità al genere sia il talento dello scrittore, ma anche la voglia di osare, di rischiare. In ciò gioca un ruolo fondamentale anche l’editore: più editori vorranno assumersi il rischio di pubblicare cose fuori dai canoni, magari facendo i conti con riscontri economici non positivissimi, e più un genere come il noir potrà trovare nuova linfa da chi vuole rinnovarlo, imbastardirlo, modernizzarlo. Di contro, la strada più sicura di attenersi al classico porterà sempre più a un livellamento di forme e contenuti, che a lungo andare soffocheranno un genere fino a che non avrà più nulla da dire. La letteratura, secondo me, è come uno squalo: per vivere deve muoversi continuamente. Se resta ferma, rischia di morire.

Strumm Scribacchino
In letteratura credo sia inevitabile che alcuni generi muoiano quando muore il contesto sociale e culturale che li ha generati, ma si tratta di fenomeni molto lenti, che si possono osservare a distanza di decine o centinaia di anni. Per altri, il noir – per fare un esempio, è evidente che si tratti di evoluzione. I generi sono semplificazioni. Come lettore sono molto affascinato dalle contaminazioni e come autore mi sforzo di ignorare certi confini, di pormi come unico limite e mandato la storia che voglio raccontare. Certo, se dovessi scrivere un libro per Harmony, avrei qualche difficoltà in più, ma in generale porre etichette è il compito noioso di chi vende.

Laura Costantini
La divisione in generi è un falso problema, una sovrastruttura organizzativa a uso e consumo degli scaffali delle librerie. Quindi non ha senso chiedere se il genere noir sta morendo, mentre è sicuramente una domanda legittima quella riguardante la banalizzazione delle situazioni. Negli ultimi tempi si assiste a una fioritura di omicidi, indagini ed investigatori che rischia sicuramente di saturare il mercato ed allontanare i già scarsi lettori. Ma il problema non è legato al genere quanto alla qualità della scrittura. Personalmente non chiedo a un noir di descrivermi nei dettagli l’analisi del DNA piuttosto che il codice di procedura penale. Voglio che il plot narrativo sia un pretesto per fotografare la realtà, per raccontarmi la società in cui viviamo e fornirmi spunti di riflessione sul lato oscuro che tutti possediamo. Autori come Giampaolo Simi, Remo Bassini, Luigi Bernardi o Paolo Grugni (cito i primi che mi vengono in mente) sono dimostrazione di come il noir sia più vivo e stimolante che mai.

Raul Montanari
Intanto bisognerebbe intendersi su cosa sia un genere letterario, cosa meno scontata di quanto sembri. Borges, per spiegare la sua antipatia per il romanzo, a cui prediligeva di gran lunga il racconto breve, osservava che il romanzo sembra quasi la forma compiuta, matura della scrittura in prosa, quella a cui un autore arriva dopo aver irrobustito il fiato con esperimenti nelle forme minori, come appunto il racconto; eppure, obiettava il genio di Buenos Aires, il romanzo come lo concepiamo noi esiste solo da due secoli, mentre un genere come il dramma pastorale, per dirne una, o il poema epico sono durati almeno due millenni per scomparire completamente. Forse bisognerebbe distinguere con attenzione il genere letterario dal formato letterario, che è un’altra cosa.
Per quanto riguarda il giallo-noir, la risposta è semplicissima e la troviamo ancora una volta nella storia della letteratura. Ogni volta che un genere ha raggiunto successo di pubblico e diffusione, è immediatamente entrato in una crisi di idee, di creatività. Il massimo valore di proposta, di rottura e di innovazione di un genere si trova all’inizio della sua parabola storica, poi decade.
Per il giallo-noir letterario in Italia, cioè quello non ghettizzato in gabbie editoriali predeterminate ma libero di installarsi nelle principali collane dei più grandi editori, va fatto lo stesso discorso. Il fatto che una miriade di autori si siano riversati in quello che a loro è parso un solco ben tracciato, promettente e tutto sommato poco faticoso, ha prodotto un abbassamento pauroso del livello medio della proposta. Scritture ultrasemplificate, personaggi stereotipati di detective tutti uguali, umanizzati in modo meccanico per renderli simpatici (con molta arguzia Andrea Cappi ha coniato l’espressione “commissario Cliché”), e poi la storiella ormai francamente insopportabile che solo il giallo-noir parli della società. Questa fola viene ripetuta stancamente da persone che non sanno nulla della produzione letteraria nazionale, e che evocano l’esistenza di una narrativa “bianca” (addirittura) che parla solo dell’ombelico di chi la scrive, mentre il noir si addentra con coraggio e sprezzo del pericolo in mezzo ai marosi della contemporaneità più scomoda.
È il contrario. Il noir così come lo scrivono adesso si fonda su un contratto col lettore basato essenzialmente su formule di intrattenimento, su un menu risaputissimo, sulla cadenza metronomica degli ammazzamenti, sulla ripetitività nella rappresentazione del male (i soliti serial killer che seguono schemi sempre più strampalati, il solito clan dei pedofili, i politici ripugnanti, i poliziotti corrotti), con il risultato di produrre una saturazione in cui il valore di denuncia non esiste più. Basta con questa malafede, non è per saperne di più sulla vita e sulla società che i lettori leggono il noir! Invece assistiamo ormai da almeno dieci anni a una rinascita potente del romanzo sociale che racconta liberamente la realtà senza fare ricorso a schemi preordinati.

