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Il racconto dei racconti -Tale of Tales-

Creato il 10 giugno 2015 da Af68 @AntonioFalcone1

1In concorso al 68mo Festival di Cannes, insieme ad altri due titoli italiani (Mia madre, Nanni Moretti; Youth – La giovinezza, Paolo Sorrentino), Il racconto dei racconti- Tale of Tales di Matteo Garrone è un’opera complessivamente riuscita e, soprattutto, piacevole, anche se, almeno questa è la primaria sensazione che mi ha suscitato, idonea a restare impressa più per il coraggio della realizzazione in sé che per un fascino propriamente ammaliante. Coinvolge certo la vista e la mente, ma non il cuore, lasciando che quel fanciullino di pascoliana memoria, il quale da sempre trova buon albergo nei reconditi anfratti della nostra più intima essenza, attenda invano nel corso delle due ore di proiezione un sussulto intimamente immaginifico, un caldo afflato fiabesco che permetta di (ri)scoprire particolari sensazioni idonee a farci gongolare e sorprenderci come quel bimbetto che un tempo siamo stati, fra un ooh di meraviglia e l’altro.

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A Garrone va certo riconosciuto il merito di aver dato impulso opportuno ad una diversificazione dell’offerta cinematografica che parte dalla riscoperta dei generi, il fantasy in tal caso, settore quest’ultimo dove le nostre produzioni non sempre hanno particolarmente brillato (a parte le incursioni/contaminazioni presenti nell’horror e nei peplum o sceneggiati televisivi come, esempio relativamente recente, Fantaghirò, 1991, Lamberto Bava), strizzando l’occhio a quel particolare mix di creatività ed artigianalità che, in particolare negli anni ’60-’70, ha permesso di ovviare a varie problematiche di realizzazione.Probabilmente l’intento primario dell’autore, coadiuvato nella sceneggiatura da Edoardo Albinati, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, è stato quello di offrire una valida visualizzazione, connotata dal suo indubbio talento registico, all’opera letteraria di Giambattista Basile (Lo cunto de li cunti ovvero lo trattenemiento de peccerille, pubblicata a Napoli, postuma, fra il 1634 e il 1636), 50 fiabe raccontate da 10 donne nel corso di 5 giorni (da cui il titolo alternativo di Pentamerone), la quale trova un antecedente adattamento cinematografico, almeno come ispirazione primaria, in C’era una volta, 1967, diretto da Francesco Rosi.

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E’ da qui che Charles Perrault o i Fratelli Grimm hanno derivato le versioni di alcune delle più note fiabe/favole ormai universalmente conosciute, mutuando dal Basile in particolare il senso più puro del racconto fantastico, popolato da magiche creature, quello idoneo a confluire, inframmezzato da toni ironici, sentimentali, senso dell’orrido, in un incontro con la quotidianità della vita umana, rimarcandone vizi, bramosie e storture.
Da non dimenticare poi il tono morale, per cui ad ogni moto o desiderio umano deve corrispondere necessariamente una reazione, idonea quest’ultima a mutare le sorti sia di colui che li ha posti in essere, sia di quanti gli sono vicino.
Garrone e gli altri citati sceneggiatori hanno dunque estratto dal citato testo letterario tre fiabe, i cui eventi si svolgono in tre regni diversi, circolarmente collegate attraverso la testimonianza offerta al riguardo da una famiglia di giocolieri, il cui spettacolo va in scena presso le diversi corti.

John C. Reilly e Salma Hayek

John C. Reilly e Salma Hayek

La Regina. Nel regno di Selvascura, la Regina (Salma Hayek) vive in uno stato di prostrazione, il suo matrimonio col sovrano (John C. Reilly) non è stato allietato dalla nascita di figli. Un negromante suggerisce un particolare rimedio per ovviare a tale mancanza, la donna dovrà mangiare il cuore di un drago marino, messo a cottura da una vergine.
Il re ucciderà la bestia, ma perirà a sua volta nell’impresa; il luttuoso evento non distoglierà la donna dal suo proposito, il cuore dell’animale ucciso verrà dunque prontamente messo a cuocere da una inserviente vergine, la quale però ne aspirerà i vapori nel corso della cottura.
Fecondate all’istante, le due donne daranno luce ai rispettivi figli nella stessa notte, i quali, crescendo…

