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Il paradosso dell’Euro forte (e della rupia debole)

Creato il 16 settembre 2013 da Keynesblog @keynesblog

Il paradosso dell’Euro forte (e della rupia debole)

Un articolo di Daniel Gros pubblicato dal Sole 24 Ore offre qualche spunto interessante per capire come il sistema di cambi flessibili in vigore dal 1971 sia tutt’altro che ottimale.

Quando la Federal Reserve ha iniziato i “”quantitative easing”, i paesi emergenti hanno elevato vibranti critiche, temendo che gli Stati Uniti volessero perseguire una sistematica svalutazione del dollaro che li avrebbe danneggiati. Eppure, spiega Gross, i QE non hanno avuto effetti sostanziali sugli emergenti. Ciò che invece ha davvero danneggiato i Brics è l’austerità europea:

Il solo annuncio che la Fed possa ridimensionare le operazioni non convenzionali ha portato alla fuga di capitali dagli emergenti. Ma questa ricostruzione fa perdere di vista la ragione per cui negli ultimi anni c’è stato un afflusso di capitali verso gli emergenti. Il colpevole è l’euro. [...] L’effetto dell’allentamento quantitativo sui mercati emergenti è stato grossomodo neutro. Ma l’austerità in Europa ha avuto un profondo impatto sul saldo delle partite correnti dell’eurozona, che è passato da un deficit di quasi 100 miliardi di dollari nel 2008 a un surplus di quasi 300 miliardi nell’anno in corso. La ragione: l’interruzione dei flussi di capitale verso i membri meridionali dell’area, che ha costretto questi paesi a intervenire sulle partite correnti, portandole dal deficit combinato di 300 miliardi di dollari di tre anni fa all’attuale piccolo surplus.
Siccome i paesi del nord non hanno aumentato la loro domanda, nell’eurozona si riscontra il più forte surplus nelle partite correnti a livello mondiale, superiore persino a quello della Cina. Questa straordinaria fluttuazione di quasi 400 miliardi di dollari nel saldo delle partite correnti dell’eurozona non è il risultato di una «svalutazione competitiva»: l’euro è forte. La vera causa del forte surplus commerciale è stata una domanda interna così debole che negli ultimi cinque anni si è avuto un ristagno delle importazioni (con un tasso di crescita annuale media dello 0,25%). La causa della situazione attuale è l’austerità. La debolezza della domanda europea è la ragione per cui i saldi delle partite correnti dei mercati emergenti sono peggiorati.
I leader dei mercati emergenti avrebbero dovuto criticare l’austerità europea, non l’allentamento quantitativo Usa.

In sostanza, spiega Gros, il tasso di cambio conta relativamente nel determinare la bilancia commerciale: nonostante l’euro forte, l’Europa è diventata un esportatore netto, grazie all’effetto del calo dei redditi nei paesi deboli dell’eurozona, che hanno di conseguenza importato meno.

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C’è poi una seconda parte della storia, a cui Gros solo accenna: il deflusso dei capitali dalle economie emergenti, seguito al preannuncio di un rallentamento del QE da parte della Federal Reserve. Deflusso che sta ponendo seri rischi soprattutto all’India. Mentre la rupia crollava sui mercati valutari a seguito della fuga dei capitali (i movimenti di capitali hanno la gran parte della responsabilità del tasso di cambio, mentre la bilancia commerciale ha un effetto minimo), nessuno esultava pensando a un riequilibrio della bilancia dei pagamenti e a maggiori esportazioni. Al contrario, il timore è che l’India esaurisca le sue riserve di dollari, necessari a finanziare le importazioni, entro pochi mesi.

Paradossalmente, il paese più solido al momento rimane la Cina, che in questi anni non ha lasciato che i mercati determinassero i tassi di cambio, ma li ha gestiti, a volte stabilendo un rapporto fisso con il dollaro, altre volte acconsentendo all’apprezzamento dello Yuan.

Insomma, le cose sono ben più complicate rispetto alla vulgata secondo la quale la svalutazione è una panacea per i paesi in deficit e che quello dei cambi flessibili è il miglior sistema possibile. Tutt’altro.

Del resto, se così fosse, solo dei matti potrebbero pensare di “peggarsi” ad una valuta forte. Se lo fanno è perché vi è una forte pressione in tal senso dovuta a valute nazionali instabili, capitali che fuggono, necessità di rifornimento di materie prime. Il cambio fisso spesso crea nuovi problemi, ma sarebbe ingenuo credere che i paesi che l’hanno adottato l’abbiano fatto solo perché guidati da classi dirigenti corrotte o catturate da interessi esteri.

La soluzione non sta perciò nello scegliere il minore dei mali tra cambi fissi o cambi flessibili, ma nel muoversi verso un sistema di cambi “gestiti” e il controllo dei movimenti di capitali, come in parte era sotto il regime di Bretton Woods e soprattutto come dovrebbe essere in un sistema monetario ispirato all’International Clearing Union di Keynes.

In quello che sta accadendo in questi mesi, c’è una lezione fondamentale anche per l’Europa.


Archiviato in:Economia, Europa, Global, ibt Tagged: bilancia commerciale, brics, Daniel Gros, dollaro, euro, India, svalutazione, tasso di cambio

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