Giuseppe Pastore
Credo che i generi siano figli dei tempi, si evolvono nel corso degli anni, si trasformano, conservando però sempre almeno un retaggio di quei tratti peculiari che li hanno fatti assurgere a “generi”. Tuttavia, questa eredità a un certo punto può diventare inattuale e inadeguata per il momento storico in cui dovrebbe essere collocata, e le trasformazioni intanto sempre più marcate, con la conseguente creazione di un genere nuovo, e l’inevitabile morte del vecchio. Sì, secondo me un genere può morire, avendo però gettato le basi per la vita di un altro. Nel caso particolare del noir, in ogni modo, vedo lontano questo momento: credo che l’anima vera di questa letteratura sia più che palpitante, e la polvere che qualche opera “furba” o mediocre può averci gettato sopra per ora non è spessa abbastanza da offuscarne la luce.
Per me, lunga vita al noir (ancora).

Massimo Rainer
Risponderò con una metafora che si riferisce alla mia vita professionale.
L’avvocatura è in crisi conclamata e il malessere ha colpito, in primis, i civilisti.
Si è così assistito a un fenomeno curioso: frotte di colleghi civilisti si sono improvvisati penalisti, raccattando difese che non avevano i mezzi tecnici per esercitare. Il risultato è drammatico quanto imbarazzante: nelle aule di giustizia penale si assiste quotidianamente a degli scempi che vanno a danno degli imputati, oltre che del prestigio della categoria. Non per questo però, il mondo della giustizia penale è morto, la “domanda” è sempre altissima e la professionalità di chi non si inventa il mestiere rimane fuori discussione. Fuor di metafora, il noir non è morto, soffre di infezioni di dilettantismo che spinge a cercare nuove forme di visibilità. Passata la buriana, quando le case editrici decideranno di darci un taglio e di smettere di pubblicare qualunque idiozia scritta da chiunque voglia parlare di morti ammazzati, il noir ritroverà – agli occhi del pubblico – la dignità artistica che gli compete.
Non ci si inventa giallisti o noiristi e i lettori non hanno bisogno di fuochi d’artificio.
Solo di scrittori veri.

Giulio Leoni
Non credo che il noir, e in genere la narrativa di tensione, sia prossimo all’estinzione. Certo, alcuni segnali indicherebbero una certa stanchezza, di autori e di lettori, e come per altri generi del passato anche per il noir potrebbe prima o poi suonare la campana. Ma per morire occorre il verificarsi di una condizione che a mio avviso non si è ancora realizzata, e che a suo tempo ben sintetizzò Nietzsche: Was vollkommen ward, alles Reife – will sterben!
Ossia, traducendo un po’ a braccio, tutto ciò che è maturo e perfetto vuol morire. Frase piena di suggestioni, ma anche sibillina: tanto che Karl Ernst Knodt giustamente la ricantò: Hat allein das Recht zum Sterben! Cioè “solo” ciò che è perfetto ha il diritto di morire.
Ora, affermare che il noir abbia raggiunto la sua completa maturità e perfezione mi sembra alquanto azzardato. A meno che non ci si arrenda all’idea che sia un genere intrinsecamente minore, per il quale occorra accontentarsi di quello che passa il convento senza star troppo a disquisire, direi proprio che il Dante o lo Shakespeare del noir non siano ancora apparsi all’orizzonte. Siamo ancora nella fase aurorale, in fondo è solo qualche decennio che è partita la grande ricerca. La macchina editoriale moderna è stata in grado di riempire questo spazio di migliaia di titoli, ma è una quantità che stenta ancora a farsi qualità assoluta. Questo non vuol dire che prima o poi non avvenga, e magari qualche delusione potrebbe anzi giovare, come la potatura rinvigorisce l’albero da frutto. Allora verranno anche i capolavori, e il genere potrà estinguersi serenamente come un barbuto patriarca della Bibbia, davanti allo stuolo dei suoi discendenti.
L’importante è solo che ciò avvenga, al contrario dei timori di Eliot, con uno schianto e non con una lagna (ancora per rubacchiare qualcosa a un grande.)