Bebe Cave e Guillame Delaunay

Bebe Cave e Guillame Delaunay

La pulce. Regno di Altomonte. La figlia del re (Toby Jones), Viola (Bebe Cove), compensa la solitudine e la trascuratezza degli affetti del padre attraverso la dedizione alla musica e alla letteratura, entrambe idonee a solleticarle l’immaginazione, fantasticando l’arrivo di un baldo giovane che la possa condurre verso un’altra vita. Intanto il genitore dedica tutte le sue attenzioni ad una pulce, tanto da allevarla come un qualsiasi animale domestico.
Divenuto enorme, l’insetto verrà a mancare, annientato dalle sue stesse dimensioni, ma si rivelerà ancora utile al sovrano, che si servirà della sua pelle, esposta a corte, per indire un particolare torneo, indovinare a quale animale potesse appartenere: al vincitore verrà concessa la mano della figlia.
A risolvere l’arcano sarà però un orrendo orco (Guillame Delaunay)… Ma la parola è parola …

Vincent Cassell

Vincent Cassell

Le due vecchie. Regno di Roccaforte. Il re (Vincent Cassel), è un uomo piuttosto libertino, dedito ad ogni genere di sollazzo, soprattutto erotico, alla ricerca continua di quanto lo possa ulteriormente stimolare al riguardo. Incapricciatosi di una donna al solo sentirla cantare, inizia dunque a corteggiarla con insistenza, ignorando come questa, Dora (Hayley Carmichael) sia in realtà piuttosto avanti negli anni, al pari della sorella con la quale vive, Imma (Shirley Henderson). Sarà la prima ad istigare ulteriormente la fantasia del sovrano, ordendo un abile inganno, il quale però volgerà presto, nonostante le apparenze, a loro danno… Garrone si conferma autore dal superbo e raffinato gusto visivo, qui ulteriormente avvalorato dalla fotografia di Peter Suschitzky, valida apportatrice di un particolare sentore pittorico, avvertibile nella satura esaltazione dei colori in ogni singola inquadratura, oltre che nella pregevole resa scenica volta a valorizzare gli splendidi scenari naturali, sul cui sfondo si stagliano spesso trucchi dalla realizzazione “antica”, lontani dall’artificiosità propria delle mirabilia digitali, comunque presenti, pur se in minima parte.

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Assecondando quel trasporto genuinamente barocco proprio dell’opera d’origine, Garrone fa propria, ammantandola dei toni per lui consueti del grottesco e del tragico, spesso confluenti l’un l’altro, l’intuizione propria del Basile, già descritta nel corso dell’articolo, mettere in contatto la straordinarietà del magico e la “normalità” del quotidiano connotando tale incontro di un forte realismo.
Affronta dunque un percorso inverso a quanto messo in atto finora nelle sue opere, dove, vedi il precedente Reality, ha raffigurato la necessità dell’uomo di crearsi una realtà alternativa, un paradiso sulla terra ad uso e consumo delle proprie miserie, Nirvana etereo capace d’annullare una qualsiasi affermazione della propria individualità, solipsismo compensativo della rinuncia al mondo reale.
Risalta anche la “modernità” dell’assunto fiabesco nel suo impianto originario, contenente in sé elementi dalla portata dichiaratamente universale, da rendere i racconti estremamente attuali, senza che si renda necessario alcun revisionismo di sorta (dall’ossessione relativa al desiderio di maternità al possesso totale del figlio tanto desiderato, passando per la smania della bellezza ad ogni costo o i rapporti genitori-figli, con le trascuratezze dei primi a scontrarsi coi desideri a stento trattenuti dai secondi).

Mateo Garrone

Matteo Garrone

Dove Garrone fatica un po’, almeno a mio avviso, è nell’evitare una certa progressività meccanica nell’andamento complessivo della narrazione, mancando in parte il bersaglio volto a conferire una circolarità effettiva alle storie narrate, cui a volte sembra estranea una compiuta immedesimazione col fascino eterno proprio della fiaba. Un suggestivo e caratterizzante colpo d’ala si rinviene nella sequenza finale: un funambolo in cammino su di una corda infuocata spiegata fra due muri, ricorda ai protagonisti, e agli spettatori, di come siamo tutti in equilibrio precario su quella fune tesa che è la vita.
Il racconto dei racconti si sostanzia in conclusione come un film da vedere ed apprezzare per il senso del meraviglioso scaturente dal suo suggestivo ed incantevole fascino visivo, un po’ meno relativamente ad un trasporto più propriamente immaginifico, versante spesso inerte ed essenzialmente figurativo.
Ma nell’ambito della nostra produzione filmica più recente costituisce certo qualcosa di prezioso e raffinato nella sua esecuzione (un plauso anche al commento musicale di Alexandre Desplat), da prendere ad esempio e stimolo, perché no, per eventuali produzioni future, magari offrendo una maggiore, vivida, forza trascinante alla “giocosità di raccontare” in quanto tale (da I racconti di Canterbury, Pier Paolo Pasolini, 1972, dall’omonima opera, The Canterbury Tales, 1387-1388, di Geoffrey Chaucer).


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