Daniele Bonfanti
Se accettiamo la tua premessa, ovvero “al di là delle mode”, allora la mia risposta è no, i generi non muoiono: mutano e si evolvono. Ciò che muore sono appunto i – chiamiamoli così – “generi di moda”, quelli che definiscono libri molto codificati che si impongono per qualche anno sul mercato per poi sparire del tutto. Si tratta non di generi, ma di scatole chiuse e a elasticità zero.
Il genere invece è per sua natura elastico, dai contorni sfumati, miscelabile, dosabile. Non è strano affermare che un romanzo è di fantascienza, ma è allo stesso tempo horror e anche d’azione. Mentre i romanzi “di moda” sono monodimensionalmente racchiusi in contorni ben precisi, e le variazioni possibili sono pochissime.
Proprio questa adattabilità permette, come accade in ambito biologico per gli esseri viventi, l’evoluzione e quindi la sopravvivenza del genere, che si può intendere in questo senso come specie mimetica. L’adattamento sarà, ovviamente, relativo all’habitat in cui le storie vivono: tessuto storico-culturale, Zeitgeist.
All’interno di queste specie si collocano le nostre storie, se nascono da un’idea, da un’esigenza. La differenza rispetto ai generi modaioli è che nel caso di questi ultimi i libri nascono con il preciso intento di collocarsi in essi (“ora scrivo una storia di genere X”, pensa l’autore o l’editore commissionante); mentre nel caso dei generi “veri”, questi costituiscono semplicemente un intorno conseguente alle storie – ma le storie si originano da un’idea, e non dalla volontà di “scrivere una storia di genere X”. Il genere verrà a posteriori, perché quell’idea porta a scrivere una storia con determinate caratteristiche.

Franco Limardi
Quesito interessantissimo e stringente… forse bisognerebbe chiedersi se si possa ancora parlare di “generi” tali per caratteri ben definiti e stabili e per “purezza”, ma questo aprirebbe un’altra discussione, così cerco di rimanere sul “tema”. Non credo che i generi letterari, perlomeno i “maggiori”, abbiano una fine; possono conoscere dei periodi di stasi, di momentanea sparizione, ma non credo nella possibilità di autentici decessi. Quello che sicuramente provoca tali momentanee sparizioni è il logoramento, l’abuso, di determinate caratteristiche e certi stilemi, così come di certe idee, di certi spunti narrativi, che vengono ribaditi, riproposti, sfruttati aldilà di quelle che possono essere delle legittime variazioni sul tema. Ho proprio paura che il “noir” stia morendo, per le dimensioni editoriali che ha assunto, per i suoi contorni ormai così sbiaditi da riuscire a comprendere tutto e il suo contrario, per la elefantiaca offerta che le case editrici riversano sul mercato, che si traduce in una diminuita libertà creativa per gli autori, costretti spesso, a replicare se stessi o a rincorrere modelli altrui. La scrittura morta, banale, come la definisci tu, credo sia l’altro frutto avvelenato di questa situazione, una realtà e un pericolo che minacciano il lavoro dello scrivere, una trappola in cui è facile cadere, perché un linguaggio piatto, banale, salva lo scrittore dalla fatica della creazione e molti lettori dal lavoro della lettura.

Cristina Zagaria
La mia paura? Le case editrici che credono di sapere cosa il lettore vuole leggere, lo scrittore che pur di pubblicare cerca di scrivere quello che le grandi (o piccole) case editrici credono che “sfondi sul mercato”. Risultato? L’omologazione. Ed ecco, da un lato una serie infinita di personaggi seriali più o meno uguali a se stessi (come le donne investigatrici, che “vanno tanto”) e dall’altro lettori annoiati e distanti. Un esempio per tutti. Alicia Giménez-Bartlett ha inventato una grande donna, Petra Delicado, una donna che in ogni libro cambia, si evolve, cresce. Ma tutte le imitazioni, sono imitazioni. È questo che rischia di far morire un genere. Le case editrici dovrebbero cercare, sondare, sperimentare, rischiare e gli autori scrivere per “bisogno” e non per essere letti. Il noir è un genere ampio, che descrive bene la nostra società, che si piega e adatta al malessere interno degli scrittori e dei lettori, un genere che indaga, non fa sconti, che ha solo bisogno di nuovi stimoli e di coraggio, stimoli e coraggio che sono stati proprio le inaspettate ragioni del grande successo di questo genere, quando in pochi ci credevano.

Al Custerlina
Mi sembra che la fine di un genere letterario faccia parte di un processo di evoluzione assolutamente necessario. Basta pensare all’arte figurativa, dove gli artisti di un certo calibro tengono l’occhio puntato in avanti e, per esempio, evitano di scimmiottare la corrente impressionista.
Ciò non toglie che la rivisitazione e la citazione del passato sia assolutamente lecita (a volte inevitabile), ma non per questo deve diventare il leit-motiv unico di un’opera artistica. Naturalmente, bisogna anche considerare che il grande pubblico d’oggi in linea di massima rifiuta l’innovazione, basti pensare alla lirica, dove la rappresentazione delle opere ottocentesche e dei primi del ‘900 è praticamente esclusiva.
Nel caso del noir, direi che si tratta di un genere che ha concluso la sua funzione all’inizio negli anni ‘80, per poi imboccare la strada della commercializzazione estrema (con rare eccezioni). Inoltre, non sono per niente d’accordo con chi attribuisce al noir odierno una funzione esclusiva di lente sul lato oscuro della società moderna. La scrittura è scrittura e non sarà certo un genere annacquato e logoro come il noir di oggi ad appropriarsi di una funzione sociale tanto importante (in più, il noir andrebbe inteso come una sensazione, un mood nel quale immergere una storia, che non necessariamente deve essere poliziesca).
Riguardo alla scrittura banale (e alla banalità delle storie), a mio parere è il segno dei nostri tempi, in cui si bada più alla quantità e all’aderenza alla moda corrente (vedi l’abusato tema dei serial killer, per esempio) piuttosto che alla qualità dell’opera.

Sergio Altieri
No, non ritengo che un “genere” (notare le virgolette) letterario possa morire. Ritengo però che possa – ma soprattutto debba – evolvere, mutare, trasformarsi.
Facendo un breve passo indietro, parlare di “genere” significa applicare etichette. E applicare etichette significa tornare a quella che, a mio giudizio, sì è la tipica diatriba itaGLiota: quali scritti sono Kultura (notare la K) e quali invece non lo sono. Diatriba morta e sepolta, ma soprattutto annientata da troppe realtà contingenti contemporanee, realtà che vanno dall’uso (abuso) di internet all’avvento (vedremo) degli e-book.
Non mi pronuncio sulla tua considerazione riguardo alla scelta di autori o pseudo-autori di scrivere noir seguendo il mercato. Dal mio punto di osservazione quale editor del Giallo Mondadori, devo però sottolineare che a una offerta debordante da parte dei narratori italiani l’industria editoriale è costretta a rispondere con una domanda inevitabilmente limitata.
Tornando quindi all’origine, direi che il futuro del “genere” giallo/noir/thriller si trova nelle contaminazioni, ibridizzazioni, fusioni. Tutte tendenze già in atto e di cui, ritengo, vedremo sempre nuove prospettive.

Sandrone Dazieri
La mia risposta non può che essere una sola: chissenefrega. Da quando esiste la forma romanzo, da sempre si è scritto di crimini e da sempre i crimini sono stati usati per capire la società e gli uomini. Morto il noir ci saranno altre forme, o le forme saranno le stesse e avranno altri nomi. Anche i libri brutti o banali ci sono sempre stati. Una volta una intervistatrice disse al grande scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon che il novanta per cento della fantascienza che veniva pubblicata era merda. Sturgeon rispose: “Certo Signora. Il novanta per cento di QUALSIASI cosa è merda”. Erano gli anni cinquanta. Oggi è ancora così, dentro e fuori le librerie.

Christian Mascheroni
Mi piace il francese. Per dire che “sta facendo buio”, o che è “notte fonda”, loro dicono “Il fait noir”. Perché il nero non è solo il colore distintivo della notte, o di un genere letterario, ma è uno stato d’anima, è il principio dell’oscurità stessa, dove le certezze vengono assorbite dalla cecità, le paure sprigionate dalle ombre, dove regna l’irrisolto sentimentale e criminale. L’indagine del buio e delle sue sfaccettature umane ha sempre caratterizzato i romanzi noir più rappresentativi di questo non genere, dove l’elemento principale resta l’analisi della società attraverso la de-decifrazione dei canoni vittime – criminali, per preferire una maggior aderenza al vissuto e all’accaduto. i migliori noir, infatti, restano quei libri che, probabilmente, non troveremmo nel reparto gialli o thriller, ma nella narrativa non di genere. Non a caso pensiamo alle affinità con la cronaca nera. In un articolo (ben scritto), l’elemento che colpisce di più è la storia umana della vittima, e tanto è più atroce la sua fine, tanto vengono a galla i dettagli sulla sua quotidianità, scavando nei suoi segreti, cercando di far emergere il non detto. Ciò che salta all’occhio del lettore è la dimensione geografica e sociale che fa da sfondo al crimine, i testimoni, i vicini, gli amici, mogli e mariti, persino cani e gatti. Perché la radice del noir è ciò che è insito nelle ombre di una quotidianità svelata solo quando c’è qualcosa che ne cambia la lettura. Così dovrebbe essere oggi un buon romanzo noir, e ce ne sono, non è un non genere morto, per fortuna, purché lo si cerchi al di fuori delle mode e dei filoni. La vita del noir, la qualità della sua scrittura e la sua naturale declinazione risiede in quella letteratura che non ha bisogno di colpevoli o di vittime, ma che porta il lettore dentro il buio che è parte di ognuno di noi. Un esempio? “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee. Non cercatelo fra i thriller.

Mariangela Camocardi
Io credo che il declinare di un genere dipenda essenzialmente dall’eccessiva offerta che ne fa il mercato: il troppo porta inevitabilmente alla saturazione. Ciò che è inflazionato finisce per perdere ogni attrattiva, salvo tornare in auge grazie a un romanzo di successo che funziona da traino, riproponendo appunto il genere. I vampiri, per fare un esempio, ieri così di moda, oggi sono un fenomeno in fase discendente: resiste qualche eccezione grazie ai film tratti dai romanzi stessi. Quando si sfrutta a man bassa un genere narrativo la perdita di interesse ne è la conseguenza, e a mio parere si è esagerato col proliferare degli emuli di Dracula. Il noir, essendo diventato narrativa di largo consumo, corre lo stesso rischio. Certo, di lettori che amano il libro dove un autore riesce sapientemente a equilibrare cronaca nera e immaginario ce ne saranno sempre. Ma per mantenere inalterato il consenso di cui gode al momento, si dovrebbe evitare che il noir sia banalizzato da schiere di proseliti che, più che per passione del delitto, ne cavalcano la popolarità allo scopo di entrare nell’elitario circolo degli scrittori più bravi per emularne il successo, o magari anche solo per carpire di riflesso una certa importanza come membro del gruppo. Il noir fa più intellettuale di altri generi, coi suoi topoi e la sua struttura portante composta da spazi scenici fissi e da schemi altrettanto inamovibili quali il vizio, la perdizione, l’omicidio, la violenza, il sesso. Il tutto inserito e sviluppato nelle contraddizioni metropolitane dei giorni nostri.

Mauro Smocovich
Gli esseri umani hanno sempre avuto bisogno di catalogare le cose per fare ordine nella loro mente e dunque i generi servono per orientarsi nel campo della narrativa. Molti autori però non accettano di essere catalogati, anche se magari si divertono a catalogare gli altri, e molti critici, editor ed editori, ma anche autori quando sono promotori di sé stessi, utilizzano i generi come dei grossi sacchi per poterci infilare dentro qualunque cosa con il solo scopo di poterne parlare o venderla; e molte volte tutti questi simpaticoni non hanno nemmeno approfondito adeguatamente la lettura di quel “genere” di cui parlano spesso e volentieri. Così ci ritroviamo a leggere frasi come “è un grande noir” “oppure “è qualcosa di più di un semplice noir”, “non è solo un noir”. Nel campo della critica e del commercio i generi sono quasi sempre solo etichette riscrivibili e intercambiabili a seconda di quello di cui si crede di aver bisogno in quel momento. In questo modo diventano strilli di copertina per vendere libri e termini di riferimento per poter parlare di qualcosa sulle riviste cartacee o telematiche. Vista da questo punto di vista il nome dei vari generi può cambiare, trasformarsi secondo il periodo storico o geografico o l’opportunità del momento, spesso commerciale, ma anche solo per farsi notare da qualcuno e poi magari ci si strugge perché non si viene notati da quell’altro. Rimane di base il fatto che da sempre gli esseri umani si raccontano le stesse storie, narrano di amore, di drammi, di morte, di indagine… e le catalogano per poi divertirsi a scombinare di nuovo le cose per ricatalogarle nuovamente. È un gioco a volte noioso, a volte divertente, come un vecchio solitario a carte, come la vita. Alla base del noir, del giallo e di tutte le etichette di cui si servono gli esseri umani per catalogare questo genere di narrativa, ci sono il crimine, l’indagine per capire il crimine o ripararne il danno, il percorso distruttivo per sprofondare nel crimine, il male e il bene e le sue derivazioni, la voglia di sapere, attraverso un’indagine psicologica, fantastica o reale che sia, la voglia di riportare tutto ad avere un certo ordine, riuscendoci o meno, consolando o no i lettori. E questo immagino che non verrà mai a mancare, come non verranno mai a mancare la morte, l’amore, la speranza e lo struggimento. Infine non credo che nessuna scrittura, per quanto malsana sia, possa svilire la letteratura che ritengo inattaccabile. Nessun poetastro potrà mai svilire la Poesia, per intenderci. Tutto il resto sono chiacchiere, sicuramente anche le mie. Da tempo ormai ho la netta sensazione che l’umanità si canti e si suoni la stessa canzone dall’inizio dei secoli, che sia nauseata o divertita di questo a seconda degli umori, ma che se lo dimentichi sempre un istante dopo. Di cosa stavamo parlando?

Marina Visentin
Che cosa rende noir una storia? Non un certo tipo di personaggio, una determinata situazione o ambientazione, o un preciso meccanismo narrativo, ma piuttosto un sapore, una sensazione, un’inquietudine dello sguardo. Il noir è più un’atmosfera che uno schema, forse per questo mi piace particolarmente.
Le storie noir mi affascinano da sempre, perché sono una lente attraverso la quale vedere il mondo, i rapporti fra gli uomini e le donne, fra gli uomini e il potere, le donne e il denaro, i padri e i figli, le madri e le figlie, insomma praticamente tutto, o quasi. E si tratta di una lente molto potente, perché capace di indagare il male, il dolore, la sofferenza, la violenza.
Di tutti i generi, il noir mi sembra sia quello che più eccede le regole, e meno si lascia contenere dentro una scatola di istruzioni rigide. Insomma, il noir, per i motivi che ho descritto, è secondo me un genere davvero particolare. Il noir è un genere che attraversa i generi, che non si lascia definire da regole e limiti precisi, che eccede inevitabilmente l’essere genere, in ciò sta la sua ricchezza. Per questo, a mio parere, è destinato all’ immortalità.
Quanto alla scrittura morta e banale di cui parli, non mi sembra proprio che il problema riguardi solo il noir. Da questo punto di vista, forse è delle sorti della letteratura intera che ci si dovrebbe preoccupare! Certo, poi ci sono i romanzi brutti, ma questa è un’altra storia… Non basta qualche romanzo brutto o inutile per decretare la fine di un genere. Per fortuna!

Barbara Garlaschelli
Nessun genere muore se non muoiono la buona scrittura e i buoni cervelli. I libri – sia quelli che scriviamo sia quelli che leggiamo – ci rispecchiano. Guardiamo ciò che viene venduto e letto e traiamo le dovute conseguenze. Sinceramente non mi preoccupo dello stato di salute della letteratura di genere, di qualunque colore essa sia. I buoni libri esisteranno sempre fino a che ci saranno bravi scrittori e scrittrici. E ci sono, magari in numero minore della quantità di libri pubblicati. E per buoni autori intendo coloro che sanno scrivere belle storie, in bello stile. Un po’ retrò, forse, come considerazione, ma è così che la penso. Il valore aggiunto è il senso etico e l’impegno civile in quanto autore. Chi asseconda il mercato o il favore del pubblico non necessariamente fa un cattivo lavoro. Non bisogna demonizzare chi ha successo (tendenza italiana assai diffusa, soprattutto in campo letterario. “Vendi molto? Allora scrivi da schifo”.). Diciamo che l’ideale sarebbe raggiungere il maggior numero di lettori possibili con i migliori libri possibili. Cosa non facile anche perché esistono meccanismi editoriali che sfuggono totalmente al controllo e alle previsioni di chi scrive. E di chi legge.
La domanda non dovrebbe essere: è morto il genere, ma: sono morti i bravi scrittori? Direi di no. Quindi abbiamo speranze.



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